Emma Seligman: come tutti, ma in modo diverso 

15 Febbraio 2024

Resistere o scomparire. Emma Seligman ha le idee chiare. Vuole parlare di qualcosa di cui parlano tutti, ma in un modo diverso. Gli adolescenti sono stati raccontati – spesso attraverso racconti crudeli – come ribelli e anime sofferenti con il loro carico di implicazioni socio-culturali e interpretazioni psicologiche annesse. Il teen movie si è adattato molto spesso alle esigenze del pubblico, non allontanandosi da stereotipi e convenzioni consolidate, ripresentando – e ripetendo – il requisito fondamentale che consiste nell’instaurare un certo rapporto di familiarità, elemento imprescindibile affinché venga riconosciuto come genere unitario e coerente. Con le dovute eccezioni: basti pensare a Gus Van Sant e al suo Paranoid Park (2006), tratto dall’omonimo romanzo di Blake Nelson; all’approccio di Todd Solondz in Fuga dalla scuola media (1995), o agli adolescenti ancora più “cattivi” di Harmony Korine in Spring Breakers (2012). 

Seppur eccezioni, sono però esempi lontani dal punto di vista di Seligman, apparentemente più vicina allo stereotipo del teen movie, o meglio dell’high school movie, che potrebbe essere accostato a un ennesimo Mean Girls (2004) o – persino – a Fatti, strafatti e strafighe (2000). Ma la regista non si preoccupa del paragone, né di slegarsi da quel preciso immaginario. Anzi, Bottoms (2023), sua opera seconda disponibile in streaming sulla piattaforma Prime Video, insiste sui luoghi comuni, servendosene. L’incipit, infatti, è volutamente (troppo) accostabile a una delle tantissime commedie di inizio anni 2000. Ma facciamo un passo indietro. Prima di arrivare al rom com di ambiente scolastico, c’è Shiva Baby (2020), che ci serve a comprendere come si possa parlare di quello di cui parlano tutti, ma in un modo diverso. Camminiamo, allora, dentro e fuori le storie, cinematografiche e personali. 

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Emma Seligman.

Emma Seligman ha ventotto anni, è canadese ed è cresciuta in una comunità ebraica molto chiusa e unita. Nato come cortometraggio quando era ancora all’ultimo anno della New York University, Shiva Baby, disponibile su Mubi, è un personalissimo primo esperimento. C’è una componente angosciante e manipolatoria tipica del cinema claustrofobico (che ricorda un po’ il Darren Aronofsky di Madre!, soprattutto per l'intrusione nell’ambiente familiare) e un’irrazionalità sadica ed irritante, quasi fastidiosa, che amplia la componente thriller/horror “sfruttando” il tema del disagio generazionale. 

La pellicola è una vera e propria evoluzione dell’omonimo cortometraggio; è l’occasione, cioè, per approfondire personaggi precedentemente – in soli sette minuti – solo abbozzati, come la stessa regista ha raccontato nel Q&A disponibile su Mubi insieme al film. Seligman si focalizza sul personaggio di Danielle (Rachel Sennott, anche protagonista e co-sceneggiatrice in Bottoms), una studentessa ancora incerta su quale strada prendere e su cosa fare del proprio futuro. Dopo una mattinata stressante con il suo sugar daddy, si ritrova a un funerale (shiva, cerimonia funebre ebraica) in cui c’è tutta la sua famiglia, la ex fidanzata e l’uomo con cui ha passato la mattina, accompagnato da moglie e figlia. Tra richieste insistenti dai familiari (chi ha letto Philip Roth sa quanto possa essere opprimente la famiglia nella cultura ebraico-americana), insinuazioni inopportune su presunti disturbi alimentari, critiche, accondiscendenza e difficoltà a spiegare (prima di tutto a sé stessa) il suo percorso accademico, Danielle rimane intrappolata dall’indifferenza e dalla claustrofobia di un luogo che, pian piano, la porta all’esasperazione. La regista sceglie di svolgere l’azione in un solo posto e nell’arco di una sola giornata e opta per una situazione verosimile; cattura la frustrazione di una giovane donna, cioè, in un contesto in cui si è costretti a rispondere a domande scomode e fuori luogo (del resto, nonostante si tratti di un funerale, è comunque una circostanza in cui si riunisce una famiglia). I discorsi imbarazzanti e le espressioni di disagio, uniti al pianto di una bambina e al fastidioso stridio di un violino in sottofondo – che ricorda la colonna sonora dissonante di Lanthimos in Il sacrificio del cervo sacro – creano una situazione di malessere e una sorta di nausea che facilmente sfocia in un attacco di panico. 

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Shiva Baby.

La regista riflette sulle difficoltà di costruire il proprio carattere, di conquistare il proprio diritto alla parola e di compiere scelte alternative a quelle già prescritte. Quando le aspettative degli altri prendono il controllo della propria vita, inevitabilmente, si soccombe. L’esasperazione, poi, facilmente sfocia in un gioco al massacro, nell’invasione e nella distorsione dello spazio vitale; ci si ritrova così di fronte a un sadismo pervasivo ma intrigante e che spinge lo spettatore alla disperata ricerca di una via d’uscita. È come se fosse una visione in apnea. Shiva baby è un’esplorazione, un racconto di formazione pronto a esplodere (un’esplosione che troveremo anche in Bottoms), un esercizio cinematografico. Sceglie di spiegare – ma non di giustificare – le scelte che ci si trova a prendere quando ancora non si conosce sé stessi. 

