Pentito

3 Maggio 2011

Come un figurante, che disattende l’ordinato scorrere del copione, il primo “pentito” della storia criminale italiana sbaglia tragicamente il tempo  dell’entrata in scena. Fa la sua comparsa, in quel di Palermo, nel marzo del 1973 invece di aspettare, come dovrebbe, gli anni ottanta. Infatti il dizionario Zingarelli sancisce che solo a partire dal 1980 che, accanto al significato tradizionale morale e religioso del termine “pentito”, emerge una nuova connotazione. È quella del “terrorista o altro criminale disposto a collaborare con la giustizia ottenendo attenuanti, benefici e riduzioni di pena”.

 

Il primo pentito si chiama Leonardo Vitale. È uomo assai interno alla rete mafiosa e ha maturato un personalissimo percorso spirituale. Dunque, con cristallino rigore, ne tira le conseguenze: il 30 marzo 1973 irrompe nella Questura di Palermo e, senza chiedere alcuna contropartita, delinea con totale precisione l’organigramma del Gotha mafioso e ricostruisce tutte le principali imprese delittuose dell’organizzazione della quale ha fatto parte e sulla quale si sta stagliando l’ascesa dei Riina e dei Calò.

 

Nella Palermo di quegli anni un pentito fuori tempo, e soprattutto che tradisce la Mafia alla quale appartiene, viene preso per pazzo e infatti la giustizia, che provvede ad assolvere tutti i coinvolti nella denuncia di Vitale, usa fior di perizie psichiatriche per rinchiuderlo in un manicomio giudiziario. Quando undici anni dopo Vitale esce tutti lo hanno dimenticato ma non la Mafia. Viene assassinato mentre, consapevole del destino che lo attende e deciso a non nascondersi, esce dalla chiesa dei Cappuccini dove come ogni giorno ha assistito alla messa.

 

In  passato - davanti all’escalation di sequestri di persona con cui la malavita organizzata, soprattutto la n’drangheta, dispiega la sua fase di accumulazione capitalistica - una legge, quella del 14 ottobre 1974,  ha previsto forti sconti di pena per chi, coinvolto nel sequestro, si adopera per la liberazione della vittima.

 

È il primo tassello di una legislazione finalizzata a incrementare i collaboratori di giustizia: a queste norme del 1974 si attinge poco dopo nel contrasto al terrorismo (già con decreto legge del 21 marzo 1978  a pochi giorni dall’agguato di via Fani). Una scelta che sarà all’origine del “pentitismo”, strategia che in Italia come del resto era accaduto anche altrove, viene dispiegata contro il terrorismo e la criminalità organizzata.

 

Quando Patrizio Peci, componente storico delle Brigate Rosse, il 18 febbraio 1980 viene arrestato a Torino e comincia a collaborare con l’Antiterrorismo del generale Dalla Chiesa, sono state approvate da pochi giorni le “Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica”, d.l. 15 dicembre 1979, convertite in legge il 6 febbraio 1980, n. 6, che costituiscono le basi  delle cosiddette “leggi d’emergenza”. Queste, oltre a fornire nuovi strumenti d’azione alle forze dell’antiterrorismo, riducendo alcune garanzie dei cittadini fermati o indagati, danno sistematicità alla “legislazione premiale”. Di fatto introducono norme che prevedono un trattamento differenziato per chi, coinvolto in attività terroristiche, collabora con la giustizia penale.

 

Nasce così la figura del “pentito” che, nell’ambiguità di riferimenti connessi al termine - utilizzato sino ad allora per ambiti moral-religiosi per poi trasferirsi in campo giudiziario e poliziesco - si distacca sia dalla tradizionale figura del confidente di polizia, presente in tante precedenti vicende processuali, sia del collaboratore di giustizia – contemplato negli stessi anni nelle procedure giudiziarie di altri Paesi.

 

Il “pentito” è inoltre altra figura rispetto  al “dissociato”, soggetto che viene delineato in prima battuta dalla legge del 29 maggio 1982 (“Misure per la difesa dell’ordinamento costituzionale”) e che troverà più sistematico  inquadramento nelle “Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo” del 18 febbraio 1987. Sono norme che concedono riduzioni e sostituzioni di pena per condannati per terrorismo o eversione che abbiano effettivamente abbandonato la lotta armata e, ammettendo le attività svolte, abbiano ripudiato la violenza come metodo di lotta politica.

