Una religione laica in Italia / Primo maggio a Mensano
Come si instaura una religione laica in Italia? È la domanda che sorge scorrendo le foto, bellissime, che Ferruccio Malandrini ha raccolto nel catalogo Mensano Primo Maggio. 1963-1975, in occasione di una mostra alla Biblioteca Comunale di Siena e che speriamo possa girare per l’Italia. Ne varrebbe la pena perché attraverso Mensano, una frazione di Casole d’Elsa, a quaranta chilometri da Siena, si racconta un pezzo della nostra storia. All’inizio degli anni Sessanta stava finalmente finendo l’istituto della mezzadria che, dopo le riforme leopoldine, aveva organizzato rapporti sociali e territorio nei due secoli successivi.
Viene in mente l’avvocato Maralli del Giornalino di Giamburrasca: “Libero pensatore in città e bigotto in campagna”, oppure le lettere che Don Milani inviava dal podere di famiglia di Montespertoli nell’immediato dopoguerra. Un mondo, si direbbe, fermo al Medio Evo, diviso in ferree classi sociali, dove contadini, mezzadri, artigiani, lavoravano al servizio dei padroni. Dopo una fiammata prima del fascismo, furono gli anni dopo la Seconda guerra mondiale a trasformare un popolo di sudditi in cittadini. E decisiva è stata la funzione del PCI che da quelle parti arrivò a prendere oltre il 60% dei voti. Il Primo maggio, più del 25 aprile, divenne “la Pasqua laica” della popolazione, anche perché, nel calendario, arrivava alla fine dell’inverno, un momento di festa della campagna.
I simboli sono le bandiere rosse che si mescolano a quella italiana (la lezione di Togliatti), la banda del paese (un’eredità del nostro Risorgimento laico) che intona, insieme all’Internazionale e a Bandiera rossa, l’inno, socialista e anarchico di Pietro Gori: “Vieni o Maggio t’aspettan le genti/ ti salutano i liberi cuori/ dolce Pasqua dei lavoratori”. Una festa di resurrezione e di speranza per un popolo in cammino. Colpisce infatti, in una serie di foto, il corteo che lascia il paese per raggiungere il pratone dove ci si raduna tutti insieme, che si dispone come il Quarto stato, e poi il saluto a pugno chiuso con il comizio che sostituisce la messa. In realtà il parroco e il sindaco trovarono presto delle forme di dialettica convivenza, appartenendo a una sola comunità (Eh sì, Don Camillo come parte del nostro DNA). Nel luminoso e scavato bianco e nero delle foto manca un elemento che è recuperato nell’uso che se ne fa nel pregevolissimo catalogo: il colore rosso che, attraverso la Rivoluzione francese e Garibaldi, diviene un patrimonio identitario della nostra sinistra (sia detto in tempo di governi giallo-verdi).
Malandrini, autodidatta, classe 1930, fotografo a metà tra professionismo e passione (una categoria recuperata negli ultimi anni dal rimpianto Cesare Colombo), anche quando lascia, come un personaggio di Bianciardi, la Toscana per Milano, torna ogni anno a Mensano per documentare il Primo maggio. Nel catalogo Francesco Faeta parla di una “etnografia visiva” e Pietro Clemente di un “popolo scomparso”. Tutto giusto. A me colpisce l’arrivo, col passare degli anni, della rivoluzione dei consumi (l’unica vittoriosa) e il passaggio dalla giacca e cravatta del giorno di festa ai pullover e ai dolcevita dei primi anni Settanta. Oppure, ancora di più, le facce degli italiani, oggi uniformate, mentre allora le orecchie a sventola o i denti storti venivano mostrati senza inibizioni.
Ogni festa italiana non è tale se non finisce in una mangiata, da quelle parti “una merenda”: e allora fiaschi di Chianti, teglie di lasagne, dolci e biscotti preparati dalle donne di casa (il femminismo è ancora di là da venire).
Il Primo maggio si festeggia ancora a Mensano, ma è scomparso quel popolo, tornando a essere “un volgo disperso che nome non ha”. Cosa è successo in questi anni?