Sabine Weiss: consumata dalla curiosità
"Fotografare è un alibi". Sono queste le parole con cui si dovrebbe ricordare Sabine Weiss e la sua inesauribile passione per la fotografia, che ha assorbito ininterrottamente settant’anni della sua lunga esistenza. Tutt’altro che “matta e disperatissima”, poiché la Weiss ha saputo fondere un lungo e minuzioso apprendistato con l’irrefrenabile curiosità che animava il suo desiderio di diventare una fotografa. Spesso accostata a fotografi umanisti come Brassaï, Izis, Doisneau, Ronis, la sua storia racconta molto altro. Nata in Svizzera, a Saint-Gingolph nel 1924, appartiene a quel folto gruppo di professioniste che, a partire dagli anni Venti, ha fatto della fotografia il proprio mestiere e il mezzo per ottenere un’autonomia personale. Una fotocamera appesa al collo era un possibile pretesto per lasciare le mura domestiche, viaggiare e persino ambire all’indipendenza economica.
Nata troppo tardi per fotografare il conflitto mondiale, e per questo distante da Margaret Bourke-White che era riuscita a stare al passo con la storia, e da Gerda Taro che dalla storia era stata travolta e trasformata in mito, Sabine Weber incarna la vicenda, forse meno suggestiva, certamente più autentica, di una incrollabile tenacia che, infine, si rivela come la sua arma vincente, per nulla segreta.
Sin da ragazzina vuole fare la fotografa e, su consiglio del padre, chimico e inventore, si reca presso lo studio di Paul Boissonnas a Ginevra. Vi rimane tre anni e apprende le basi della sua futura professione: “ritratto, fotografia industriale, lavoro di laboratorio e di ritocco, catalogazione dei negativi, rapporto con i clienti”. Boissonnas aggiungerà: Mademoiselle S. Weber a beaucoup de goût et de dons pour son métier.
Il 23 agosto del 1945 ottiene il certificato di idoneità, poca cosa al confronto delle conoscenze acquisite, che costituiscono lo strumento più importante nella sua cassetta degli attrezzi.
Nel 1946 si trasferisce a Parigi e per quattro anni collabora con Willy Maywald, fotografo di moda e ritrattista. Lo studio in cui lavora si apre sul cortile dell’Académie de la Grande Chaumière, dove è facile incontrare molti artisti. Con l’aiuto di Maywald trova casa a Montparnasse dove conosce Chagall, Braque, Cocteau, Carné e incontra anche il suo futuro marito, Hugh Weiss, un artista americano con cui si trasferisce in una casa-studio nella zona Ovest di Parigi.
Le due esperienze sono fondamentali. A Ginevra apprende la tecnica, a Parigi entra in contatto con l’arte. Senza troppi proclami demolisce uno dei cliché che il mondo della fotografia veicola con insistenza: l’incapacità femminile di armeggiare con una fotocamera e padroneggiarne gli aspetti tecnici. Marie Robert, nel saggio introduttivo a Une histoire mondiale des femmes photographes, ricorda che Luis Daguerre, quando annunciò al pubblico la sua scoperta alla fine del 1838, affermò che, sebbene il risultato sia ottenuto con mezzi chimici, questo piccolo lavoro [potrebbe] piacere molto alle signore. La Kodak si è affidata, fin dal lancio della sua prima fotocamera portatile nel 1888, e per decenni, alla figura della “Kodak Girl”, l'incarnazione della dilettante senza conoscenze tecniche.
Nel 1932, una pubblicità del marchio Leica mostrava mani femminili che, finalmente, “non avrebbero più fatto foto sfocate” grazie alla messa a fuoco automatica. E se accadeva che qualcuna si discostasse dallo schema, inevitabilmente diveniva oggetto di scherno o ironia, come Alice Schalek, reporter sul fronte orientale durante la Prima guerra mondiale, definita "iena da battaglia" da Karl Kraus, o "Valchiria di ferro", nomignolo attribuito a Germaine Krull a causa del suo Metal (1928), composto da scatti di architetture metalliche.
La velocità con cui la Weiss inizia a lavorare è sorprendente. Subito dopo l’apprendistato realizza il suo primo servizio dedicato ai soldati americani in licenza a Ginevra, Nos hôtes américains à Genève, in cui i militari vengono ritratti come turisti a spasso per la città. Sue sono le foto pubblicate sulle copertine della rivista l’Apprenti Suisse di marzo 1945 e novembre 1946, in cui si vedono due donne al lavoro. Il decennio che va dal 1952 al 1962 è costellato da prestigiose collaborazioni. Alla sua Rollei aggiunge una Leica e una Linhof, le sue opere cominciano a circolare e si costruisce una clientela che le garantisce commissioni regolari.
