Santarcangelo: due sguardi

Memoria e politica

 

di Maddalena Giovannelli

 

 

Non capita spesso di tornare da un festival annotandosi un nome, e ripromettendosi di non lasciarsi sfuggire le prossime tappe del percorso di un artista. Quel nome è Amir Reza Kooesthani, trentottenne iraniano fondatore del Mehr Theatre Group, e ospite del cartellone di Santarcangelo 2015 con la creazione Timeloss.

 

Timeloss di Amir Reza Kooesthani, ph. Ilaria Scarpa

 

Lo spettacolo è una sapiente composizione di piani temporali e narrativi, che ha però il pregio di apparire allo spettatore semplice, immediata, commovente. Al centro c’è Dance on Glasses, successo del 2001 che portò Kooesthani a una fortunata tournée internazionale e che rappresenta per il regista una lente deformante per guardare al passato. Due attori si trovano a dover doppiare, oggi, la loro performance di molti anni prima: mentre le immagini dello spettacolo precedente vengono proiettate sullo sfondo i due discutono, ricordano, rimpiangono. L’espediente narrativo (un pretesto manifestamente fittizio, dato che gli attori sullo schermo sono visibilmente altri) permette un gioco di sovrapposizioni e prese di distanza. Il lungo tavolo disposto orizzontalmente in Dance on Glasses – i cui capotavola sono occupati da un lui e una lei, distanti e in costante dialettica – si spezza sulla scena di Timeloss in una coppia di tavoli più piccoli, come a sancire la separazione avvenuta. Il dialogo da doppiare, ottimamente scritto, fotografa infatti un addio rarefatto, sommesso ma non per questo meno struggente: le parole di ieri si mescolano a quelle di oggi, le commentano, le cambiano di senso, le rileggono con spiazzamento, disincanto, ironia. Le vite degli attori si specchiano allo stesso tempo in quelle dei personaggi, e in quelle degli attori che li interpretarono molti anni prima: siamo davvero le stesse persone che vediamo nelle foto e nei video che ci ritraggono? O gli anni e le esperienze ci hanno trasformato al punto da renderci altri?

 

A questo complesso gioco di rimandi, si aggiunge una cornice che apre e chiude il racconto moltiplicando il gioco di rifrazioni: una voce (nella quale siamo portati a riconoscere lo stesso Kooesthani) si rivolge a una lei, fonte di ispirazione per Dance on Glasses, Musa perduta di cui si sono smarrite le tracce, fermo immagine di una diciottenne in un pomeriggio di molti anni prima. Timeloss affronta nodi complessi come i confini sfuggenti tra realtà e finzione, il problema della conservazione di una forma d’arte effimera come il teatro, la difficoltà di rimarginare le ferite. Ma ancora prima di tutto questo, Kooesthani riesce a toccare in profondità il rapporto dell’uomo con la propria memoria. Ogni viaggio nel proprio passato, sembra dirci, è assimilabile a quello di Orfeo: dagli Inferi si torna soli, e a mani vuote.

 

Timeloss, di Amir Reza Kooesthani, ph. Diane

 

Narrazione intima e personale, Timeloss ha però anche una rilevante portata politica: guardare Dance on Glasses significa anche interrogarsi su cosa è mutato nella situazione politica iraniana, quali riflessi abbia sui rapporti interpersonali, cosa significhi per un giovane persiano iniziare una relazione e uscire di casa. I protagonisti di allora, come quelli di oggi, paiono schiacciati dall’impossibilità di agire, da una cappa che ne limita le capacità volitive e di reazione: quanto siamo permeabili dalla realtà che ci circonda? Quanto il nostro modo di amare, soffrire, progettare ne è influenzato?

 

La riflessione politica appare al centro di molti lavori del primo fine settimana di festival: dal discusso Breivik’s Statement di Milo Rau, passando per Our Secrets dell’ungherese Bela Pinter, fino all’esplorazione sui materiali di archivio dell’israeliano Arkadi Zaides. Particolarmente incisiva, in questo senso, la presenza di Christophe Meierhans, artista svizzero-belga che ha presentato il progetto Fondo speculativo di provvidenza e lo spettacolo Some use for your broken clay pots. Con il primo, Meierhans sperimenta una formula di coinvolgimento attivo della comunità del festival, con un vero e proprio test di democrazia partecipata: per ogni biglietto staccato, lo spettatore ha diritto a votare la destinazione di un fondo monetario collettivo. In caso di frammentazione del voto in troppe proposte, o di indice di astensionismo troppo alto, il fondo viene disperso. Nel primo fine settimana, la mozione che raggiunge maggiori consensi è quella di distribuire la somma ai volontari non pagati del festival; nella serata di sabato 18 però, la percentuale di votanti risulta ancora inferiore al 50%, e si registra così il fallimento democratico della neo-costituita società teatrale.

