“Tu sei una”: The Substance
«Persuasione senza coercizione: nessuno ci obbliga a guardarla. Chi l'avrebbe mai detto che un popolo libero avrebbe passato volontariamente un quinto della propria vita seduto davanti a una scatola per immagini!»: così dice James Coburn in Troppo belle per vivere (1981), di Michael Crichton. Proprio quella “scatola per immagini” è il mezzo per costruire il proprio punto di vista per Elisabeth (Demi Moore), ex stella di Hollywood ormai caduta e riciclata (per poco) per un fitness show. Quella “scatola per immagini” occupa prepotentemente gli spazi del suo appartamento, è lo “sguardo di tutti contro tutti”, è lo spazio in cui è possibile osservare, spiare, giudicare. Ed è proprio quando Elisabeth viene incoraggiata ad un prematuro pensionamento che decide di sperimentare un farmaco (come una mela avvelenata, ma con una procedura più complessa e “scientifica”) che la divide in due, pur facendola rimanere una sola. La regola, infatti, è questa: «Tu sei una». Però, a fasi alterne, ce ne sono due; c’è Sue (Margaret Qualley), giovane e bellissima, con un corpo che, anche a un esame minuzioso, non ha difetti, e poi l’altra, la stessa Elisabeth. È proprio lei a darsi l’altro nome, Sue: forse perché ha un suono delicato, forse perché è il diminutivo di substitute, sostituta (ma to sue, in inglese, significa anche “intentare una causa”, “citare in giudizio”). Sue è quello che Elisabeth (soltanto lei?) ha sempre sognato: una versione migliore di sé, più giovane, più bella, più perfetta. Questa nuova divisione cellulare viene dalla stessa Elisabeth, che viene disegnata come la matrice, un ruolo scomodo che presto la porta a stancarsi e autosabotarsi.
Immaginiamo cosa potrebbe accadere se a chiunque di noi, membri di una società liquida impegnati a celebrarci in infinite ricette narcisiste, venisse offerta un’occasione del genere. Lo sdoppiamento del personaggio-leader è, chiaramente, solo un frammento del sistema di duplicazioni/sostituzioni che attraversa il film. Il “doppio” è il vero tema narrativo di The Substance, opera seconda (dopo Revenge, 2017, che si muoveva tra l’estetica patinata e il gore) di Coralie Fargeat. Elisabeth non ha solo un alter ego, ma anche un differente repertorio di identità. Può servirsi della versione scissa di sé rimanendo se stessa. Il corpo di Sue e la mente di Elisabeth. Come gestire, però, a settimane alterne, questa nuova immagine di sé? Questa “fame di vita” che lascia spazio, dopo sette giorni, ad una profonda depressione e ad uno stato di alterazione? Proviamo a immaginarlo.
Direttamente correlato alla struttura della duplicità è il sistema delle doppiezze, intese come travestimento, auto-celamento e menzogna. Se potessimo cambiare solo la forma e non la sostanza? Di nuovo: proviamo ad immaginarlo, ma forse non ne siamo in grado. Coralie Fargeat ha descritto (ma anche torturato, martoriato, fatto a pezzi, distrutto) il corpo di una donna, Demi Moore, dandolo in pasto allo sguardo degli altri (quello di tutti contro tutti), alle aspettative sociali, agli standard di bellezza, al mito della celebrità. È il corpo di una donna, appunto; una donna che si è messa a nudo, letteralmente, andando ancora oltre, dato che Elisabeth nel film dichiara 50 anni, mentre Moore ne ha 62.
In un suo celebre saggio, Invecchiare: due pesi e due misure (oggi lo si può leggere in Sulle donne, Einaudi 2024), Susan Sontag scrive:
«Quanti anni ha?» La persona che pone la domanda potrebbe essere chiunque. A rispondere è una donna, una donna «di una certa età», come dicono i francesi con discrezione. La sua età può andare dai vent'anni compiuti ai sessanta ormai prossimi. Se la domanda è impersonale - informazioni di routine richieste per il rilascio di una patente, una carta di credito o un passaporto -, probabilmente la donna si sentirà obbligata a dire la verità. Nel compilare il modulo per ottenere una licenza matrimoniale, se il suo futuro marito è più giovane di lei, sia pure di poco, potrebbe venirle voglia di togliersi qualche anno, ma probabilmente non lo farà. Quando si candida per un posto di lavoro, spesso, le possibilità di ottenerlo dipendono, almeno in parte, dall'avere l'età «giusta» e, nel caso in cui la sua non lo fosse, mentirà, se avrà l'impressione di riuscire a farla franca.
