Artpod / Sandro Chia, "La Passeggiata", 1979

24 Marzo 2022
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C’è un uomo con un coltello in pugno appostato accanto a una porta, come in attesa che entri qualcuno o qualcosa di minaccioso che egli intende colpire, per difesa o offesa non si sa. L’inquadratura è in diagonale, cosa che conferisce dinamicità drammatica all’immagine, che da una parte assomiglia a un manifesto di film noir degli anni ‘40 o ’50 o alle copertine dei primi gialli economici, mentre dall’altra rimanda a una scena famosa di un film di Cocteau del 1930, Le sang d’un poète, nella quale il protagonista si appresta a entrare in uno specchio al cui interno effettuerà un viaggio in un mondo inquietante. Intitolata La passeggiata e dipinta da Sandro Chia nel 1979, immediatamente prima del lancio della Transavanguardia (1980), l’opera è composta di due pannelli che si incontrano in mezzo al rettangolo scuro accanto all’uomo.

 

La fenditura che lo percorre separa le sue due parti, che, pur nell’unità della forma, restano distinte sia a causa del loro colore, diverso anche se simile, sia dal fatto che sulla superficie di sinistra sono scritte alcune parole, che compongono una filastrocca che allude a tanti possibili sensi, nessuno dei quali certo. Nessuna versione esclude le altre, che convivono e si confondono nella duplice unità dell’opera. Il principio di non contraddizione è preso in contropiede o messo da parte. Tutto sta, può stare con tutto: l’indecidibilità non sospende il senso ma ne permette molti, compatibili con il filo che di volta in volta si individua, che va al fondersi con gli altri, indistinguibili nella dimensione del quadro, l’unica che conta.

 

Così la forma rettangolare può essere porta, tela, lavagna, specchio scuro, voragine, apertura, soglia, spazio di irruzione o anche di fuga, luogo da cui difendersi o in cui addentrarsi per passeggiare: l’ingresso in una zona oscura, conflittuale, l’invito a una flânerie pericolosa, paurosa e insieme eccitante, dove scoprirsi o perdersi. Perdersi per scoprirsi, ma anche perdersi per non tornare. 

Attorno al rettangolo scuro c’è una parete molto luminosa di color arancione, percorsa da segni gialli che la animano partecipi della stessa tensione della scena, di cui assecondano e quasi rafforzano il senso di apprensione. Dietro l’uomo si staglia la sua ombra (termine che è un anagramma parziale dell’ultima parola graffita: “tromba”, la cui prima lettera, forse a suggerirlo, è nettamente staccata dalle altre), che lo raddoppia, ma anche lo continua e quasi si fonde con lui, come la linea di contorno che segna i tratti del suo volto e il profilo sul muro per poi proseguire non lungo quello dell’ombra stessa ma attorno al corpo, lungo il braccio destro, la mano e il pugnale kriss, la cui punta potrebbe anche aver tracciato le parole, così come potrebbe aver operato il taglio che separa le due metà dell’opera.

 

Duplicità, raddoppiamento, unione, fusione. Il pugnale potrebbe allora essere un pennello, un gessetto, una matita, o niente; come niente potrebbe essere il riferimento a Cocteau, uno dei tanti prelievi di diversissima provenienza, delle citazioni che Chia usa nel suo modo insieme rispettoso (perché citare è pur sempre un riconoscimento, un omaggio, anche quando rovesciato in parodia) e dissacrante e divertito.

Sul braccio sinistro dell’uomo c’è la stessa linea serpentina del pugnale, un altro raddoppiamento, che torna in molte altre opere, per esempio nelle numerose versioni di Hand game, ma non nel contemporaneo Ossa cassa fossa, che con La passeggiata forma un’altra coppia, speculare ma con importanti differenze, come l’uniformità del colore del riquadro che è staccato dal pavimento, come una tela. 

 

In entrambi la figura è immobile, ma piena di tensione, pronta a scattare in un corpo a corpo, magari solo con il proprio doppio acquattato nel buio, a sua volta in attesa di aggredirlo e di sopraffarla. “L’arte è un mostro che non si sa da dove venga e nemmeno dove sia esattamente. Ma l’artista ha la responsabilità di entrare nel labirinto e poi uscire con la sua testa”, per quanto debole, timoroso o menomato egli possa essere. Ma l’uomo di questo quadro è deciso, robusto e armato, e la menomazione aggiunge, e non sottrae, un che di eroico, e insieme di ironico, alla figura. Ciò che sta per sopraggiungere può essere pericoloso, addirittura mortale, ma l’uomo, l’artista, ha il dovere di non sottrarvisi. Anzi, si definisce proprio per questo. L’opera stessa lo esige, perché non esisterebbe senza che lui lo affronti, superando le proprie angosce. L’interno è l’opera, la porta una tela. Dentro di essa brulica, come i segni sulle pareti, il lato oscuro presente in ogni cosa che ci si appronta a fare, il mistero che l’opera e le parole e l’agire stesso sempre celano, la grande zona in ombra che può sempre, e anzi deve, affiorare, come una minaccia di morte (tomba) che esplode come una bomba, ma anche come un tripudio di gioia (samba, tromba) in cui scatenarsi a danzare.

 

Legge Alessandro Renda del Teatro delle Albe. 

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