 

In Some use Meierhans mette a punto invece una forma ibrida tra spettacolo, conferenza, talk show, destabilizzando lo spettatore e conducendolo a riconsiderare costantemente la propria posizione. La performance coincide con la presentazione al pubblico di una nuova forma costituzionale e politica basata su un elevato tasso di partecipazione, e caratterizzata dal totale abbandono della dimensione ideologica. Non manca nulla: l’argomentazione, le slide, le risposte pertinenti alle domande del pubblico, che interviene frequentemente non nascondendo un interesse sincero per l’ipotesi presentata. Alcuni segnali, che si intensificano nella seconda parte, rivelano progressivamente la propria funzione straniante e ricordano al pubblico l’esistenza della finzione e della dimensione spettacolare: vasi da pianta (presenti nel titolo dello show, come aperta allusione all’ostracismo greco) cominciano a precipitare dall’alto, schiantandosi al suolo a pochi centimetri dal performer. Man mano, la grafica e il contenuto delle slide cominciano a declinare in una direzione di percepibile surrealtà, mentre gli spettatori (almeno nella seconda replica, quella di sabato 11) non paiono disposti ad abbandonare il registro realistico percorso fin a quel momento. Meierhans si muove costantemente in bilico tra le due dimensioni e consegna così all’uditorio un prodotto di scoperta ambiguità, che interroga a fondo una società in cui politica e spettacolo sono sempre più inestricabilmente legati.

 

Archive, di Arkadi Zaides, ph. Gadi Dagon

 

 

 

2. Teatro della realtà?

 

di Massimo Marino

 

Come valutare il nuovo corso di Santarcangelo, giudicando da questa edizione “di studio” di un festival possibile, secondo le affermazioni del direttore Silvia Bottiroli? Per ora sembra un festival schizofrenico, o meglio diviso in varie tensioni, senza una sintesi, un festival in cerca di se stesso per troppe strade divergenti.

 

Teatro?

 

È un festival di teatro, come ancora dichiara il suo titolo (Festival internazionale del teatro in piazza), ma a volte sembra più sedotto dal consumismo verbale e di idee del talk show, o indirizzarsi verso il festival della politica o della filosofia. Per quanto riguarda il teatro, in questi tempi abbastanza smarrito di suo: vi si sono visti spettacoli che mostrano le nuove inquietudini della vecchia arte, ossia di una rappresentazione con una storia (per quanto ridotta a gradi che spesso si avvicinano allo zero) e personaggi (che spesso si sovrappongono ai performer). È il caso del bellissimo Timeloss del quale parla Maddalena Giovannelli, del meno interessante Our Secrets dell’ungherese Béla Pinter, che ho l’impressione arrivi tardi in Italia con il suo teatro saldamente radicato nella storia ungherese, tradizioni popolari e anni di socialismo reale compresi, una vicenda viscerale, un caso di pedofilia usato dal regime socialista per ricattare e asservire, una specie di Cavalleria rusticana in salsa magiara, dove la più spendibile oggi pedofilia prende il posto dell’arcaica cornificazione. Si sono visti poi spettacoli già noti, spesso molto belli, come l’epico Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi delle Albe e Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni di Deflorian-Tagliarini, tutto giocato sui confini tra verità e rappresentazione. Non mi sembra si sia investito davvero sulla produzione di novità teatrali significative. Un caso a parte è MDLSX dei Motus, e ne parlerò dopo.

 

 

Danza della realtà?

