Patria (Ecco: non credo)

17 Marzo 2011

Come molti, forse come l’italiano medio, ho sviluppato fin da piccolo una grave allergia verso la parola patria e non ho ancora trovato il modo di guarirne. Non l’ho nemmeno cercato, a esser sincero.
L’allergia si estende a tutte le parole che hanno la maiuscola, o la contengono implicita. Mi irritano, sbocciano immediate eruzioni cutanee che preferirei evitare. Non le capisco, e ancora meno capisco i loro significati.

 

Quando mi capita di incocciare in qualcuno che le usa, non so mai di cosa stia parlando davvero. E se mi sembra di capire qualcosa, è tutta roba che non mi piace. Sento sempre puzza di bruciato. No, grazie. Con tutto che ho studiato filosofia e sono legatissimo (ma anche distantissimo) al luogo e alle persone che mi stanno attorno. (La patria potrebbe essere questo, ma non credo lo sia).

 

Del resto ci penso poco e non mi viene in mente nessuna ragione per farlo, se non per amicizia qui. (Anche l’amicizia potrebbe essere patria; sarebbe bello, ma ancora non credo. Ecco: non credo).
Patria ha un senso, forte quanto vago, solo per gli emigranti, che però raramente usano la parola: gli emigranti esterni e interni, quelli che stanno via, fuori, anche quando stanno dentro. Quelli esterni di solito dicono “il mio paese”, e spesso lo intendono alla lettera come il villaggio d’origine, con gli immediati dintorni al massimo.

 

Del Paese invece, molti, specie oggi, si vergognano: non conosco una persona che abita all’estero che oggi non sprofondi quando amici, vicini, compagni di lavoro e conoscenti occasionali gli dicono: “Ah, sei italiano. Quel Berlusconi...” (E fosse solo per lui! Che è già parecchio...). Negherebbero di esserlo, come San Pietro, se potessero. Con identica vergogna per la negazione.

 

Se proprio devo passare a un livello un po’ più generale, penso non alla Patria ma all’Italia, che è una designazione geografico-culturale dai bordi sfrangiati e poco più. Fosse meno, mi piacerebbe di più.
L’Italia (la Patria), come stato-nazione che oggi celebra i 150 di vita, sappiamo tutti come è stata fatta, e cosa ne è stato dopo. Una “necessità” storica, ai tempi; uno stato transitorio oggi: inglobata come sarà fra poco, da una parte, in qualche organismo più ampio, e frammentata, dall’altra, in unità più piccole, a loro volta arbitrarie e egoiste.

 

E miopi, come sono sempre state in passato, con tutta la gloria che alcune hanno saputo produrre. In mezzo poche cose buone, come la Costituzione, e molte nefaste, come oggi. (Patria sarebbe allora ciò che dobbiamo difendere contro i barbari interni? Contro i delinquenti che stanno distruggendo e svendendo il poco di buono che nonostante tutto il passato ci ha tramandato?).
Trovo solo definizioni per via negativa. Ciò che dovrebbe fornirmi un’identità, Patria o Italia che sia, ne è a sua volta sprovvista. (E meno male).

 

Se guardo cosa mi resta della patria, ridotta all’osso, scrostata da tutte le sozzure che le sono intrecciate, e direi quasi che in buona parte la costituiscono, l’unica grande cosa è la lingua. Non sarà originale, ma è così: la mia patria è la lingua, dialetto incluso.

 

Considero patria tutto ciò che ho dentro e non si può estirpare, da qualunque fonte e luogo provenga. Ciò che ho dentro dall’inizio e ciò che mi è entrato nel tempo e mi ha fatto quel che sono. Reticoli. Allora non ho una patria, ne ho molte. Ho dei reticoli multidimensionali di patrie, alcuni dei quali avvolgono il globo, altri pochi chilometri quadrati; alcuni sono fatti di luoghi, di materia; altri di cose, di opere e di parole; alcuni sono immersi nel passato (i morti), altri nel presente, pochissimi nel futuro (immaginato); sono tutti crivellati di buchi, da dove passa anche il respiro; alcuni sono radi, altri più fitti: più si avvicinano a me, più sono fitti, anche se non è detto che quelli più radi siano meno forti. Le patrie che ho e che amo sono queste.

 

(Fotografia di Giacomo Mozzi)

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