Che poi, a dirla tutta, è così necessario avere tutte queste risposte? A vent’anni non sempre ci si sente “interi”. Danielle infatti nasconde a tutti “pezzi” della sua vita: è una studentessa incerta, è l’amante – a pagamento – di un uomo più adulto, è un’aspirante imprenditrice. Tutti questi “pezzi” rischiano di venire svelati per le pressioni della famiglia, ma anche e soprattutto perché è la stessa Danielle a non reggere più una situazione in cui deve nascondersi. Quello che lei ritiene Potere, ottenuto grazie al corpo o alla sessualità, è in realtà una forma profonda di insicurezza e insoddisfazione personale. Il potere sessuale esiste solo e soltanto nella forma in cui si è realmente padroni di sé perché si conosce e si rispetta il proprio corpo, i propri desideri e i propri piaceri. Tutto il resto è (inconsapevole) sofferenza, mancanza di autostima o anche soltanto fretta nel voler acquisire una maturità sessuale che, per forza di cose, si raggiunge con le esperienze. Danielle pensa di emanciparsi vivendo il proibito e andando a letto con un uomo più grande, ma non sapendo poi gestire la tensione nel momento in cui ci si ritrova a parlare fuori da una camera da letto e, in più, con sua moglie e sua figlia. 

Questo fascino “perverso” del cinema disturbante sembra venir meno in Bottoms, in cui, almeno per la prima mezz’ora, ci si chiede dove sia finita la regista di Shiva Baby. Basta avere pazienza, andare oltre le battute e le parolacce alla Sex Education e superare qualche momento di imbarazzo che solo all’epilogo troverà la sua ragione di esistere. L’attenzione è rivolta ancora alle problematiche legate alla crescita, ma questa volta la difficoltà è aumentata, come se fossimo a un livello superiore. Bottoms corre troppo il rischio di sembrare quello che a tutti gli effetti è. Ma non è tutto qui. Se non viene sufficientemente inquadrato e contestualizzato rischia di perdersi nel catalogo offerto da Amazon Prime Video, che ha il brutto difetto, in questo caso, di associare film apparentemente simili per agevolare la scelta degli utenti. Il focus è sempre l’identità di genere e lo sguardo è ancora più lucido; la satira più selvaggia e meno conturbante; l’atmosfera più familiare e meno claustrofobica. Ma i temi sono gli stessi. 

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Bottoms.

Protagoniste della pellicola sono due studentesse impopolari, di quelle che ogni giorno sull’armadietto trovano scritto un nuovo epiteto, che vogliono conquistare le due cheerleader più conosciute nella scuola. Niente più convenzionale, quindi. Eppure, la strategia messa in atto dalle due outsider per “vincere” con le altre due popolarissime è inedita: mettere su un fight club, nel vero senso della parola. Combattimenti, sangue, scontri diretti. Tutto allo scopo di imparare a difendersi, a scontrarsi con chiunque capiti. L’idea viene loro offerta proprio dai compagni di scuola che, dopo aver loro attribuito l’etichetta di “sfigate” vengono scambiate anche per “toste”, per aver ferito leggermente e accidentalmente il quarterback della squadra di rugby, allo scopo di difendere una ragazza. Ecco che essere stigmatizzati serve: essere viste come cattive, o persino pericolose, è l’occasione giusta per riscattarsi. Il fight club diventa l’occasione anche per conoscersi e indagare sensi di colpa, insicurezze e sofferenze, ed esplorare quella “zona grigia” che non è propriamente quella delle violenze conclamate, ma quella conosciuta da tutte, quella in cui purtroppo si sono trovate e si trovano. Ci si inizia allora a confidare, ci si responsabilizza, si acquisiscono forze. Poi, sempre per seguire l’itinerario del più banale teen drama c’è il momento dello scioglimento del gruppo e dell’isolamento; quello, cioè, in cui si passa tra i corridoi della scuola e si subiscono gli sguardi ostili di chiunque. Ma la situazione non può che risolversi, con nuovi combattimenti (anche tra ragazze e ragazzi, con tanto di battuta “Le femmine fanno quello che fanno i maschi”) e nuovi momenti di conoscenza di sé.

Si può parlare di quello di cui parlano tutti, e lo si può fare persino in un contesto già visto mille volte: con gli stessi protagonisti, le stesse dinamiche adolescenziali, le stesse colonne sonore di Avril Lavigne. Ma è ugualmente possibile fare la differenza, se non di più. Utilizzare la violenza per parlare di violenza, con tanto di orgogliosi nasi rotti e felici visi tumefatti (perché c’è soddisfazione nell’esibire il dolore); utilizzare gli insulti omofobi per parlare di omofobia senza cadere nei più comuni discorsi retorici. Resta il fatto che per comprendere a pieno Bottoms può forse essere d’aiuto la visione preliminare di Shiva Baby, ma le due cose non devono essere necessariamente connesse. Emma Seligman è versatile, non si prende troppo sul serio ma è molto seria quando si parla di dinamiche di potere e storie di affermazione di donne. Una nuova pellicola giovanilistica, allora, non deve per forza essere peggiore delle tante precedenti. Ci si può distinguere, si può “accendere” il racconto – tanto da farlo “esplodere” – senza neanche fare troppi sforzi. 

Emma Seligman conosce bene le dinamiche che porta in scena. Conosce la sensazione che si prova quando il futuro guarda dritto negli occhi; quando, ad esempio, ci si ritrova appena laureati o, ancora prima, quando bisogna prendere una decisione su quello che si vuole fare. Conosce – e convive – con le problematiche legate al discorso sulla violenza di genere. Ecco, allora, che lo straniamento che si avverte durante la visione di Bottoms cambia connotazione. Sicuramente, non è un’altra stupida commedia americana. E sicuramente si può cambiare (di)mostrando di essere eclettici, si può lavorare sui contrasti. Basta che le idee ci siano. Sempre le stesse, eppure sempre nuove. 

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