 

Bisognerà invece attendere i primi anni novanta perché meccanismi di incentivazione alla collaborazione siano introdotti anche per i reati legati alla mafia o alle altre organizzazioni criminali. Vi provvede la legge 203 del 1991 che aprirà la porta a una scelta che si rivelerà complessa e contrastata, con conseguenze che perdurano nei nostri anni. Le leggi “premiali” si dimostrano efficaci per abbattere le gerarchie di “Cosa Nostra” ma  aprono la porta altresì  a non pochi procedimenti giudiziari dove le versioni dei “pentiti” di mafia, raccolte dalla pubblica accusa, diventano i cardini probatori decisivi, se non esclusivi, di processi che investono decisamente i vertici della politica e della vita pubblica. I risultati giudiziari alla fine  risultano assai controversi e suscitano non pochi interrogativi sulle modalità con cui le versioni dei collaboratori di giustizia, spesso responsabili di efferati delitti alla cui punizione sfuggono grazie alle legislazione premiale, aderiscono alla verità dei fatti. L’interrogativo concerne la possibilità di verificare  effettivamente ricostruzioni che talvolta paiono essere fornite dal pentito, in vista di possibili vantaggi, à la carte. Ricostruzioni che pur sovrastate da questi interrogativi non secondari finiscono spesso con l’assumere un ruolo centrale nell’assecondare o affondare strategie di definizione della verità giudiziaria. E non su temi di second’ordine ma su questioni cruciali quali il rapporto, da provare senza alcun ombra di dubbio e non per sentito dire, tra  esponenti politici e la mafia. O la tesi, sostenuta da alcuni pentiti, del presunto appoggio di ambienti in odor di mafia all’ascesa finanziaria e poi politica berlusconiana.

 

 

 

Il “pentito” – sia di terrorismo sia su vicende di criminalità organizzata – diventa, proprio a partire dagli anni Ottanta, uno dei personaggi-chiave del palcoscenico giudiziario-criminale e politico-mediatico del nostro Paese.

 

La filigrana tragica che percorre l’irrompere del “pentito” nella legislazione e nella cronaca italiana è evidente già con la parabola del primo terrorista pentito. Vale a dire quel Patrizio Peci che fornisce le informazioni che sono all’origine del fulminante blitz del 28 marzo 1980 con cui l’Antiterrorismo del generale Dalla Chiesa annienta, con un’irruzione notturna in un appartamento di via Fracchia, la colonna genovese delle Brigate Rosse i cui quattro componenti sono uccisi. Poco più di un anno dopo le Brigate Rosse sequestrano e assassinano per ritorsione Roberto Peci, fratello del pentito.

 

 

 

Altro caso clamoroso collegato al pentitismo è quello di Enzo Tortora. Il noto presentatore televisivo viene accusato da elementi della Nuova Camorra,coinvolti in assassinii e altri gravissime azioni, di aver collaborato con la criminalità per spacciare droga e trafficare armi. L’accusa dei pentiti Pasquale Barra, pluriomicida e Giuseppe Panico, alla quale prestano fede alcuni PM,  trascina Tortora nel giugno del 1983 in carcere e lo getta in un’odissea durata, tra galera e arresti domiciliari, 1185 giorni. Fino a quando il presentatore TV viene assolto con formula piena. Questo clamoroso caso scatenerà un fortissimo dibattito nel Paese e alla fine porterà al referendum abrogativo che, nel novembre 1987, mira ad introdurre nell’ordinamento giudiziario italiano nuove norme sulla responsabilità civile dei giudici.

Uno dei più famosi pentiti di Mafia durante gli anni ottanta è Tommaso Buscetta, esponente di primo piano di Cosa Nostra  che dopo essere stato arrestato in Brasile e quindi estradato in Italia, comincia a collaborare con i giudici palermitani, in particolare con Falcone, fornendo un rilevante e dettagliato affresco della struttura assunta dall’organizzazione criminale sia in Sicilia sia nelle sue variegate diramazioni internazionali. La risposta dei capi di Cosa Nostra è l’assassinio di due figli e di altri parenti stretti del pentito, al quale viene fornita una nuova identità dallo Stato italiano così da consentirgli di finire i suoi giorni negli Stati Uniti.

 

 

 

Rispetto ai circa 6000 collaboratori di giustizia presenti negli Stati Uniti  e affidati alla protezione di un apposito corpo, il Marshal Service, i “pentiti” italiani, in buona parte connessi a indagini sulla criminalità organizzata, dopo aver superato verso la metà degli anni novanta  quota 1200, a cui erano da aggiungere oltre 5000 famigliari in regime di protezione, si sono poi alquanto ridotti. Verso la metà degli anni doppiozero si aggirano sulle ottocento unità. Cifra alla quale devono essere sommati circa tremila famigliari. L’onere complessivo per la gestione dei pentiti da parte dello Stato è stato mediamente, negli ultimi anni, sui 60 milioni di euro annui.

 

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