Se una notte d’inverno un etnografo

5 Ottobre 2015

«E poi, insomma, non è il mio mestiere, è un lavoro che bisogna saperlo fare, bisogna saper entrare in confidenza con il prossimo, e io già partirei con la prevenzione che la gente ha altro per il capo che raccontar favole a me».

 

Illustrando i criteri del proprio lavoro nell’introduzione alle Fiabe Italiane (1956), Italo Calvino motivava così la scelta di attingere alla documentazione già disponibile e perciò di sottrarsi a un vero e proprio lavoro etnografico, a quella ricerca sul campo che è la base empirica dell’antropologia. Da qui può prendere il via una riflessione sul rapporto di Calvino con questa disciplina e sul modo in cui questo può contribuire a un bilancio più generale della sua opera.

 

Perché rivisitare le relazioni fra Calvino e l’antropologia? Fra i suoi lettori nati negli anni Ottanta o dintorni, pare esistere una parabola del rapporto con Calvino piuttosto diffusa. Dopo la sacralizzazione giovanile, la scoperta progressiva di alcuni lati della sua opera e attività intellettuale ha spinto a una certa indifferenza nei suoi confronti, se non insofferenza. Alcuni degli scossoni dati al piedistallo troppo alto su cui molti fra noi avevano eretto la propria statua di Calvino – un piedistallo così alto che la statua non si vedeva quasi più, così da dimenticarne i motivi di adorazione – sono stati per esempio la scoperta del suo potere editoriale non sempre virtuoso, di quella certa inesattezza dei suoi appelli all’esattezza, della giocosità spesso stanca delle sue opere degli anni Settanta e Ottanta, del malcontento che ci davano certi effetti d’inibizione della sua opera sulla narrativa italiana, e così via. Per reagire a questi possibili motivi d’insofferenza, che per alcuni diventava a sua volta una forma di rancore, un tentato rimedio è stato quello di concentrarsi (prendere sul serio?), ognuno dalla propria prospettiva disciplinare o sensibilità, il rapporto fra Calvino e gli ambiti extra-letterari a cui si è interessato di più. Il caso di questo testo è il rapporto con l’antropologia, così importante per Calvino. Ecco il perché di questo nuovo sguardo su, per così dire, l’uso che Calvino ha fatto dell’antropologia.

 

Nella lezione americana dedicata alla Leggerezza leggiamo: «Abituato come sono a considerare la letteratura come ricerca di conoscenza, per muovermi sul terreno esistenziale ho bisogno di considerarlo esteso all’antropologia, all’etnologia, alla mitologia». Più oltre Calvino raccontava di certe tribù e villaggi che, in risposta alla precarietà dell’esistenza, immaginavano la levitazione di sciamani e streghe: «È questo dispositivo antropologico che la letteratura perpetua». È possibile rintracciare segni dell’attenzione verso l’antropologia (termine con cui, per il proposito di questo testo, indicherò simultaneamente etnologia, demologia e antropologia culturale) in tutte le declinazioni del lavoro intellettuale di Calvino. Non fu un interesse né marginale né episodico, al punto che in Leggerezza Calvino scrisse: «Penso che la razionalità più profonda implicita in ogni operazione letteraria vada cercata nelle necessità antropologiche a cui essa corrisponde». Ma a quali necessità antropologiche corrispondeva il suo interesse per l’antropologia?

 

 

Fiabe italiane

 