 

Un altro filone è la danza, e qui si sono viste forse le esperienze più convincenti, in quel format della Piattaforma della danza balinese ideata da tre coreografi come Michele Di Stefano, Fabrizio Favale, Cristina Rizzo: ha mostrato, per accostamento e contrasti, frammenti della ricerca italiana contemporanea, ma anche spezzoni di esercizi di scuole di ginnastica o di balletto in un flusso continuo fatto di giustapposizioni, successioni, siparietti, arabeschi, avvicinamenti anche incongrui che creavano un tempo magico per una visione che slabbrava nell’esperienza onirica. Il corpo, il gesto, senza arrivare alla definizione di coreografie definite, sono state protagoniste di un movimento che oggi rappresenta il meglio della nostra ricerca. Altrettanto apprezzate sono state le incursioni di CollettivO CineticO con la parata mascherata Ballroaming e con il gioco da tavolo performativo Cinetico 4.4.

 

Piattaforma della danza balinese, ideata da Michele Di Stefano, Fabrizio Favale, Cristina Rizzo, ph. Ilaria Scarpa

 

Un discorso a parte va fatto per il lavoro dell’israeliano Arkadi Zaides, presentato da molti osservatori come “teatro della realtà” (su questa etichetta impropria tornerò più avanti). Zaides in Archive mostra scene video riprese nei territori occupati da Israele, manifestazioni di coloni, scontri, soldati che sparano lacrimogeni. Imita i movimenti, poi spegne le immagini e ripete la sequenza. Didascalico (una riproduzione della realtà per come è, ritagliata, svuotata dai nessi, come una merce su scaffali lucenti). Solo in un momento, verso la fine, cresce, con una sequenza accompagnata da suoni prodotti con la bocca, fischi, piccole urla, borborigmi, il vento dello scontro, la possessione dello stato di violenza permanente. Sarebbe stato bello confrontarlo con Third Song, la creazione di un altro israeliano, Emanule Gat, vista alla Biennale College di Venezia. Là non si dava il contesto documentale di situazioni di scontro nell’Israele di oggi: si vedevano rapporti conflittuali, scontri, negoziazioni, si entrava nel conflitto, guerresco e della vita quotidiana, mentre una parte degli interpreti faceva da spettatori e poi si trasformava in attori di una vicenda di continua tensione, in una dialettica che non si appellava alla “realtà” per come è: la evocava, la rovesciava, ne distillava in grande danza nervosa gli umori più sotterranei,  le complicità, la necessità di distaccarsi dall’atto, dal dato, di trasformare il visibile. Questo è il problema.

 

Ballroaming, Collettivo Cinetico, ph. Ilaria Scarpa

 

 

Teatro politico?

 

Un altro filone del festival è stato quello di riflessione politica sul presente, spesso incanalata in discorsi, rappresentazioni di discorsi, enunciazione di progetti. Ha aperto i flussi lo svizzero Milo Rau con Breivik’s Statement che ha messo in scena, nella lettura senza partecipazione di un’attrice, l’autodifesa davanti ai giudici dell’assassino di Utoya, l’uomo che nel 2011 uccise 77 persone, in gran parte giovani, partecipanti a un seminario del Partito Laburista nell’isoletta vicino a Oslo. Si ascoltano - recitate o forse meglio citate in piazza - le sue parole ipertradizionaliste, superxenofobe, ultraconservatrici, antislamiche, come si potrebbe sentire Bagatelle per un massacro di Céline o il Mein Kampf di Hitler. Incredibile è l’anestetizzazione dell’uditorio, che ascolta, senza un moto di protesta. Vent’anni fa, forse, più o meno, insorsero l’Anpi e una buona parte di Santarcangelo perché il festival voleva ospitare un lavoro creato in carcere da Mario Tuti, condannato all’ergastolo come terrorista neofascista: e Tuti non spiegava né giustificava i suoi omicidi, faceva, semplicemente, teatro. Oggi la piazza ascolta in silenzio. Segno di tempi cambiati? Teatro della realtà o piuttosto anestetizzazione da assuefazione ai talk show televisivi (il lavoro del regista svizzero è stato seguito da un classico dibattito con un colpo al cerchio e uno alla botte, con Marcello Veneziani, intellettuale di destra, e Wlodek Goldkorn, presentato come ebreo polacco).

