Speciale

Poesia e compassione

24 Novembre 2015

Natale, tempo di uno dei miei ritorni a casa. Riflettevo, come ciascuno fa nel tempo di ogni ritorno, su quel lessico famigliare, quell'alfabeto del sentire, quelle corrispondenze dell'infanzia, in cui mi pareva di trovare finalmente una serenità e insieme un senso di morte. E istintivamente riconducevo l'incertezza di quel sentire alla figura della compassione; la quale, tematizzata, si è fatta subito parola frustrante, come l'esperienza di prossimità che ambisce a raccontare, «precisa come la febbre e insieme vasta come l'oblio», direbbe Cristina Campo.

 

Mentre già l'istinto l'aveva allontanata dal suo significato più diffuso – in quanto dispiacere nei confronti del dolore altrui, dialettica di sofferenza e solidarietà, moto attivo e transitivo, strumento di una volontà che si consuma in movimento da un uomo verso un altro –, la pazienza della concentrazione cominciava a rivelarla, lentamente, come condivisione passiva di una medesima grammatica di esperienza, di uno stesso protocollo del sentire, del conoscere, ovvero del volgere attenzione. Una morfologia della sensazione e della sensibilità, del gesto, della postura, del tatto, dell'olfatto, che si sviluppa non per trasmissione programmata, ma per adiacenza, e che costituisce la sostanza di un individuo che è già culturale e ciononostante irriducibile.

 

Consideriamo una madre.

Vi è una postura che assumo nel sonno, un senso del riposo, un modo di classificare gli odori e i sapori, di intuire la giustezza, la pienezza, la compiutezza, che mi accomuna a mia madre, che ci fa “sentire insieme”, com-patire, con valore intransitivo, e che precede ogni erudizione e stratificazione culturale possibile. «Una propria e primordiale maniera d'amare, di soffrire, d'esser felice, la vita, il sentire semplice e intimo, il paese natìo», scrive Thomas Mann. Un etimo del sentire che supera i linguaggi semantici, sebbene trovi nella lingua – più precisamente nel dialetto – la sua carnale manifestazione, e che mi radica in un grembo preciso, in una famiglia, una comunità, un paese, una nazione, un continente e una storia precisi.

 

Nelle nostalgie annotate durante i miei “allontanamenti”, ne ritrovo una che si riferisce agli Stati Uniti: «mi manca soprattutto la sacra tristezza, la nostalgia del passato e del futuro, il senso di mancanza, decadenza e caducità che attraversa l'Europa. L'efficientismo degli statunitensi esclude la dimensione dell'ozio, della gratuità, della dolorosità inservibile della bellezza, della parola e del gesto di cui io sono intrisa, in quanto europea, italiana, campana. Forse è per questo che non mi piace il loro teatro».


D'altronde la poesia, e quindi anche il teatro, è sempre un ritorno, il ricondursi ciclico a una radice, a una fissità, una essenzialità, a un sentire condiviso, dopo ogni peregrinare nel mezzo di tutte le infedeltà, le incoerenze e le mutevolezze di un uomo osservato al di fuori delle trame artificiali e stucchevoli della Storia. Nell’esistenza stessa di una istanza di radicamento si consuma la scissione drammatica dell'essere umano, colto nel dibattersi tra una faticosa singolarità, provvisorietà e un riposante irriducibile “essere”, “esserci”, in quanto collocati in un cerchio di appartenenza, di compassione, appunto. Questa ferita, culturalmente tutta occidentale –, questo dibattersi tra presenza e mancanza, tra l'avere un sé e percepire in esso una falla, una inconcludenza, questo senso della ciclicità, questo fare e disfare, insistere e desistere, alla ricerca dentro le pieghe di un io che pure non riconosciamo di una sensatezza e di un riposo, quest' esser dotati dell' immaginazione e del sogno che ci danno il senso di una lontananza inavvicinabile, che Sartre ha chiamato “nausea”, Leopardi “desiderio” e Baudelaire “mal de vivre” – , è forse diffusa e trasparente compassione.

 

Compassione come riconoscimento nell'altro della radice del proprio dolore, come infiammazione comune della ferita dell’essere viventi, “come capacità di estrarre dall'altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione” scriveva più precisamente Dostoevskij. Un riconoscimento subito mancato che solo la poesia sa sussurrare dentro formule magiche, attraverso il pathos della distanza, il senso della lontananza nella prossimità, il dolore della vicinanza del lontano, di ciò che è separato eppure vicino, reso prossimo dalle parole e dalle immagini.

