Pier Paolo Pasolini / L'umile Italia
Il Pasolini assiduamente evocato e invocato – e altrettanto spesso banalizzato – a suffragare le tesi dell'italianologo di turno è quasi sempre lo scrittore corsaro, il polemista eretico dell'abolizione della scuola dell'obbligo, del romanzo delle stragi, della mutazione antropologica. Forse sarebbe il caso di prendersi la briga di rileggere, con le Lettere luterane, anche questa sezione delle Ceneri di Gramsci: è da questa lirica e appassionata descrizione dell'Umile Italia che molte delle sue tesi discendono (“Questa è l'Italia, e / non è questa l'Italia”). Magari solamente per non trascurare l'ipotesi che il Paese rimpianto – insieme alle lucciole, – da Pasolini sia anche un'invenzione letteraria.
I
Qui, nella campagna romana,
tra le mozze, allegre case arabe
e i tuguri, la quotidiana
voce della rondine non cala,
dal cielo alla contrada umana,
a stordirla d'animale festa.
Forse perché già troppo piena
d'umana festa: né mai mesta
essa è abbastanza per la fresca
voce d'una tristezza serena.
Cupa è qui la tristezza, come
è leggera la gioia: non ha
che atti estremi, confusione,
la violenza: è aridità
il suo ardore. Invece è la passione
mite, virile, che rischiara
il mondo in una luce senza
impurezze, che al mondo dà le care
civili piazzette, dove ignare
rondini scatena l'innocenza.
Borghi del settentrione, dove
dal ragazzo con fierezza
e allegra umiltà nasce il giovane,
e vive la sua giovinezza
da vero adulto, benché piova
il suo occhio chiaro e la sua bionda
testa luce infantile: ma è
quell'infanzia solo gioconda
onestà: egli nella sua fonda
vita il mondo matura con sé.
Perciò possono ancora le rondini
cantarlo, gettandosi lievi
nelle piazzette dei girotondi,
dei canti puerili, dove le nevi
si dissolvono in biancospini,
più pure, e questi si mutano
per la dolce foga della semenza
in rose, in gigli: ché confini
le stagioni non v'hanno, né incrina
nuova esistenza l'esistenza.
Qui venti affricani l'assolato
inverno bruciano: nascono
carnai di fiori, è già estate.
I ragazzetti dentro tasche
già impure infilano viziate
le mani: la loro violenza
infantile resterà nella nera
loro bellezza adulta. Esperienza
è ironica durezza: senza
rondini, di cani urla la sera.
O, se rondini volano, alte
vanno a stridere su tetti
di grandi case dove l'arte
straripante dei secoli eletti
scolora come in vecchie carte:
e anche il loro garrito,
se girano in cielo, smuore
in diversi spazi, in un mitico
scenario. E su di esso sbiadito
si schiude un cielo di memorie.
La jungla delle anime scure
come la pelle e gli occhi, che
la moderna vita nutre a dure
necessità e bassezze, ormai è
su Roma, la stringe in impure
confusioni, in ciechi smarrimenti
di stile, come una piena sale
oltre i rotti argini: impotente
la Roma del potere ne sente,
ancora plebe, l'ansia nazionale.
II
Ah, rondini, umilissima voce
dell'umile Italia! Che festa
alle pasquali fonti, alle foci
dei fiumi padani, alla mesta
luce della piazzetta, dei noci,
dei filari a festoni da gelso
a gelso, che ai vostri garriti
verdeggiano più umani! che eccelso
significato in quel vostro perso
groviglio, nuovo, di gridi antichi.
È dentro il tempo dato al puro,
allo struggente passare che
lanciate con sopita furia
quei vostri gridi: in sé,
quieto, li accoglie un già scuro
cielo primaverile, o un'alba,
o un lieto mezzogiorno... E passa,
con lo stupendo tempo che gli alberi
ingemma e spoglia, le ore scialbe
accende, raggela i caldi sassi.
