Saltburn: a sangue (troppo) freddo
Solo la rivoluzione può salvare la tradizione. Emerald Fennell sembra saperlo. Addirittura, pare che si preoccupi di mantenere una certa coerenza cinematografica (quantomeno per i temi trattati) tale per cui, dopo Una donna promettente (esordio alla regia e Premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale) ci si mantenga su certe dinamiche di potere. Saltburn – disponibile dal 22 dicembre su Amazon Prime Video e attualmente al primo posto in classifica – è un teen noir, una perversione che, con una dose (un po’ eccessiva) di spavalderia e faciloneria, mette in scena tutto e il contrario di tutto e pensa persino di condire l’insieme con una metafora pasoliniana, come se Pasolini fosse un condimento qualunque, un gusto leggero. Emerald Fennell sceglie la pericolosa strada del dramma, esercitando il diritto di inserirvi, in tutta la sua dilacerante evidenza, un’idea personale di sessualità e di morte.
Partiamo dalla sessualità e dalla volgarità derivante da ogni rapporto impuro con il “peccato”. Peccato che (ci) riporta immediatamente a quando Timothée Chalamet definì la scena della pesca di Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino come «la scena più imbarazzante da guardare con i propri genitori». E pensare che c’è stato persino qualche fan che si è presentato con il frutto in mano chiedendo che venisse autografato! Su TikTok è diventato virale lo stesso slogan per il nuovo film di Emerald Fennell: «Non guardare Saltburn insieme ai familiari o con qualcuno di adulto». Si tratta di quel “peccato” lì, quello che (vagamente) si avvicina ad un qualcosa di spudorato ed esplicito. Tutto qui. E la morte? Non è intesa come idea per cui la grandezza di un uomo sia (anche) la sua tragedia. Non le viene attribuito un senso di sacralità né altro mistero più ampio o complesso. Cos’è che, allora, realmente viene fuori da Saltburn?
La pellicola è ambientata nei primi anni 2000 e racconta la relazione tossica tra Oliver Quick (Barry Keoghan), studente emarginato all’Univeristà di Oxford, e Felix Catton (Jacob Elordi), un giovane proveniente da una famiglia benestante. I due iniziano a legare, ma il rapporto è iniquo sin dal principio. Tra ricatti emotivi, morbosità e giochi di seduzione la relazione raggiunge l’apice dell’esasperazione. È evidente come Emerald Fennell abbia voluto spingersi oltre con Saltburn, ma è altrettanto chiaro che si tratti di un esperimento pericoloso.
Per Pasolini Teorema è stato il film che (più di ogni altro) ha tracciato con definitiva nettezza la posizione di progressivo, totale isolamento intellettuale. Il film, cioè, che l’ha trasformato di lì a poco in una specie di “mostro del dissenso” da esorcizzare facendolo parlare. Ed è ancora più evidente come la regista Premio Oscar abbia voluto omaggiare (perché è solo di omaggio che si può parlare, non di emulazione) proprio Pasolini. E proprio Teorema, sperando di suscitare (forse) la stessa reazione. Oliver Quick potrebbe (attenzione al condizionale) ricordare Terence Stamp, l’Ospite inatteso: un ragazzo schivo, riservato, assorto in sé stesso, senza particolari qualità. Un ragazzo caratterizzato da una sorta di “angelicità” che lo rende immune da schemi e convenzioni/convinzioni borghesi; che attrae irresistibilmente, uno ad uno, tutti i membri della famiglia dove viene accolto. Oliver, però, non è tanto affascinante da riuscire a incoraggiare l’individuo borghese e metterlo nella condizione di prendere coscienza dell’Altro, mettendo così in discussione anche la propria identità. Perché il teorema punta a questo: a dimostrare la possibilità più o meno concreta della irredimibilità della borghesia.