 

Perché essa si accosta a questo dolore dell'esistere, a questa incompiutezza che ora è desiderio, ora vertigine, ora nausea, ora resa incondizionata, in forza della perfezione di analogie e similitudini, trasformando il dolore in bellezza, senza corrompere la sostanza in risultato e consolazione. Senza forzare l'indecidibile alla decisione. Perché la poesia non racconta progetti, ma origini, perché è l'unica strategia di fuga da un uguale ripetersi dato per sempre, è l'unica che possa “squarciare il cielo chiuso della storia umana”, scrive Antonio Prete nel suo libro dedicato proprio alla storia del sentimento della compassione. «La compassione suppone un volto, una ferita, un dolore dei sensi», dice lo scrittore. Vale a dire: occhio non vede, cuore non duole. La poesia è la lingua inventata che costruisce questa prossimità visiva; essa dice la nostra ferita ri-velandola, velandola nuovamente, sprigionandone il senso senza terminarlo, per via di figure e non di costrutti linguistici. Sentiamo più prossima – compatiamo – la condizione della donna «vuoti gli occhi e freddo il grembo/come una rana d'inverno» descritta da Levi, che quella di una donna reale il cui dolore ci viene mostrato direttamente in televisione. Poiché la figura, la perfezione dell'artificio retorico, mantiene intatta una plasticità che la pornografia dell'esposizione diretta dissolve.

 

«L'occhio del poeta coglie o trasfonde una seconda vita nelle cose, che è l'analogia salvatrice: pace e orrore si compongono in eguali, innocenti geometrie», scrive la Campo. Così si può provare compassione di fronte a un quadro, riconoscere miracolosamente nella gradazione esattissima di un colore l'angoscia dell'esistenza, nella perfezione dell'analogia la geometria della propria ferita. «Ma – continua – tale miracolo di vita moltiplicata sembra accadere tanto più compiutamente quanto maggiore fu la solitudine del poeta, il suo salto fuori dall'acqua, di salmone controcorrente, il suo, se è necessario, restare in secca al plenilunio, senza speranza e senza disperazione».

 

Il riconoscimento nell'altro, in effetti, tanto più è potente, e commovente, quanto più coinvolge coloro in cui pare di intravedere la ferita dell'universo che si mostra in tutta la sua dolorosità non volgare, non corrotta dalle relazioni di potere, neppure da quelle travestite da buoni sentimenti, come la solidarietà e la consolazione; poiché la compassione più intensa è generata dal patire claudicante, inopinabile, di quelle creature il cui dolore, sfocato, è senza tempo, straordinario, inenarrabile: il santo, il poeta, l'animale.

 

Allora, paradossalmente, la solitudine si rivela condizione indispensabile della compassione perché la facoltà di prestare attenzione non venga contaminata dalla trama rumorosa delle relazioni, infetta dai caratteri di temporaneità dell'attuale, del contemporaneo. Il poeta, afferrato dalla bocca comune, diviene “umano, solidale e consolante”, si consegna cioè alla coerenza del proprio tempo, rinunciando a confrontarsi con il mistero della sua indefinitezza. In questo senso la solitudine è intesa invece come l'appello più puro alla prossimità, poiché coltiva una dissoluzione dell'io – inteso come istanza identitaria limitata, coerente, persona-funzione nella storia – in favore di un noi inteso come sé inconcluso e universale. Si tratta, sia chiaro, di una solitudine tanto intransigente quanto sofferta, che continuamente prova a gettare un ponte verso un possibile com-patire, verso una complicità, attraverso la creazione di uno spazio di fragilità, l'opera d'arte, in cui artista e pubblico verificano proprio un “sentire comune”.

 

È così che la poesia finisce per sembrare, non più a Natale ma ormai in primavera, un atto estremo di compassione.

 

 

Intervento nato in occasione del parlamento sulla compassione tenuto da Anna Stefi con Antonio Prete, Maria Laura Bergamaschi e Rossella Menna al Teatro Rasi di Ravenna, nell'ambito dei Parlamenti d'Aprile 2015 del Teatro delle Albe.

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