Metteteci nelle condizioni di salire a Barbiana
Da quando esiste, questa rubrica si unisce costantemente alle richieste che da più parti si levano per investire sulla scuola pubblica intesa come motore del cambiamento culturale e sociale: non usciremo dalla crisi innanzitutto morale e politica se non riusciremo a invertire il processo di degrado della scuola pubblica.
Abbiamo sperato che un cambio di governo potesse essere meno sordo alla richieste degli studenti, dei docenti, dei genitori e di quanti hanno chiaro che il livello di scolarizzazione e, soprattutto, la qualità della scolarizzazione, sono direttamente correlati al benessere di una società e al suo grado di democrazia. Eppure a distanza di mesi non si riscontra nessuna inversione di tendenza: la riforma Gelmini farà il suo corso e il piano di razionalizzazione (ovvero tagli indiscriminati) già previsto è stato fatto proprio dal nuovo esecutivo.
Per risparmiare decine di milioni di euro va in scena in questi giorni l’accorpamento sotto un’unica dirigenza di più scuole (elementari, medie e superiori) con numeri di iscritti inferiori ai 600 alunni. Lo ha scritto Corrado Zunino su “la Repubblica” del 4 maggio: l’effetto, con modalità diverse in varie regioni, è che avremo istituti con una sola presidenza, una sola segreteria, un solo collegio docenti ma dislocati su più sedi, fino a un numero complessivo di oltre millecinquecento allievi. Il che vuol dire un peggioramento dei servizi a fronte di un aumento del carico di lavoro: in termini pratici, caos e ingovernabilità delle comunità scolastiche.
Se questo non bastasse le indicazioni per la formazione delle nuove classi sono di trentun allievi; il che si aggiunge al fatto che gli orari di alcune discipline vengono ridotti con i nuovi curricula e che sempre più si fanno cattedre che superano le diciotto ore, fino a ventiquattro e ventisei, poiché si preferisce pagare straordinari piuttosto che assumere precari. Non voglio affrontare la questione sul numero di cattedre perse in termini sindacali, anche se va ricordato che il più grande licenziamento di massa della storia italiana riguarda la scuola.
Fare l’insegnante con ventotto o trenta allievi, come di fatto avviene già adesso, è pesantissimo, e farlo bene è quasi impossibile. Negli ultimi dieci anni le mie classi migliori, per attenzione, sensibilità, capacità, profitto, successo formativo (anche successivo alla scuola superiore) avevano tra i quindici e i venti, poiché erano sperimentali che arrivavano all’ultimo anno senza fusioni tra sezioni.
Una simile condizione significa ottimo clima di ascolto, grande possibilità di dialogo e di approfondimento, alto numero di verifiche e esercitazioni, interrogazioni che si svolgono in pochi giorni, molto spazio per i recuperi dei più fragili quanto per le eccellenze dei più dotati. Questo vuol dire una scuola che funziona e che educa persone attrezzate a vivere in una società complessa.
Con la riforma in vigore questo non c’è più: aumentare il numero di allievi per classe fino a trentuno significa ignorare che oltre i venti allievi la didattica perde progressivamente di efficacia e funziona solo per chi ha già competenze medio-alte in ingresso, significa insomma che chi prende le decisioni non è mai entrato in una scuola di base del terzo millennio di questo paese.
Poiché poi diminuisce il monte ore di molte materie ogni docente avrà più consigli di classe e cattedre meno compatte, quindi più difficoltà di comunicare con i colleghi, alcuni dei quali su più sedi, e di programmare in modo interdisciplinare: anche qui si ignora che l’azione del singolo docente è inefficace se non coordinata dal consiglio di classe. A tutto questo si aggiunga le mole di burocrazia per l’ossessione di tracciare le filiere produttive secondo gli standard della cultura aziendalistica più ottusa e la fattiva impossibilità di aggiornamento e formazione: i dirigenti hanno discrezionalità assoluta nel concedere permessi e di fronte alla necessità della copertura della “vigilanza sugli studenti” la didattica passa in secondo piano. Non ci sono fondi per le supplenze e sostituzioni: è usanza diffusa che si accorpino la classi (anche quattro) nelle ore di supplenza negli auditorium o che si smembrino le classi a gruppetti inserendole in altre classi, indipendentemente da quello che lì si stia facendo.
Se a questo punto consideriamo quali sono le competenze medie degli studenti dopo trent’anni di devastazione socioculturale, si avrà un’idea della difficoltà di insegnare nella scuola italiana di oggi. Marco Rossi Doria ha recentemente citato su “La stampa” l’attualità di don Milani ricordando la “necessità di salire a Barbiana” per “guarire le scuole malate”: siamo d’accordo e sottoscriviamo. Evidentemente al Miur non si leggono gli articoli dei sottosegretari o si crede che basti toccare ancora una volta il cuore della professoressa con simpatie progressiste e chiederle umanità e impegno straordinari per risolvere i problemi. Non possiamo sperare nei santi, negli eroi o nei missionari della scuola: servono condizioni elementari, sensate e realistiche per fare un lavoro complesso. Noinon produciamo più cambiamento sociale ormai da tempo, semplicemente quando va bene tamponiamo il disastro. Presto non saremo neanche più in grado di fare questo.