Poniamo che il – o un – borghese si muova (finalmente) verso una presa di coscienza e un superamento delle sue certezze, cosa potrebbe accadere? Pasolini lo spiega, sviluppando Teorema prima come un abbozzo letterario composito, poi come un racconto/inchiesta per frammenti e infine come autonomia dell’opera letteraria in quanto traccia cinematografica. Traccia nella quale Pasolini approfondisce ed estremizza la ricerca formale già intrapresa con Edipo re, quella della rinuncia progressiva dell’espressione verbale e alla preponderanza dell’immagine silenziosa. La borghesia soccombe grazie al suo strumento di dominio: la razionalità, unica forza capace di rifondarla nel modo di vivere e convivere. Ed è questo il punto su cui Emerald Fennell nel suo Saltburn sembra essere impotente, o meglio destinata ad un grido (sanguinante) di impotenza. Nell’ottica dell’Ospite, poi, il sesso non è usato intenzionalmente e di per sé non è un atto sacrale di redenzione, né un atto a suo modo “rivoluzionario”, ma qualcosa di vissuto in maniera del tutto naturale, in qualsiasi forma si manifesti. Il sesso, dunque, è semplicemente al di fuori dei canoni di ordine, possesso e benessere sociale. L’Ospite non si contrappone alla logica inesorabile dei personaggi, la ignora, distruggendo – così – la condizione vincolante. Le connotazioni razionali/borghesi non sono rintracciabili nella figura di Oliver, tantomeno nel suo epilogo. C’è differenza tra il vagare nel deserto, messosi di fronte alla propria nudità, accompagnato dalle note struggenti del Requiem mozartiano e “sciogliersi” nell’urlo della consapevolezza di non essere, e ballare con ilarità con la colonna sonora di Murder on the Dancefloor, che – piuttosto – ricorda le approssimazioni di tanti teen drama.
Se ne stanno dicendo di tutti i colori, come si fa per esorcizzare definitivamente qualcosa da dimenticare parlandone. Parlarne oggi significa tentare di riannodare le fila di una lucida disperazione messa a tacere. Tentativo un po’ disperato, appunto, a cui si associa anche il rischio – inevitabile – della parodia. Siamo sicuri, allora, che si possa parlare di tradizione e di rivoluzione? E se, invece, l’annullamento dell’identità personale a favore dell’identificazione con la maggioranza (basti pensare alla vitalità sui social, all’attenzione verso l’attore del momento e allo “scandalo” di alcune scene ben studiate) rischiasse di far tramontare definitivamente – assieme all’indubbio imbarazzo – anche il senso più vivo e moderno della tradizione? Dunque, l’esperimento non sembra essere riuscito. Lo dimostra lo spirito di Fennell ben lontano da un’analisi di un contesto sociale e di un preciso momento storico e affascinato, invece, da aspetti simbolici di una realtà minimale stagnante, contraddittoria e grottesca. Una realtà stagnante, per restare in tema “acquatico”, strumento di cui si serve Fennell per insistere sul tema della sessualità, immaginando di seguire la maniera di François Ozon che, attraverso l’acqua, ha messo in scena meccanismi di estinzione/rigenerazione.
Una cosa è certa: opere a cui si riserva questo accanimento lasciano il segno. Ed è vero anche che il pubblico può desiderare proprio questo tipo di accanimento. Emerald Fennell, d’altronde, ha fatto un cameo in Barbie, ed è a suo agio con cult che diventano tali prima ancora della loro consacrazione ufficiale. Saltburn ha lasciato il segno. Al di là del fatto che siamo lontani da un Cinema che sa mettere a disagio e dalla maniera di Peter Greenaway – per fare un esempio – di calibrare i suoi temi preferiti, il sesso e la morte, creando la stessa atmosfera, ma non girando mai lo stesso film. Al di là di pretese non soddisfatte, di una mancanza di una struttura concettuale che condanna ad essere o indefettibilmente sé stessa o il nulla. Come per l’uomo, condannato a vagare per il deserto in una condizione di impotenza e di follia o ad essere nulla.