Sontag prende posizione sul tema senza esitare: «Se la domanda non le viene rivolta da un uomo, ma da una donna, si sentirà meno minacciata. Le altre donne sono, in fin dei conti, compagne che condividono lo stesso potenziale di umiliazione». Non possiamo non ammettere che gli anni di una donna siano oggetto di curiosità, così come il suo corpo. «La fertilità di una donna diminuisce dopo i venticinque», recita una delle battute di The Substance. Allora, forse, non è così facile immaginare l’effetto sortito da una pozione magica capace di creare una versione di sé sofisticata, sexy, ironica. E se poi anche questa perfezione finisse come la matrice, giudicata, aggredita, rimpiazzabile?
Evidentemente il discorso non è così semplice. Il corpo (quello femminile, naturalmente) è il messaggio. Le domande da porsi sono assai complicate, appunto, perché tendono a debordare e a rifrangersi in ulteriori e fascinose interrogazioni. «Misurarsi con le parole del femminismo - con le sfuggenti e scivolose declinazioni che porta con sé, con l’ombra del fraintendimento sempre in agguato - è una scelta rischiosa, che apre conflitti, determinate fratture»: così scrivono Lucia Cardone e Sara Filippelli in apertura dell’antologia Filmare il femminismo - Studi sulle donne nel cinema e nei media (ETS, 2015). È importante che questi conflitti si aprano, e che queste fratture si rompano definitivamente. Così da ricostruirsi, da ri-fondare alcune idee ancora inspiegabilmente non condivise. La “Sostanza” di cui parla Coralie Fargeat è che il Cinema ha raccontato continuamente l’ossessione per la perfezione estetica, rafforzando espressioni come “Bella da morire”, tanto per dirne una. E se la bellezza non viene fuori, si diventa automaticamente mostri. Pensiamo a Occhi senza volto (1959), il film che Georges Franju aveva ricavato dall’omonimo romanzo di Jean Redon, in cui un medico rapisce e uccide giovani donne nel disperato tentativo di restituire alla figlia la bellezza perduta tramite un intervento di chirurgia plastica. Non importa quanti tentativi falliscono: la scienza può fermare l’imbruttimento, o quantomeno deve provarci.
The Substance guarda a De Palma, soprattutto a Le due sorelle (1973), un suspense-movie a sua volta girato “alla maniera di” Hitchcock, allegoria della visione in cui lo spettatore è introdotto al di là del suo occhio, nell’universo illusionistico e truccato di un cinema a valenza eminentemente visiva. Guarda a La morte ti fa bella (1993) di Robert Zemeckis, naturalmente a Cronenberg (Brood - La covata malefica, Inseparabili, Crimes of the Future), a Kubrick (Shining, Lolita), a Lynch (Mulholland Drive, The Elephant Man, Strade perdute). Coralie Fargeat si prende cura della sua matrice, della sua sostanza; sin dall’incipit, attraverso un'inquadratura fissa, dall’alto, che racconta il tempo che scorre sulla stella dedicata ad Elisabeth nella Walk of Fame. All’inizio è perfetta, poi le crepe, la pioggia, i passi delle persone che la calpestano, dopo ancora viene coperta dalla neve, sporcata, imbrattata. Alla fine, però, dopo essersi fatta a pezzi, torna al suo posto, proprio sulla sua stella. Come se si fosse liberata di tutto. Anche del suo produttore, interpretato da Dennis Quaid, che, forse non a caso, nel film si chiama Harvey (Weinstein?). Liberarsi di tutto, vincendo, cioè risplendendo, senza più essere soggiogate dagli standard di bellezza e di invecchiamento, dal bisogno di parlare al passato (nel film si alternano, tramite biglietti che accompagnano fiori, tempi verbali differenti), perché non si è più degne di essere nel tempo presente. Liberarsi, cioè riuscire a raggiungere la versione più autentica di sé. Una soltanto.
“Break a leg”, allora: buona fortuna a Coralie Fargeat. Così viene scritto - ancora - su un bigliettino di auguri a Sue. Che sia anche un invito a rompersi una gamba?