Senza scuola
Roberto ha ventidue anni , ha smesso di andare a scuola quando ne aveva quindici, dopo due bocciature consecutive al primo anno di un Istituto professionale per meccanici. Da ragazzino odiava la scuola e non poteva sopportare l’idea di starsene fermo dietro a un banco anche per sette-otto ore di seguito. Non ha nessun ricordo particolare di quegli anni, nessun insegnante gli è rimasto nella memoria, così come nessun argomento trattato durante le lezioni.
Gli sembra soltanto di aver vissuto in una galera anonima, confinato in un angolo nebbioso, dove l’importante era resistere senza cedere alla rabbia. In questo gli erano molti utili i compagni, di cui conserva qualche nome, ma soprattutto il fancazzismo sistematico. “Nessuno aveva i libri, i quaderni, le penne. Aspettavamo gli insegnanti per ridergli in faccia. Di quelle due classi che ho frequentato”, ammette, “su quaranta ragazzi forse sei o sette sono andati avanti. Ma non potrei dirlo con sicurezza, non ho mai più incontrato nessuno di loro.” Roberto ora è tornato a scuola, o meglio, c’è arrivato per la prima volta. Frequenta i corsi serali dove insegno da anni, è un ragazzo serissimo e decisamente intelligente.
Maria di anni ne ha ventiquattro, ma è fisicamente così esile da sembrare una sedicenne. Lei a scuola c’è stata di più. Tre anni, addirittura, di liceo scientifico. I primi due superati senza particolari problemi, il terzo vissuto come un dramma quotidiano. Mi dice che era colpa dei professori.
L’avevano presa di mira, la incalzavano con un ritmo forsennato di verifiche e interrogazioni sin dalla prima settimana di scuola. Lei aveva inizialmente cercato di reagire, studiando compulsivamente, evitando di uscire di casa nei fine settimana. Non voleva cedere, anche perché non voleva deludere i genitori che le avevano sempre riconosciuto capacità forse più spiccate di quelle effettive. Ma quel modo di stare a scuola e quel clima fatto di competizione e di ansia hanno finito per distruggerla. A dicembre ha cominciato a mollare. Alcune materie – matematica, latino – ha smesso di seguirle. “Prendevo due o tre in ogni verifica, ma non sentivo più nulla. Sapevo che dipendeva da me, che era colpa mia, ma per assurdo ero più serena di prima.” A marzo Maria non è più andata a scuola. “Non mi importava più niente di niente. Non volevo vedere nessuno. Me ne stavo in camera ad ascoltare musica tutto il giorno. E’ andata avanti così per mesi, poi mi sono messa a cercare un lavoro.” Maria quest’anno affronterà l’esame di stato. Le è stato necessario parecchio tempo per convincersi di non essere un’idiota, se lo era detto troppe volte in passato e forse se lo era anche sentito dire. Quando l’ho conosciuta, non ho potuto fare a meno di notare che, quando leggeva, faceva fatica a passare da una frase all’altra temendo di perdere il filo del ragionamento. Al momento del primo tema, lei che ora è addirittura fluviale, si era limitata a due colonnine di foglio protocollo. Aveva terrore di sbagliare e di essere di nuovo “marchiata a vita”.
Due casi tra tanti, quelli di Roberto e Maria. Figli di famiglie qualunque, abitanti di paesi dell’operosa Brianza. Due tra i tanti ragazzi che smettono di andare a scuola. Nell’ultimo anno, dicono i rilevamenti, sono stati settecentomila. Meno che in passato, ma un’enormità rispetto a quanto accade in altri paesi europei.
Dalla mia prospettiva “sotterranea” di insegnante di classi serali, ho cercato di capire cosa accade nella testa di un ragazzo che smette. Sicuramente c’entra l’incapacità della scuola di far breccia sull’orizzonte mentale di un adolescente, e i motivi sono tanti, dalle strategie comunicative inadeguate al contesto socio- culturale della famiglia. Molti sono studenti di origine straniera, molti sono studenti refrattari a tutto, attratti più dalla strada che dai libri.
Ma uno mi sembra il motivo centrale. Ed è il più doloroso perché tira in ballo una questione sempre delicata, che ha a che fare con l’atteggiamento degli insegnanti. Forse alcuni di loro – soffocati dalla pressione della routine quotidiana – non riflettono abbastanza sul senso di ciò che fanno e commettono il peggiore degli errori possibili, quello di non vedere più gli studenti che hanno di fronte. “Mi limito a fare lezione, interrogare, valutare”, si sente dire. “L’essenziale è che stiano tranquilli, il resto non conta”, afferma qualcun altro. Chi fa e dice così spesso trascina con sé una lunga scia di vittime. La sua pretesa di “oggettività” si traduce in un asettico calcolo aritmetico, che prescinde da tutto. La sua idea di sapere è statica, la lezione è un trasferimento di dati dal suo archivio a quello volatile dello studente. Il suo atteggiamento è ammalato di “piedistallismo”: “Io sono l’insegnante, io so, io ho ragione (sempre). Tu sei lo studente, tu non sai, tu non hai ragione (mai)”.
Ora tutto questo può funzionare con chi regge il gioco (lo sanno bene certi liceali che, serissimi, fingono di seguire le lezioni per intere mattinate), ma determina sfracelli con chi non si adegua. E chi non si adegua non necessariamente non ha i mezzi per capire. Il confronto con tanti studenti che solo dopo anni sentono la necessità di riprovare e che hanno dovuto innanzitutto essere “ricostruiti” psicologicamente mi ha fatto capire che insegnare significa mettersi in gioco, ascoltare, e, soprattutto, considerare lo studente una persona.
Mi auguro di aver esagerato e che la mia sia solo una sensazione parziale, ingiusta, sbilenca. Mi auguro anche di avere in mente una generazione di insegnanti al tramonto. Quanto mi appare meno incerto è che la dispersione non si combatte solo con le Lim (le lavagne multimediali). Fondamentale è ritrovare la capacità di relazione, di dialogo, di condivisione. L’insegnante sia una guida.