Roberto Bolaño. Stella distante
Dalla collaborazione tra Filippo Tommaso Marinetti e l’aviatore Fedele Azari, “che unisce le qualità di capopilota istruttore a quelle di parolibero futurista”, così come lo descrive lo stesso poeta, nasce a Milano, nel 1929, il Primo dizionario aereo italiano: “Questo lavoro”, si legge nelle pagine d’apertura al dizionario firmate da entrambi, “non poteva essere compiuto, così preciso e vitale ad un tempo, che da noi futuristi, con la nostra passione per la velocità e per la nuova estetica della macchina, armata dalla nostra tipica volontà di sintesi e precisione” (Marinetti, Azari, Primo dizionario aereo italiano, Milano, Morreale, 1929).
Se ogni avventura umana, così come pare suggerire Borges, ha la sua replica in un’altra esistenza, dissimile solo per alcune, forse impercettibili, variazioni spaziotemporali in cui si impongono altre geografie, altri attori e circostanze diverse, non è difficile pensare a Carlos Wieder, alias Alberto Ruiz-Tagle, come ad un clamoroso quanto velleitario promotore di quelle forme artistiche il cui vitalismo militaresco avrebbe dovuto fare decollare l’arte, la cultura e la politica nel ventennio fascista. In un certo senso, infatti, lo scellerato protagonista di Stella Distante - romanzo pubblicato originariamente in Spagna nel 1996 e riproposto ai lettori italiani nella nuova traduzione di Barbara Bertoni (Adelphi) - non sembra arrivare da un altro mondo, ma da un’altra epoca. La sua volontà senza incrinature sa di dominio ipnotico delle folle e la sua spietata rapidità ha il puzzo della Blitzkrieg, perché proprio dalle ceneri degli scenari apocalittici nazifascisti sembra risorgere, attraverso la scrittura da insetto di un Pierre Menard cileno che ne descrive le gesta facendolo esibire nel cielo di Concepción durante lo smantellamento della Unidad Popular, dopo il golpe militare che l’11 settembre 1973 rovescia il governo di Salvador Allende.
Amante dei crepuscoli, fermo sostenitore del potere messianico della parola poetica, Wieder è rispettato dai compagni d’armi e adulato da certi critici di regime vicini all’Opus Dei. La sua caratterizzazione segue i volteggi mirabolanti e le improvvise virate del Messerschmitt 109 con cui appare fra le nuvole, avvolto da “lettere di fumo grigio che gelano gli occhi di chi le guarda” (p. 32). Alto, magro, forte, dai bei lineamenti e dall’aspetto curato, è un enigma vivente la cui soluzione non porta ad un finale rivelatore ma alla sconfitta. Di tutti. Perché nella letteratura non vi è nulla di intrinsecamente salvifico, così come negli intrecci polizieschi orditi da Bolaño non è presente nessun processo teleologico che porta ad una risoluzione consolatoria, o quantomeno rassicurante, del caso. Piuttosto, la trama procede alternando ipotesi a salti temporali che, dai giorni appena successivi al golpe, si spostano al presente della scrittura, sincopata da improvvisi sussulti di rinnovato terrore da parte della voce narrante, Arturo B, che riferisce pedissequamente all’autore i fatti di cui è stato testimone. In questo modo, l’istanza autoriale è immersa in una finzione che si moltiplica su se stessa, innescata da un ingranaggio intertestuale impeccabile, in cui le contaminazioni e le sovrapposizioni dei personaggi contribuiscono all’avanzamento di una narrazione che è sempre ellittica, perché il sapere è regolato dallo scarto tra chi racconta e chi vede e, in un determinato momento, parrebbe agire, muoversi.
Tuttavia, i personaggi che abitano l’universo narrativo di Bolaño sono trottole che girano su se stesse: il loro movimento circolare ingloba un mondo i cui confini si espandono vertiginosamente senza però riuscire ad influire sulla loro predestinazione, vale a dire il costante, pericoloso galleggiamento alla deriva. In effetti, alla figura del viaggiatore latinoamericano in cerca di spazi puri e sconfinati che rendano manifesto il suo contributo a una qualche identità nazionale (basti pensare all’epilogo di uno dei romanzi fondativi della narrativa novecentesca del cono sud, Sopra eroi e tombe di Ernesto Sábato), Bolaño contrappone l’immagine del sonnambulo cacciatore di fantasmi. E’ il dato politico a provocare un tale spostamento dell’asse, che non parte, in questo caso, dall’interno della letteratura. Così, i perros románticos che popolano le pagine dell’autore cileno non scelgono l’opzione del viaggio, ma ci si trovano dentro. Hanno l’acqua alla gola e una penna con cui dovere reinventare il canone letterario nazionale dopo la frattura storica del golpe, che li ha costretti alla diaspora e alla balbuzie mentre riscriveva una storia letteraria di regime da cui Bolaño attinge a piene mani per l’elaborazione delle sue acute parodie.
Così, le spettacolari acrobazie di un esteta pluriomicida dimostrano che il governo del terrore del generale Augusto Pinochet e l’arte d’avanguardia non sono incompatibili, fino ad arrivare alle estreme conseguenze dell’orrore, messo in scena da collage fotografici costruiti con la sovrapposizione di corpi torturati e rotti, anch’essi divenuti enigma, perché sottratti al rito della sepoltura.
Del resto si sa che “nelle guerre intestine i prigionieri sono un impiccio” (p. 111), così come si sa, senza dover disturbare il sopraccitato dizionario, così “preciso e vitale ad un tempo” che, in fin dei conti, un apparecchio d’acrobazia rimane pur sempre un aeroplano da caccia, seppur appositamente imbellettato e rinforzato per resistere agli eccezionali sforzi durante le manovre di scrittura aerea.