Nel «Notiziario Einaudi» del settembre del 1952, Calvino salutava l’uscita della Storia del folklore in Europa del siciliano Giuseppe Cocchiara con parole di ammirazione: «Il folklore è una materia di studio di ricchezza illimitata; e non si può far storia né storia della cultura se non se ne tien conto». Due anni dopo, si rivolgeva proprio a Cocchiara per avere consigli sulla raccolta di fiabe italiane che Einaudi aveva appena deciso di realizzare. Nella lettera del 15 gennaio 1954 – prima cioè che la cura del volume non gli venisse affidata – Calvino specificava che la casa editrice aveva stabilito di impostare il lavoro su una base filologica, ma «con criteri essenzialmente poetici». Dai Verbali del mercoledì (a cura di Tommaso Munari) sappiamo che, nella riunione del comitato editoriale Einaudi del 14 aprile 1954 (presenti Bobbio, Einaudi, Serini, Solmi e lo stesso Calvino), lo stesso Cocchiara aveva poi incoraggiato Calvino a occuparsene personalmente, raccomandandogli di fondare la sua scelta «sul materiale più vasto possibile, edito e inedito, senza preoccupazioni regionali, con l’unico criterio della varietà e della bellezza». Nell’ottica di una storia dell’antropologia italiana e delle dinamiche editoriali che hanno contribuito a plasmarla, può essere utile osservare come Cocchiara avesse suggerito per quel lavoro non un antropologo, ma un letterato, parteggiando anche lui per un approccio «poetico» rispetto a uno più propriamente scientifico-filologico. Anche lo storico Delio Cantimori, altra parte in causa nelle decisioni editoriali dell’Einaudi, si disse entusiasta all’idea che a occuparsi del volume fosse Italo Calvino: «Cosa magnifica – perché la fa Calvino. Saranno fiabe di Calvino, spero. Spero che Calvino scriverà lui davvero, non si farà venire in mente scrupolosità filologiche che lo rovinerebbero».

 

Una volta accettato l’incarico, Calvino si chiese se una simile raccolta potesse «nascere con tanto “ritardo” sulle mode letterarie e sull’entusiasmo scientifico». Pur seguendo la direzione “poetica” dettata dalla casa editrice, Calvino si trovò ugualmente a dover fare i conti con gli studi demologici esistenti e con la loro metodologia. Del resto, di quella metodologia aveva scritto con ammirazione solo poco tempo prima, discutendo il volume di Vladimir Propp Le radici storiche dei racconti di fate: «[Propp] non si lascia mai trascinare dalla fantasia, procede con calma impassibile, con pignoleria da matematico, a passi di piombo; non dà per acquisito nessun fatto se non l’ha documentato in tutti i modi e se non ha dimostrato che è impossibile il contrario» (Sono solo fantasia i racconti di fate?, «L’Unità», 6 luglio 1949).

 

Nell’introduzione a Fiabe italiane, che pare rivolta più agli studiosi di folklore che al pubblico generale, Calvino parlava della «natura ibrida del mio lavoro, che è “scientifico” a metà, o per tre quarti, e per l’ultimo quarto frutto d’arbitrio individuale». Pare giocare sull’ambiguità fra la conoscenza e il rispetto di quegli studi – a cui si rivolge con qualche imbarazzo e un leggero senso d’invasione di campo – e una sorta di spavalderia sbarazzina derivata dalla scelta poetica a scapito di quella filologica: «M’immergevo in questo mondo sottomarino disarmato d’ogni fiocina specialistica, sprovvisto d’occhiali dottrinari, neanche munito di quella bombola d’ossigeno che è l’entusiasmo – che oggi molto si respira – per ogni cosa spontanea e primitiva, per ogni rivelazione di quello che – con un’espressione gramsciana fin troppo fortunata – si chiama il mondo subalterno».

 

Calvino, dicevamo, si basò esclusivamente su fonti già raccolte da altri: «Non sono andato di persona a farmi raccontare le storie dalle vecchiette». Ma il lavoro di ricerca “a tavolino” lo entusiasmò: «Più mi sospingevo nella mia immersione, più il controllo distaccato con cui m’ero tuffato cadeva, e mi sentivo ammirato e felice del viaggio, e la smania catalogatoria – maniacale e solitaria – veniva scalzata dal desiderio di comunicare agli altri le visioni insospettabili che apparivano al mio sguardo». Ci strappa un sorriso quando poco più avanti ammette che a un certo punto del lavoro avrebbe «dato tutto Proust in cambio d’una nuova variante “ciuchino caca-zecchini”». Nell’introduzione menziona lo studioso siciliano Giuseppe Pitrè (1841-1916), del cui lavoro sottolineava il ruolo di emancipazione poetica dei raccontatori di favole: «Con il Pitrè il folklore prende coscienza della parte che nell’esistere stesso d’una tradizione di racconto ha la creazione poetica di chi narra». Era una constatazione che contribuiva a legittimare il suo stesso lavoro.

