May December: la distruzione gentile di Todd Haynes
Ancora una volta un’indagine, ancora una volta un’intrusione nelle immagini più polverose depositate nella memoria, ancora una volta una riscrittura che vuole smuovere coscienze e svelare verità nascoste in un crescendo emotivo. Quella di Todd Haynes è una distruzione molto “gentile”, perché contrariamente ad altri autori di melodrammi ha un atteggiamento positivo nei confronti dei suoi personaggi. Personaggi veri e propri, reali, che vivono le proprie frustrazioni e le proprie ossessioni fino a sfociare nella paranoia; che si autodeterminano andando oltre il “senso” che può essere contraddittorio, non univoco né chiaro. In May December Haynes torna sui propri modelli (Douglas Sirk), sulla propria struttura del melodramma in grado di stimolare le coscienze dello spettatore, sulla propria attitudine a non distanziarsi dal pubblico ma invitarlo – in modo provocatorio – a partecipare alle emozioni create dalla messa in scena.
Dopo Cattive acque e l’estenuante battaglia legale contro il colosso chimico DuPont, Haynes torna a parlare di passioni nascoste e compresse da un perbenismo che non ammette libertà, riportando lo spettatore alle stesse atmosfere di Carol. In May December protagonisti della storia sono Gracie (Julianne Moore), insegnante nota alla cronaca statunitense per essere finita in carcere con l’accusa di aver intrapreso una relazione con il tredicenne Joe (la storia è ispirata alla vicenda di Mary Kay Letourneau); e un’attrice, Elizabeth (Natalie Portman), che sta per interpretare il ruolo di Gracie in una pellicola che racconta appunto la scabrosa vicenda. Haynes ci presenta un ambiente familiare, quello di una normale famiglia che organizza barbecue e che accoglie i nuovi ospiti in casa. Una coppia felice, tre figli, una rispettabilità tutta borghese. Soltanto più tardi, attraverso i vecchi giornali che sfoglia Elizabeth, lo spettatore scopre l’altra versione della storia. Come se ci fossero un primo e un secondo amore (il riferimento è anche, e di nuovo, al Sirk di All That Heaven Allows, 1955), una prima e una seconda interpretazione della vicenda.
Un primo amore perfetto che non indugia sulla differenza d’età (soprattutto perché viene raccontato per intero al presente, non all’epoca dei fatti) a cui il passato non pesa, e che, senza neppure troppa arroganza o ostentazione, infrange le barriere morali. E poi c’è un secondo amore, malato, sporco, sbagliato, ossessivo, che si definisce tale, volendo rifarci a Kubrick e alla sua Lolita tratta da Nabokov, per la precisa delimitazione temporale dell’età del “ninfaggio”. Due amori, due versioni della storia, ma una sola sentenza.
Nella realtà, Mary Kay Letourneau si dichiarò colpevole del reato di stupro e, in attesa della condanna, diede alla luce il primo figlio avuto con il giovanissimo amante, Vili Fualaau. Questo è ciò che è realmente accaduto e che serve a Haynes come punto di partenza per un’altra riflessione. La grammatica di May December (titolo che si riferisce all’espressione un po’ anacronistica che descrive una relazione tra una persona anziana – l’inverno – e una giovane – la primavera) è un presente assoluto. Elizabeth è lo sguardo che indaga e che tenta di delineare i contorni di Gracie, così da poterla interpretare al meglio. La osserva, ne studia i dettagli: «Ha gli occhi rotondi, appuntiti. Chiusi anche quando sono aperti», dice. È una donna impenitente, che sa sempre cosa vuole; non tentenna, non trema, non mostra alcun segno di vergogna o di rimorso. È una donna che non cerca redenzione né assoluzione perché non vi sono i presupposti né per l’una né per l’altra; è piuttosto la borghesia a imprigionare, a rendere deboli e fragili. Gracie, invece, è sicura di sé e lo afferma con fierezza: «Le persone insicure sono pericolose», sentenzia. Ed è in questa profonda sicurezza che si concretizza il legame con Joe (Charles Melton), che non si definisce mai vittima, ma perfettamente cosciente di quanto accaduto. Non mostra paura, o segnali che possano far pensare ad un trauma.
