Speciale
Ponte Chiasso
Quel confine che separa Chiasso da Ponte Chiasso, ovvero dall’estremo dei quartieri comaschi, pur nella sua natura di linea di poche centinaia di metri – uno starsi vicino nello sfioramento appena accennato – è sempre più l’equivalente di un fossato, che sembra progettato da uno staff di etnologi. Sì perché, anche se la popolazione di Chiasso è in gran parte italiana di nascita o di origine, da qualche anno lì, nell’aria, si respira un clima, per così dire, più europeo, accompagnato a un senso di geometrico ordine, a un gusto per uno stile di vita più regolare ma non uggioso.
Dogana, ph. Giovanna Silva
La Chiasso della metafora di Arbasino – quella del confine dietro l’angolo, dell’estero sotto casa, a portata di tutti – probabilmente non esiste più. La cittadina si è sganciata da quell’immagine di “Italia-non Italia” che aveva conservato almeno fino a vent’anni fa, come dimostra la via principale, corso San Gottardo, risistemata e chiusa al traffico. I negozi da dogana, quelli della cioccolata, degli orologi e del cambio hanno lasciato il passo a locali più eleganti, bar curati, agenzie di viaggio.
Ebbene, proprio quest’area in trasferimento verso nord sta addosso alla zona di Como che meno le assomiglia. Ponte Chiasso è un quartiere difficile da catalogare, un’ibrida sovrapposizione di nature e architetture, una sorta di sottile striscia di terra regalata all’Italia da chi ha tracciato in tempi immemori quel confine. Fisicamente è in Ticino, adagiata tra la pianura su cui si distende Chiasso e la collina che la divide da Sagnino e da Monte Olimpino, le “altre periferie” di Como.
Ma Como rimane distante, separata anche da quell’altro confine, questa volta aereo, rappresentato dal viadotto dell’autostrada, che taglia il lungo nastro di via Bellinzona e segna l’ingresso in un mondo diverso, che non c’entra con quello di prima. A parte rare eccezioni, le case di Ponte Chiasso – palazzi di cinque-sei piani perlopiù risalenti agli anni sessanta dello scorso secolo – stanno laggiù, in fondo alla discesa, scivolate quasi verso la rete del confine; altre case, ancora anonimi palazzi grigiastri ma anche qualche piccolo condominio più elegante e più recente, perfino qualche villetta geometrile con prato all’inglese, si trovano aggrappati attorno e alle spalle di via Brogeda, l’altra principale direttrice del quartiere, che, inoltrandosi negli spazi vuoti costeggiati dagli svincoli e dai cavalcavia autostradali lungo il corso del fiume Breggia, conduce al piccolo centro di Maslianico. Si fa in fretta a capire che Ponte Chiasso ha tutte le caratteristiche del luogo marginale.
Ininterrotti passaggi (e soprattutto soste, interminabili) di camion, macchine parcheggiate ovunque (sono dei frontalieri che prendono ogni mattina il treno a Chiasso), marciapiedi minimi e dissestati, strade cosparse di buche, aree dismesse, due parchi giochi minimali, attività commerciali popolari (il kebab, la pizza d’asporto, la piadineria in franchising, il compro oro, le massaggiatrici cinesi, perfino un anacronistico cinema a luci rosse), e una quantità esorbitante di bar (almeno una decina), seguiti a ruota dai parrucchieri.
ph. Giovanna Silva
In particolare, però, quello che colpisce di Ponte Chiasso è la sua fisionomia sghemba, priva di centro. O meglio, con un centro che non è centro, perché l’ombelico del quartiere è piazza XXIV Maggio. Una piazza che è poi una rientranza tra le case, un posto che nasce come per caso sul lato della dogana turistica, quasi in Svizzera, e che, in effetti, è un parcheggio. Ebbene, quello è il cuore di Ponte Chiasso, un luogo che più laico non potrebbe essere. La chiesa invece non riesce, architettonicamente, a creare uno spazio suo, che si distingua dagli altri. Anzi è il suo edificio che si è adattato al contesto con la sua insostenibile sagoma da capannone industriale, con la sua atmosfera da area dismessa. Una chiesa che se ne sta in fila a fianco delle altre case, con l’unico privilegio di disporre di un angusto spazio per le auto.
Soprattutto, piazza XXIV Maggio è un luogo confuso, con auto aggrovigliate l’una sull’altra, un hotel a una stella, la panetteria e l’edicola a fianco dei soliti bar. È qui che converge l’umanità del quartiere. È qui che fisionomie senza tempo si trovano raccolte in un ozio che pare permanente e occhiuto.
A qualunque ora della giornata i tavolini dei locali sono pieni di gente seduta, che più che parlare guarda o gioca a carte. In prevalenza uomini di mezza età, un po’ gonfi, rubizzi, pelle cotta e occhio acquoso, ma anche donne atticciate, biondicce, fumatrici, col telefonino tra le mani. Chi sono? Che fanno? Sembrano ignari di quanto succede al di là degli stitici lauri che delimitano il loro territorio. Le auto ferme in coda a un metro di distanza non li riguardano. Il mondo scorre, loro assistono, impassibili. La domenica qualcuno dei più anziani ha l’abito della festa, certe giacche e certe cravatte che fanno pensare a morti di paese nella bara. Li si vede in piedi, radunati in crocchi, che guardano tutto con espressione più acuta del solito o commentano gesticolando qualcosa che pare aver assunto un’importanza indefinita, come se la domenica si prestasse a una specie di redde rationem delle speculazioni settimanali.