 

Facendo tesoro dell’insegnamento metodologico dell’etnologia di spogliare le fiabe delle loro decorazioni di gusto romantico per poterle analizzare meglio, Calvino individuò in quelle narrazioni, che considerava forme di autocoscienza di persone capaci d’inventarsi un destino, «una forza di realtà che interamente esplode in fantasia». È stato attraverso questo approccio morale e politico alla fiaba che Calvino poté trarre una conclusione che pare in parte contraddire quel giudizio di eccessiva diffusione alla nozione gramsciana “cultura subalterna”: «Ed è là per noi la sua morale vera: alla mancanza di libertà della tradizione popolare, a questa legge non scritta per cui al popolo è concesso solo di ripetere triti motivi, senza vera “creazione”, il narratore di fiabe sfugge con una sorta d’istintiva furberia: lui stesso crede forse di far solo delle variazioni su un tema; ma in realtà finisce per parlarci di quel che gli sta a cuore».

 

L’operazione di Calvino – che poté contare sui consigli di tre specialisti degli studi demologici come Giuseppe Cocchiara, Paolo Toschi, Giuseppe Vidossi – incontrò il favore anche di molti antropologi, cosa tutt’altro che scontata. Alberto Cirese, nella conferenza del 1988 Italo Calvino studioso di fiabistica, riconobbe a Calvino il merito di essersi assunto, da letterato, un compito che sarebbe spettato ai demologi. Pur mettendo in evidenza alcuni limiti e “trucchi”, l’approvazione di Cirese era esplicita: «Calvino ebbe precisa consapevolezza metodologica (e insomma “scientifica”, anche se usò le virgolette) non solo nel rigore con cui progettò e svolse il lavoro di recensione e spoglio delle fonti, ma anche nel non richiesto scrupolo storico-filologico con cui ne dette conto, esponendolo al giudizio. Né fu presuntuosa intrusione o vanagloria (che c’è di più remoto dal suo contenuto riserbo pensoso?). Fu misurato senso di responsabilità intellettuale verso un oggetto che è facile materia di saccheggio». Cirese riportò e discusse anche l’opinione del tedesco Walter Anderson, al tempo uno dei massimi studiosi mondiali di fiabe e novelle. Nel 1958 comparve sulla rivista tedesca «Fabula» una sua lunga recensione di Fiabe italiane, che considerava un contributo effettivo agli studi e in cui riscontrò più rigore e merito di quanto Calvino stesso non si riconoscesse. Un altro importante riconoscimento fu quello espresso da Alfonso Maria Di Nola, antropologo e storico delle religioni troppo spesso dimenticato: «Calvino portò con le Fiabe a termine un sottile impasto di documento attentamente trascritto, di rilettura e riscrittura, rispondenti a precise esigenze narrative, di dichiarata violazione dei palinsesti demologici usati che spesso furono modificati o contaminati da fusioni fra un testo e l’altro secondo il gusto dell’autore». Quello che Di Nola vide nell’operazione di Calvino – che, non dimentichiamolo, dovette scrivere in maniera accessibile anche ai lettori più giovani – era la capacità di concentrarsi sulle narrazioni fiabesche con un approccio libero da vincoli teorici che lo avvicina allo spirito e alla posizione morale di chi, fra il popolo, quelle fiabe le trasmetteva. Riconobbe dunque una relativamente [quasi?] involontaria capacità critica e insieme mimetica ed empatica, combinazione presente nei migliori etnografi: «Un narratore di una delle tante versioni della fiaba dell’orco mangia-uomini realizza e trasmette un’esperienza che ignora ogni categoria classificatoria e ogni orizzonte teorizzato». Forse quel narratore scevro da categorie classificatorie e orizzonti teorizzati non era solo chi quelle fiabe le raccontava, ma anche Calvino stesso.

 

Del resto, Calvino faceva leva su riferimenti (quali lo stesso Propp e Stith Thompson, autore de La fiaba nella tradizione popolare) condivisi con le correnti antropologiche e demologiche più influenti del tempo. In particolare, l’elemento della fiaba come espressione della paura – e della forza di resistenza e reazione – del crollo esistenziale del gruppo, della sua sopravvivenza ai pericoli e alle angosce a cui i membri di una comunità sono esposti. Era un approccio di tipo antropologico-politico che sarebbe affiorato anche in altri testi di Calvino. Un esempio è il romanzo incompiuto La decapitazione dei capi. Ne aveva pubblicati alcuni capitoli nel 1969 su «Il Caffè», per poi abbandonarlo. Si basava su un’ardita ipotesi derivata da alcuni studi di antropologia politica del tempo (come quello di Georges Bataille sul sacrificio del sovrano) e dagli avvenimenti politici italiani di quegli anni, che gli avevano suggerito una riflessione sul rapporto fra pericolo mortale e potere: ne La decapitazione dei capi era infatti immaginata l’uccisione rituale dell’intera classe dirigente a intervalli regolari.