È nel tempo puramente umano,
accoratamente umano, che
s'incide il vostro guizzo vano
di animale dolcezza, è
– insieme prossimo e lontano –
nel tempo che non torna, e torna
sempre sopra il mondo che non ha
rimpianti, a sprofondar la gorna
solatia, l'acre aia, l'adorna
campagna, quasi in perduta età.
È indifferenza o nostalgia
il sentimento – anch'esso umano
e fuggitivo – di chi vi spia,
in quel meriggio, in quel gramo
vespro, perse in turchine scie...
La natura vi dà e la natura
vi esprime nel cuore che stordite.
Il tempo che uguale s'infutura
con sé vi trasporta nell'oscura
monotonia che rinnova le vite.
Ah, non è il tempo della storia,
questo, della vita non perduta,
non sono questi gli alti, incolori
luoghi di una patria divenuta
coscienza oltre la memoria.
Ma dove meglio riconoscerli
che in questi antichissimi incanti
in cui son più vicini? Fossili
d'un'esistenza che ai commossi
occhi, non si svela, si canta?
Dove meglio capire, intera,
la natura che deve farsi
nazione, l'mbra che s'avvera
nella chiarezza? Ah dolci intarsi
che nella vellutata sera
della Venezia, della Lombardia,
– terrorizzata quasi nella
troppa ebbrezza, nella pazzia
che troppo la trascina – pia
la rondine intreccia sulla terra.
Più è sacro dov'è più animale
il mondo: ma senza tradire
la poeticità, l'originaria
forza, a noi tocca esaurire
il suo mistero in bene e in male
umano. Questa è l'Italia, e
non è questa l'Italia: insieme
la preistoria e la storia che
in essa sono convivano, se
la luce è frutto di un buio seme.
III
Imperlate già di nascenti
stelle, vibrano tra i castagni
le rondini. Confuse le senti
lacerare l'aria sugli altagni
secchi, sui tiepidi spioventi
della villa, e lo stradone
cupo nel suo tenero asfalto;
la famiglia tace, del padrone,
ma i figli dei mezzadri, come
nel vecchio mondo gridano alto!
Come si assiepa il secolare
loro gridìo di servi indenni
da bassezza, nella popolare
dignità dei rustici e solenni
loro municipi settentrionali...
Loro è la sera, loro è l'accento
della campana; s'è il dolce sabato,
loro è l'allegrezza che il vento
da orti, aie, osterie, lento
e quasi religioso, dirada.
Ecco là, le loro macchie vivide
di tigli, e in nude prospettive
i gelseti che i giovinetti
all'imbrunire sfogliano, e le rive
dei fossi caldi di saggine.
Ecco il sambuco, ecco il pioppo
che sbianca, sulle rosse bambine
a erba pei conigli, chine
sotto le campane a doppio.
Ecco, a inazzurrare la pianura,
le loro Alpi: cerchio silente
che se in morene e laghi oscura
i suoi biancori, e i suoi sgomenti
vi quieta, quasi impaura
la sua serenità. Sfuma l'Italia
negli smorti, eccelsi toni
di quei nevai: contro cui l'ala
cieca della rondine esala
più vera le quotidiane passioni.
Più vera perché espressa,
libera: nel suo fragile arco
non porta il peso dell'ossessa
rassegnazione – furente marchio
della servitù e del sesso –
che il greco meridione fa
decrepito e increato, sporco
e splendido. È necessità
liberarsi soffrendo, ma
lottando soffrire, la storia.
È necessità il capire
e il fare: il credersi volti
al meglio, presi da un ardire
sacrilego a scordare i morti,
a non concedersi respiro
dietro il rinnovarsi del tempo.
Eppure qualche cosa è più
forte del nostro ardore empio
a maturare nella mente
a fare della natura virtù.
E ci trascina indietro, al fresco,
all'arso tempo, al tempo vano,
assordato dalle vane feste
dell'umile gente, al tempo umano,
al tempo allegramente terrestre,
al tempo che vive il suo incanto,
con le rondini, nel solatio
paese padano, nel fianco
dei freschi colli, e che di schianto
voi volgete, rondini, all'addio.
Edizione di riferimento: Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano, 2009.