A Como – dove pur la tradizione del bar dopo messa continua a persistere – non è facile incontrare situazioni che in maniera così netta, così pura, diano voce al “pensiero meridiano”. Un frammento di Sud Italia – in tutta la sua reazionaria e incomprensibile bellezza e insensatezza – se ne sta lì, incistato, a segnare con l’evidenza della fisicità (altro che muri!) un confine che non avrebbe bisogno di reti per essere individuato. Ma la “non-piazza” è la faccia visibile di questo mondo.
C’è anche un altro luogo carico di sensi – una specie di promontorio del quartiere, e ovviamente della città e, con un po’ di enfasi, pure della Repubblica italiana – che invece se ne sta appartato, messo com’è di sguincio rispetto alla visuale di chi procede in direzione della dogana.
Si tratta di un vicolo che potrebbe benissimo stare nei quartieri spagnoli di Napoli o nella città vecchia di Bari. Una via stretta, dedicata all’ottocentesco scultore, ticinese di Ligornetto, Vincenzo Vela, su cui si affacciano poche case malmesse, una delle quali, un palazzo abitato da diseredati, è andata a fuoco pochi anni fa. Ci sono un negozio di frutta e verdura, l’immancabile bar, una trattoria, un barbiere. Una Little Italy paradossale, che sgorga non fuori ma dentro il proprio paese e che trasmette la convinzione di essere oltreoceano.
La rete arrugginita e piena di buchi che corre a segnare i limiti dei due stati in questo cuneo di estensione insignificante, si carica così di sensi, diventa cesura capace di separare mentalità, sguardi sul mondo, percezioni. Qui non è l’Italia che confina con la Svizzera, né Como con Chiasso. Qui si oppone il Mediterraneo alla Mitteleuropa. La confusione, la logica della strada come deposito di ogni sozzura, la povertà, l’arte di arrangiarsi di chi lotta per la sopravvivenza, ma anche l’espansività rumorosa, il tempo lungo di chi conosce i segreti della vita, si giustappongono alla “svizzerità”, al suo deterso modus operandi, alla sua necessità di precisione e, più banalmente, alla sua ricchezza. Così il confine, per una di quelle strane giravolte della storia, diventa una forma plastica, si traduce in una tangibile divaricazione delle abitudini, ovvero segna il discrimine non solo tra due modi di vivere lo spazio, ma tra due epoche – una modernità ordinata e ripulita, un’ancestralità ottocentesca e anarcoide, un primitivismo saggiamente disincantato.
ph. Giovanna Silva
Ma è a questo livello che le cose si complicano.
Perché è proprio a causa di tutto ciò, per via di questa sua natura (o cultura?), che Ponte Chiasso continua a essere una ferita per Como, o addirittura, a costituire un altro confine prima del confine ufficiale. Como, città stretta tra le montagne, non ama le proprie periferie, considerando se stessa conclusa nel perimetro breve della antiche mura, per molti aspetti percependo come una barriera lo stesso lago (e l’aberrazione di aver cercato di edificargli un muro davanti, nel punto più turistico della città, ne è stato il segno evidente).
Ponte Chiasso sarà sempre, agli occhi del comasco, il “quartiere dormitorio”, un’area dove non si risiede, ma si passa e basta. È il luogo della bruttezza senza rimedio. È il sottoscala, dove si nascondono gli oggetti incongrui e impresentabili. È – di conseguenza – il deserto dell’anima, come ribadiscono le periodiche, sintomatiche e frettolose inchieste della stampa locale.
Per un gioco di simmetrie curioso e forse inevitabile, Ponte Chiasso è il quartiere speculare alle “lande meridionali” della città, quelle che si raggrumano attorno all’altra grande strada che conduce nella convalle, la Napoleona. Se qua ha trovato ricetto un’umanità stravolta da immigrazioni recenti, dall’Africa o dall’est dell’Europa, un’umanità da cui les enfants du pays si tengono comunque a distanza di sicurezza, a Ponte Chiasso alligna invece un popolo altro che davvero comasco non è, nonostante lunghi decenni di convivenza, “matrimoni misti”, tentativi di “colonizzazione”.
È (o era) il popolo dei “terroni”, che, per reazione di fronte a questa sensazione, sembra aver insistito sul pedale dell’appartenenza, non perdendo abitudini e, si direbbe, tratti somatici che stanno dissolvendosi anche negli antichi luoghi d’origine. Per i comaschi, che vorrebbero tanto essere svizzeri, Ponte Chiasso è allora un’incongruenza insopportabile. Così il confine sta al di qua e al di là di Ponte Chiasso. Uno è segnato sulle carte, uno nelle teste delle persone.