 

Breivik’s Statement di Milo Rau, ph. Ilaria Scarpa

 

Si parla da più di una quindicina di anni, ormai, di teatro della realtà, di choc del reale (iniziava così L’arte e la sua ombra di Mario Perniola, per esempio, nel 2000, Einaudi). L’etichetta appare tanto frequentata da meritare qualche registrazione. Quella di realtà è, come insegnano i lacaniani, e prima ancora il pensiero marxiano, una categoria fasulla, ideologica, un sonno, un accettare il mondo per come appare, nelle sue determinazioni, un vessillo agitato da chi vuole conservare le cose per come sono, con le sue censure, le sue oppressioni. Va penetrata, fino a quell’essenza reale delle cose fatta di materiali sporchi, spesso inconoscibili, veri e propri incubi o emozioni, cui provare a trovare se non un senso (non certo un significato) una possibilità per il risveglio dal sonno della realtà. La storia non può esser presentata per eventi, cronache giornalistiche, fatti, dichiarazioni; non può essere ridotta a una diretta di Mentana o a un suo telegiornale, che ipostatizza la politica ed elimina la cronaca, lo sport, la cultura, trasferendo totalmente nella rappresentazione dell’atto, del momento, senza peraltro fornire fino in fondo i fili per comprendere, quelli storici, quelli analitici, quelli strutturali. Compito del teatro è suggerire, aprire visioni, relazioni, connettere, suggestionare, provare a fornire fili per ricucire un risveglio.

 

Questo faceva il festival nei suoi momenti di “teatro della realtà”: mostrare atti senza profondità, evitare di tentare di rammendare storie sdrucite, spezzate, con fili dispersi. Anestetizzazione, con l’illusione di vivere la flagranza del momento.

 

Questa l’impressione provata anche nell’insulso giochino di ruolo dedicato dagli svizzeri Ligna alla Prima guerra mondiale, Il grande rifiuto, in cui una cuffia ti chiedeva di sparare sui dimostranti o di sfondare (simbolicamente) il cordone dei pacifisti, ti invitava a guardare negli occhi il nemico rivelandoti che anche lui è un essere umano dotato di sensibilità, idee, sentimenti! Improponibile nel suo semplicismo naif per chi ha da poco visto un film sulla Grande Guerra come Orizzonti di gloria, o per chiunque abbia qualche lettura sull’argomento: roba da supermercato dell’intrattenimento (o forse da animazione da club estivo).

 

 

Messa in scena del quotidiano?

 

Ancora, certe performance risultavano totalmente inutili: così Azdora, alcune signore di Santarcangelo trasformate da Markus Öhrn in menadi punk, che per un’ora si gingillavano intorno al fare un tatuaggio a uno del pubblico. Immagino che il percorso delle signore fuori dalla loro normalità sia stato per loro affascinante, ma di nessun interesse era la performance per i malcapitati spettatori. Perché? Perché non si è avuta la radicalità di puntare su un’esperienza rivolta principalmente a chi la fa? Immagino che il lavoro con le signore fuori dai loro ruoli normali, realizzato in una lunga residenza, sia stato di forte coinvolgimento: perché non limitare a questo l’intervento, senza pretendere di trasformarlo in uno spettacolino insulso e un po’ patetico?

 

Azdora, di Markus Öhrn, ph. Ilaria Scarpa

 

Stesso discorso per l’esperienza dell’artista brasiliana Veridiana Zurita, che aveva attraversato case di Santarcangiolesi e ne esibiva oggetti e registrazioni su come era la famiglia una volta e sulle sue trasformazioni. La mostra richiamava composizioni viste più volte; i racconti registrati risultavano banali, le classiche testimonianze dell’uomo o donna della strada esibite dalle televisioni come se fossero frammenti statistici di opinioni, come se fossero un’indagine con qualche valore antropologico e non semplici frammenti colti più o meno casualmente, o almeno casualmente montati. Ancora una volta: tutto si muove nella direzione dello spettacolo, dell’apparenza senza sostanza, invece di interrogarsi sui movimenti più nascosti, e provare a ricomporre fili.

 

Il compito del teatro (o della performance che smuova equilibri) dovrebbe consistere in quello: offrire suggestioni, cortocircuiti, collegamenti, ampliamenti, non riprodurre l’esistente, come un cattivo reportage sulla realtà, che non si interroga mai su cause e possibili modi di uscita dalla crisi.

La realtà gli artisti più sensibili la rovesciano, ne mostrano i confini, i conflitti, gli orrori, la negano come trionfo dell’esistente, e provano a ipotizzare un’altra realtà, un’anti-realtà, fuori dai ruoli e dalle visoni precostituite, dalle maschere che indossiamo quotidianamente. Questa è la differenza (una delle differenze) tra teatro e spettacolo, tra teatro, concentrazione dello sguardo per prefigurare, e televisione.