Conosce Robert Doisneau che la fa entrare nell’agenzia Rapho e appoggia la sua candidatura presso la redazione di Vogue, con cui rimane sotto contratto per circa dieci anni. Oltre che in Francia, Sabine Weiss viaggia spesso in Europa e Medio Oriente: Italia, Egitto, Spagna, Austria, Portogallo sono solo alcune delle sue numerose destinazioni. Anche le collaborazioni con la stampa internazionale si moltiplicano: Newsweek, Picture Post, Paris Match, U.S. Camera, Harper’s Bazaar, Time, Elle, Le Ore, come era avvenuto per altre giovani fotografe agli esordi, fra cui Chiara Samugheo e Giulia Niccolai.
Si sposta con disinvoltura dai set lussuosi delle passerelle di moda alle periferie delle città. Che fotografasse un abito di Dior o una banda di monelli, (…) in un momento quegli elementi, la sua fotocamera e lei stessa, sembravano fondersi, ricorda il marito. Ciò che sorprende è la mancanza di finzione, quasi che la presenza fisica della fotografa sia stata neutralizzata da una naturale contiguità con i soggetti fotografati.
Nella foto scattata alla prima collezione di Dior, pubblicata su Life, si vede un giovanissimo Yves Saint-Laurent circondato da un gruppo di modelle. Nonostante la posa, si percepisce qualcosa che va oltre l’ingessata ufficialità della situazione. Più che inavvicinabili icone di moda, le mannequins sembrano ragazze ben vestite, sicure di sé, ma non inaccessibili, mentre lo stilista ricorda un adolescente timido che si vergogna di essere fotografato. Nessuno si sente in dovere di fingere. Entrare nello studio di Giacometti e ritrarlo mentre a sua volta ritrae la moglie Annette, avvicinarsi a Niki de Saint Phalle chinata a terra, fotografare André Breton, ormai anziano, accanto alla sua collezione di opere d’arte, come se anch’esso fosse un pezzo da museo, mostra la sua capacità di entrare in empatia con i soggetti, indipendentemente dalla loro condizione.
Perché sia potente, una fotografia deve parlarci di un aspetto della condizione umana, deve farci sentire l’emozione che il fotografo ha provato di fronte al soggetto, afferma la Weiss. A New York sceglie di girovagare nei quartieri popolari: il Bronx, Harlem, Chinatown. A Parisienne’s New Yorkers è l’azzeccatissimo titolo che si legge sulle pagine del New York Times Magazine, la Weiss è una parigina (e non una svizzera!) che si muove con disinvoltura nella metropoli americana. Cammina per strada e fotografa quello che vede: i passanti, le persone che lavorano, i ragazzini che giocano. Il suo sguardo non è quello di una cacciatrice di immagini, non è rapace come Weegee e non le interessano gli istanti perfetti di Cartier-Bresson, ma l’imperfetta normalità della vita quotidiana. La Weiss non accentua alcuna forma di drammaticità. Non ricorre a particolari espedienti tecnici, tagli o modulazione dei contrasti, poiché ciò che conta è mostrare il soggetto nella sua dignitosa dimensione reale, senza alcuna forma di enfasi.
Sono consumata dalla curiosità: vorrei entrare in ogni casa, scoprire le vite degli altri. (…) Con la mia macchina fotografica stabilisco un dialogo con gli sconosciuti, racconta la Weiss. Per questo accetta la proposta che le viene fatta dalla Magnum di fotografare le donne affette da disturbi mentali che venivano ospitate e accudite presso famiglie “adottive” a Dun-sur-Auron, nel dipartimento francese di Cher. Come per le strade di New York, anche lei diventa una di loro: si avvicina con naturalezza e le fotografa mentre lavorano a maglia, chiacchierano sulla soglia di casa, fanno la spesa, mettendo in risalto il loro lato “normale” ed esaltandone l’“umanità”. Così nelle foto scattate in un cimitero per cani ad Asnières: un’anziana donna dal volto afflitto regge un piccolo fagotto bianco che avvolge il suo cane come se fosse un figlio.
Si percepisce che la curiosità della Weiss non è solo desiderio di accrescere il proprio sapere, ma come suggerisce l’origine della parola, prendersi cura, avere premura, sentire sollecitudine verso qualcuno o qualcosa. Fotografare non è prendere con violenza, ma curarsi del soggetto che si fotografa, prenderlo insieme, comprenderlo. Non è un caso che tra i soggetti prediletti dalla Weiss vi siano i bambini. Li fotografa ovunque, a Parigi, Avignone, Toledo, Madrid, New York.
Le sue immagini sembrano le tessere di un’unica, immensa periferia senza confini abitata solo da ragazzini. Poco importa se indossano abiti sgualciti, se i sorrisi sono sdentati, se in eredità dagli adulti hanno ricevuto solo le macerie della guerra. Non sono rappresentati come simbolo della vulnerabilità, della fragilità o delle sofferenze di un’epoca, come documentano le immagini della Farm Security Administration. Li coglie in equilibrio sulle mani come degli acrobati, intenti ad attingere dell’acqua da una fontana, in cerca di avventure per strada, e persino mentre le corrono incontro, come se la volessero accerchiare.