 

Nella breve nota introduttiva all’edizione alle Fiabe italiane del 1970, Calvino constatava che, dopo l’edizione del 1956, gli studi sulle fiabe si erano radicalmente rinnovati, soprattutto perché erano stati scoperti lavori di Propp precedenti a Morfologia della fiaba, suo testo di riferimento all’epoca della preparazione del volume. Eppure, fra il 1956 e il 1970 non c’era stato solo Propp. Quelli fra le due introduzioni alle Fiabe italiane furono anni vivaci per gli studi folkloristici italiani. Nel 1956 si tenne a Cagliari il Sesto Congresso Nazionale delle Tradizioni popolari, dove sarebbero state riformulate le linee di quell’ambito scientifico, per esempio. Studiosi come Clara Gallini, Luigi Maria Lombardi Satriani, Giovan Battista Bronzini, Tullio Seppilli stavano dando vita a un campo di studi di grande vitalità e a un dibattito fecondo i cui frutti Calvino però non prese in considerazione. Non era certo suo dovere né suo programma fare un nuovo stato dell’arte degli studi sulla fiaba italiana, ma il richiamo al radicale rinnovamento degli studi sul folklore, fatto però ignorando quanto stava effettivamente accadendo in quel campo, lascia pensare che il ricorso di Calvino all’antropologia avvenisse come un armamentario da cui prendere gli strumenti di volta in volta necessari per il suo lavoro di scrittore. Ma non ci si può accontentare di una considerazione dall’aria così paradossale e corporativista, oltre che sbrigativa. Vediamone il perché attraverso una lettura di quello che per Calvino rappresentava l’antropologo francese Claude Lévi-Strauss.

 

 

Calvino bifronte

 

Di tutti gli antropologi della sua epoca, Calvino aveva una predilezione per Claude Lévi-Strauss. Leggeva i suoi libri e affidava i suoi appunti di lettura a La Repubblica con considerazioni che apparivano tinte di timore reverenziale. Nell’articolo Sotto gli occhi di Lévi-Strauss («La Repubblica», 15 luglio 1983), a proposito del libro Lo sguardo da lontano, Calvino dichiarò la sua ammirazione per un tratto fondamentale del temperamento dell’antropologo francese: «Il bisogno di far trovare a tutto un significato, perché il grande meccanismo astratto che governa la mente umana non può mai girare a vuoto, deve sempre caricarsi d’esperienza sensibile». Lévi-Strauss gli appariva dunque come una sorta di Palomar. Peraltro, proprio nella sua introduzione a Palomar (1983), Calvino scrisse: «Avevo anche messo a punto molte pagine d’esperienze di viaggio su civiltà antiche e lontane: le ho scartate quasi tutte perché il libro d’impressioni di viaggio dello scrittore italiano è un genere di cui tutti abbiamo sazietà. E poi quel tanto di nozioni culturali che è indispensabile fornire per ogni cosa che si descrive in testi del genere, stonava in un libro come questo impostato su un rapporto diretto con ciò che si vede». Sono parole che, oltre a configurare – più o meno ingannevolmente – una possibile definizione di “etnografo”, riportano alla memoria l’incipit di Tristi tropici di Lévi-Strauss (1955): «Odio i viaggi e gli esploratori, ed eccomi che mi accingo a raccontare le mie spedizioni».

 

Calvino seguì anche, da diligente uditore, il seminario che Lévi-Strauss tenne nel 1974-1975 al Collège de France sul tema dell’identità. Ne ricavò un saggio pubblicato nel 1977 su Civiltà delle macchine e intitolato appunto Identità. Pur viziato da una visione piuttosto essenzializzante del concetto d’identità, del quale invece l’antropologia stava allora mettendo in evidenza la dimensione di fluidità, Identità non sembra appartenere alle sue prove migliori, ma contiene spunti di rilievo, come questa definizione: «L’identità è dunque un fascio di linee divergenti che trovano nell’individuo il punto d’intersezione». Viene da chiedersi per assurdo se, qualora il seminario sull’identità l’avesse seguito prima, avrebbe scritto lo stesso Il visconte dimezzato.