 

 

Su incerti confini

 

Un lavoro sui confini è MDLSX di Motus, uno spettacolo che simula una realtà, quella della sofferenza e poi della presa di coscienza di una diversità di genere, di un non sentirsi nell’identità sessuale che ci è stata affibbiata, non sentirsi donna e cercare l’essere che si è, l’uomo, l’ermafrodito, fuori dai confini. Silvia Calderoni ne è l’interprete: gioca tutta se stessa, il suo corpo, la sua intelligenza, in un brano teatrale tutto a specchio con pezzi musicali, una vera e propria play list postpunk assemblata dal regista Enrico Casagrande (lo spettacolo è firmato anche da Daniela Nicolò). Si dà, si sfa Silvia Calderoni, si denuda, si cerca, cerca dentro il suo corpo, oltre, usando l’autobiografia per raccontare vari materiali letterari, e viceversa, mescolando i filmini in cui da piccola canta con brani letterari tratti da opere come Gender Trouble e Undoing Gender, e poi manifesti queer, in cerca di una verità oltre i ruoli che la società, che il conformismo impongono. Si tratta dell’inizio di un nuovo percorso politico dei Motus, meno immediatamente militante e predicatorio di quelli subito precedenti, meno semplicistico, potremmo dire, che recupera il guardarsi del performer in specchi di telecamere e zoom deformanti, moltiplicanti, rivelanti di vecchie opere della compagnia riminese. Un lavoro sui confini, la musica, il corpo, il vischioso sé, l’immagine proiettata in un tondo sul fondale, che riprende e svela particolari, come nel glorioso Rooms, che devia, porta altrove, un darsi tra verità e finzione, tra spreco e calcolo, che chiede allo spettatore di lasciarsi incendiare, contagiare, di mettere ordine nelle sensazioni, forti, negli stimoli concettuali, altrettanto forti, negli schiaffi esistenziali, negli incerti confini.

 

Silvia Calderoni in MDLSX dei Motus, ph. Ilenia Caleo

 

Un festival senza sintesi, infine: che forse, per la sua natura molteplice, ha rispettato la consegna di esperimento, di indagine. Con strade interessanti da percorrere e altre esauste, come quelle dichiarate più “politiche” e risolte in discorsi, parole, fiumi di parole senza sintesi, senza interpretazione o slancio immaginale. Oggi non abbiamo bisogno dei talk show: essi pullulano intorno a noi, ne siamo esausti. La differenza del teatro può consistere nell’indicare non soluzioni ma possibilità. Anche i materiali comunicativi di questo 45° festival di Santarcangelo rinunciavano all’immagine e esibivano materiali tutti scritti, tristemente scritti, come diluvi di parola in un mondo in cui tanto si parla, si chiacchiera, senza arrivare, spesso, neppure vicini alla radice delle cose. Gli slogan erano due frasi di Castellucci. Una in particolare, “guardare non è più un atto innocente”, appariva riduttiva, come quelle citazioni estratte da ogni contesto, ingenua, poco significante. Guardare non è mai stato atto innocente, perlomeno in età moderna. Ma guardare bisogna. Lo stesso Castellucci ci insegna che la pervasività falsificatoria dell’immagine si combatte stando nell’immagine, confrontandosi con essa, non negandola o occultandola. L’immagine, lo vogliamo o no, è parte della nostra vita: l’iconoclastia è un mettere la testa sotto terra come gli struzzi. Certo, e questo è l’ultimo suggerimento non richiesto al festival, bisogna superare la poetica e la pratica dell’object trouvé, lottare per una nuova densità immaginale. Altrimenti poi tutti i discorsi “sulla libertà di espressione dell’arte, chiedendosi che cosa l’arte possa fare e che cosa le sia permesso negli spazi deputati, e che cosa nello spazio pubblico” (era questo il filo sotteso al festival) corrono il rischio di infrangersi contro il primo codino che si scandalizza per una citazione in uno spettacolo, in strada, del Manneken Pis di Bruxelles, il bambino che fa la pipì, scatenando quei “dibattiti politici”, “scandali” e articoli giornalistici di paese nei quali la nostra Italia innamorata del lato più effimero e superficiale della cronaca si accende furiosamente per qualche giorno, per poi dimenticare e macerare altre sciocchezze, a ripetizione.

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