La Weiss sembra voler affidare proprio a loro il destino del mondo, ed è per questo che Edward Steichen le chiede alcune foto per la mostra The family of Man, presentata nel 1955 al MoMa di New York, insieme a quelle di Helen Levitt e Ruth Orkin. Perché come lui, mette l’accento sull’universalità dell’esperienza umana e sulla capacità della fotografia di testimoniarla.
Se è vero che la Weiss non si ritiene un’artista, gli artisti creano qualcosa di nuovo, io sono una testimone, sostiene, c’è una parte della sua opera che sembra andare nella direzione opposta alle sue parole. Non sono fotografie che testimoniano un evento. Spesso scattate di notte, si vedono diverse fonti luminose che rischiarano l’oscurità. La luce di un fiammifero con cui un uomo accende una sigaretta, quella di un lampione verso cui un altro si dirige in bicicletta, le scintille di un fuoco d’artificio, i raggi del sole che cadono in fondo a una strada verso cui un uomo corre.
Il vuoto genera un’atmosfera malinconica, le solitarie figure umane che si muovono nelle strade deserte suggeriscono il senso dell’andare verso qualcosa, della vita e della morte. Eppure i bagliori che sembrano passare da una foto all’altra, fanno pensare a dei varchi che conducono in altre dimensioni. Bucano l’immagine verso il supporto cartaceo e verso chi guarda, dando rilievo alla metafora della fotografia come scrittura di luce, ma soprattutto della fotografa come colei che accende l’immagine.
E con essa la vita. Alla Weiss non interessa l’è stato di Roland Barthes, l’istante perduto che la fotografia può salvare dall’oblio, ma il varco luminoso che può condurre verso il futuro. Lo stesso varco che si apre nel meraviglioso sorriso della ragazzina sdentata che guarda la fotografa con un misto di innocenza ed incontenibile energia, orgogliosa di esibire quel buco nel sorriso, come fosse un dono divino. Il medesimo entusiasmo che si percepisce nella foto della gitana che danza avvolta nel turbine del suo abito, mosso da un vento invisibile che muove anche la Storia.
Luce, gesto, sguardo, movimento, silenzio, tensione, riposo, rigore, rilassamento. Vorrei racchiudere tutto in questo momento per esprimere l’essenziale dell’uomo con il minimo dei mezzi, dice la Weiss. Forse ciò che chiama “l’essenziale dell’uomo” è proprio quel nucleo di luce che lei ha cercato nei volti dei bambini, negli artisti, nei mendicanti, e che in queste foto prende la forma di tanti cerchi luminosi, come fossero prove, indizi, tracce del nucleo originario da cui provengono le sue foto. Forse sono queste le immagini a cui pensa quando in Intimes Convinctions ricorda il concetto giapponese di “Ma”: un orientale che spiega qualcosa a un altro orientale, toglie, toglie ancora e quando non resta più nulla, questo nulla che rimane è il Ma. (…) mi piacerebbe, nelle mie foto, ottenere qualcosa di questo tipo: trovare questi istanti nel tempo e nello spazio, in cui pienezza e semplicità formano un tutto.
Fra il 1980 e il 2000 Sabine Weiss riprende a viaggiare, si sposta da una parte all’altra del mondo: Egitto, India, Ungheria, Isola della Riunione, Guadalupa, Birmania, Giappone. Fotografa persone che pregano. Qui, la “pienezza e la semplicità” si condensano in momenti di contemplazione che vanno oltre il semplice soggetto visibile. Ed evidenzia l’aspetto raccolto, intimo, silenzioso di queste persone. Chinarsi a pregare è come guardare attraverso la fotocamera, è rivolgere la propria cura verso ciò che ci sta davanti. La Weiss non esalta le differenze religiose, ma l’universalità della dimensione umana.
Le due donne con lo sguardo assorto, inginocchiate al Cairo, non sono così diverse dall’anziana in ginocchio a Fátima; il monaco che prega a Taïwan è simile al bambino con le mani giunte a Tokyo. Così come l’anziana ungherese che accende una candela appare vicina al ragazzino il cui volto è illuminato da una candela sottile che tiene fra le dita. Sembra che la Weiss contempli con loro il mistero di una possibile illuminazione, di un bagliore che non è il lascito di una fonte di luce esterna, ma un primo e antico sprigionarsi dell’essere. Non un venire alla luce, ma farsi faticosamente una fiammella che ondeggia nel buio del mondo, cosciente della sua luce, consapevole di produrre ombre, che sa di essere fatalmente destinata a spegnersi.
Mostra: Sabine Weiss. La poesia dell’istante, a cura di Virginie Chardin, Casa dei Tre Oci a Venezia, fino al 23 ottobre 2022.