 

Nell’articolo L’etnologo bifronte («La Repubblica», 6 agosto 1980), Calvino riconosceva a Lévi-Strauss la capacità di camminare in equilibrio fra la pur detestata tendenza a produrre schematizzazioni riduttive e la complessità ed elusività di ogni «pensiero selvaggio». Risalta la sua riflessione a proposito del modo in cui l’antropologo dei tropici tristi si relazionava con la propria biografia: «La nostalgia di altri impieghi dell’energia intellettuale, il rimpianto di vocazioni artistiche o letterarie lasciate cadere sono un’altra costante del Lévi-Strauss autobiografico: servono forse inconsapevolmente a creare uno sfondo d’indeterminatezza esistenziale in cui ogni rigidità metodologica risulti sfumata». Sorge allora il sospetto che Calvino fosse attratto da questo dato biografico perché il suo caso era l’esatto contrario: il suo interesse per altri campi del sapere umano sembra a volte esprimere il suo rimpianto e, all’opposto di Lévi-Strauss, servire a creare uno sfondo di supposta determinatezza su cui si faccia meno evidente e problematica ogni indeterminatezza metodologica. La ricerca antropologica di Lévi-Strauss doveva allora apparire a Calvino come un tunnel tortuoso ma affascinante al termine del quale si trovava uno specchio: uno specchio che rifletteva sì l’immagine dell’umanità, ma anche e soprattutto la sua, invertendola con la paradossale fedeltà di cui solo gli specchi sono capaci.

 

 

Fra Levi e Lévi-Strauss

 

La pubblicazione presso Einaudi di libri di antropologia fu affidata fino al 1957 alla «Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici», la cosiddetta “Collana viola”. Ma a quella collana Calvino non si affezionò mai troppo. O, piuttosto, Calvino non interferì mai con il redattore che più di tutti l’aveva voluta, Cesare Pavese, che se ne occupò insieme a assieme a Ernesto de Martino. Calvino era un attento lettore di de Martino: sappiamo per esempio che, durante una degenza in ospedale nel 1962, lesse con attenzione l’antologia da lui curata Civiltà e magia. Sempre in Leggerezza: «Non mi pare una forzatura connettere questa funzione sciamanica e stregonesca documentata dall’etnologia e dal folklore con l’immaginario letterario», affermerà in effetti nella lezione americana sopracitata. Ma che Calvino non intendesse mettere troppo il naso nella gestione della “Collana viola” non era solo in ragione della divisione dei compiti e delle responsabilità all’interno della casa editrice. C’entrava anche l’importanza che Calvino riconosceva all’antropologia nel lavoro di poeta e romanziere di Pavese: «Collegare l’etnologia e la mitologia greco-romana alla sua biografia esistenziale e alla sua costruzione letteraria era stato il costante programma di Pavese» (Pavese e i sacrifici umani, 1965).

 

Italo Calvino rimarrà in ogni caso un assiduo lettore e recensore di studi antropologici fino alla fine della sua vita. Per esempio, su Cannibali e re di Marvin Harris (in «La Repubblica», 8 gennaio 1980) dirà: «Per poco che uno abbia fatto qualche lettura d’etnologia, ha imparato che del cannibalismo si può parlare solo col rispetto dovuto a riti religiosi d’altre culture, che non vanno giudicati col nostro limitato metro eurocentrico». Due anni dopo, Calvino avrebbe pubblicato il racconto Sotto il sole giaguaro, dove il cannibalismo era uno dei temi dominanti.

 

Nel luglio del 1981, sempre sulla «Repubblica», Calvino esaminò con competenza I riti di passaggio di Arnold Van Gennep, scritto a inizio secolo e all’epoca appena ripubblicato in Italia. Ma segni della sua attenzione all’antropologia si possono rintracciare anche in altre aree del suo lavoro. Nel 1968, scrivendo il risvolto di Venerdì o il limbo del Pacifico di Michel Tournier, Calvino rivelava che ciò che lo aveva attratto di quel romanzo era proprio la componente etnologica lì espressa in una sorta di forma sperimentale: «L’isola è per lui l’osservatorio privilegiato che consente di mettere a fuoco (…) una problematica che tocca tutti i campi delle scienze umane: il problema della conoscenza e del tempo; il linguaggio; l’assenza degli “altri” come crisi del tradizionale sistema di misura della realtà; cultura e natura; e mitologie elementari».