L’indagine di Elizabeth porta a esiti imprevedibili. Se è vero che le persone con cui si confronta mostrano (ancora, dopo vent’anni) stupore e indignazione, è vero anche che la condizione di Gracie e Joe è ormai accettata e accertata anche per legge. Nel quartiere in cui vivono sono per la gran parte benvoluti, o forse la middle/upper class finge che sia così, costruendo perfette gabbie dorate intorno alla coppia. L’accanimento da parte di qualcuno c’è, ma mai tale da far pensare alla famiglia di dover reagire con la fuga. Anzi, è la stessa Gracie a stupirsi, dopo che Elizabeth le chiede il motivo per cui non hanno mai abbandonato il luogo in cui vivono. «Perché dovremmo essere noi ad andare via?», dice, insinuando implicitamente che se mai qualcuno dovesse scappare non sarebbero di certo loro a doverlo fare. Con qualche differenza, è la storia di La paura mangia l’anima, diretto nel 1974 da Rainer Werner Fassbinder.
Nel film, vago remake di Secondo amore, vengono descritte le difficoltà che gli amanti protagonisti Emmi e Alì trovano nel farsi accettare dalla società: i tre figli di Emmi la rinnegano; uno di loro, folgorato dall’apparizione di Alì, distrugge un televisore (nel film di Sirk il televisore è invece il regalo ipocrita che i figli fanno alla protagonista Jane Wyman per consolarla degli ostacoli che frappongono al suo amore per il giardiniere Rock Hudson); il droghiere le vieta l’ingresso nel suo negozio, le colleghe la ignorano disgustate. Fassbinder espone con chiarezza e sensibilità verità semplici ed essenziali; il pubblico si identifica inevitabilmente con la causa «giusta» dei due «emarginati». Ma si sa che la realtà non è fatta di buoni e cattivi. L’ambiente sociale può rivelarsi anche abbastanza elastico – anche se solo per interesse – da integrare una diversità.
Haynes tratta con rispetto una diversità… diversa da quella di Fassbinder, e lo fa in un modo che non è né morboso né poetico, ma semplicemente umano e sincero. La forza del racconto sta proprio nella rinuncia a essere nient’altro che quello che è, ossia il racconto di due persone con bisogni complessi, forse non condivisibili, ma comprensibili. Si è disposti a rinunciare a molto anche per la sola parvenza dell’amore e della comprensione. E senza rispetto non si dà amore. I “diversi”, intesi come coloro che sfidano le convenzioni sociali, sono più pronti ad ammettere questo bisogno, e lo affermano non per mezzo di una gioiosa carnalità, ma con scambio diretto di un istintivo calore umano. Al di là dell’aura scandalosa, questo loro atteggiamento li rende più vittime dell’amore.
Le zone grigie morali sono e saranno sempre quelle più interessanti. Quelle che attireranno i più curiosi, i più bigotti, i più interessati a spiegare, a capire. Ma come capire una pulsione nata vent’anni fa? Cosa ha spinto Gracie ad avvicinarsi ad un ragazzino di tredici anni? E cosa ha spinto Elizabeth a fare l’attrice, a scegliere di interpretare un personaggio così complesso? L’obiettivo non è cercare una verità assoluta, una risposta definitiva e logica che giustifichi le azioni compiute. Chi segna queste linee si perde tutto il resto. E, a parte i nudi fatti, come restituire la ricchezza del racconto che è una ricchezza letteraria di atmosfera e di progressione psicologica?
Todd Haynes conduce una nuova e sofisticata indagine, parlando (ancora) di realtà, facendo sentire il dramma pur anticipandone la soluzione fin dall’inizio. La gabbia si chiude intorno a Gracie e Joe, e allo spettatore non resta che contemplare la loro immagine rifatta, spezzata, riflessa e moltiplicata fino alla perdita dell’identità.