 

 

Ultimo viene l’antropologo

 

Nel 1984, George R. Saunders passò in rassegna, nella «Annual Review of Anthropology», la storia e lo stato dell’antropologia culturale italiana. Lodava la densa e ascoltata presenza degli antropologi nella vita intellettuale e politica italiana: «Anthropology has achieved rather unique significance in Italian intellectual life». Oggi non è così (ammesso e concesso che prima lo fosse). Pur producendo continuamente lavori scientifici di primo ordine, l’antropologia italiana appare, dati alla mano, una delle discipline che più ha subito il maltrattamento riservato negli ultimi anni al mondo scientifico e universitario italiano. Quando Saunders scrisse quelle parole, Calvino era ancora vivo (Saunders lo cita, peraltro) e godeva di grande influenza intellettuale ed editoriale. Viene da chiedersi: avrebbe potuto fare di più per l’antropologia? La domanda appare ingenua e non del tutto pertinente, tirando in ballo questioni che vanno ben al di là della portata e dei fini di questo contributo. Ma rimane una tentazione di perplessità rispetto a un ricorso, da parte di Calvino, all’antropologia italiana che appare talvolta basato su un’idea di bacino di studi a loro modo anomali, interessanti ma accessori, eclettici ma in senso d’indefiniti e difficilmente classificabili, trasversali ma dunque spesso sovrapposti ad altre discipline più tradizionali e intoccabili. Sacrificabili, dunque. E l’idea di “sacrificabilità” dell’antropologia dal paesaggio scientifico pare aver permeato fin troppo le mentalità e le politiche italiane. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti coloro che abbiano a cuore le sorti dell’antropologia italiana e della vitale preziosità della conoscenza e capacità di azione a cui sa darci accesso. Quello spirito nell’approccio a una disciplina extra-letteraria appare insomma come una delle dimensioni della vita intellettuale di Italo Calvino che, viste oggi, ci mancano meno e meno sono avvitate alle forme dell’attuale dibattito sia letterario che scientifico.

 

Questo non significa che, mentre cercavamo motivi per innamorarci di nuovo di Calvino, ne abbiamo invece trovati altri per nutrire quella certa insofferenza di cui dicevamo all’inizio. Il rapporto fra Calvino e l’antropologia non merita di essere dato in pasto a considerazioni di carattere politico-scientifico rispetto a doveri che in fondo non gli spettavano.

 

Per lodare uno scrittore si dice a volte che era un ottimo etnografo, o antropologo: succede per esempio con Primo Levi, che peraltro fu corrispondente e traduttore di Lévi-Strauss, e succede anche con il Calvino scrittore che s’ispira agli studi degli antropologi più importanti della sua epoca. Ma a non tener sempre ben presente che l’accostamento fra etnografi e scrittori è prima di tutto una metafora, utile per spiegare l’approccio descrittivo di questi autori, si rischia di dare un’interpretazione fuorviante sia della funzione della letteratura che di quella dell’etnografia e antropologia. Diverse sono le premesse, i metodi, le questioni epistemologiche, le forme di conoscenza dell’umanità e le finalità. Non si tratta certo di rivendicare una poco utile divisione disciplinare, né di concludere questo contributo rimettendo una distanza di sicurezza fra Calvino e l’antropologia. Si tratta piuttosto di far attenzione a non dimenticare o indebolire lo specifico potenziale conoscitivo di antropologia e letteratura, un potenziale unico per addentrarsi in quel «terreno esistenziale» che Italo Calvino ci ha insegnato a esplorare anche nei suoi cunicoli più impervi e intricati. L’antropologia era per lui uno strumento irrinunciabile per illuminare quei cunicoli e non perdersi. Del resto, di perderci non ce lo possiamo permettere, noi abitanti di questo piccolo pianeta da cosmicomica.

 

 

 

Lorenzo Alunni è nato a Città di Castello nel 1983. È dottore di ricerca in antropologia. Sta ultimando un libro di antropologia medica sui campi rom di Roma. È traduttore, fa parte della redazione de Il lavoro culturale e ha collaborato con Internazionale, Minima&moralia, Jazzit, Il Mucchio. È uno degli organizzatori di CaLibro – Festival di letture a Città di Castello.

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