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Centenario / Sogno
Il testimone, il chimico, lo scrittore, il narratore fantastico, l'etologo, l'antropologo, l'alpinista, il linguista, l'enigmista, e altro ancora. Primo Levi è un autore poliedrico la cui conoscenza è una scoperta continua. Nel centenario della sua nascita (31 luglio 1919) abbiamo pensato di costruire un Dizionario Levi con l'apporto dei nostri collaboratori per approfondire in una serie di brevi voci molti degli aspetti di questo fondamentale autore la cui opera è ancora da scoprire.
Primo Levi mostra che tutti i sogni sono un sogno unico, un'esperienza abnorme, che dura tutta la vita e la raddoppia. Il sogno è duplice, caotico e narrativo. Sigmund Freud distingue il lavoro onirico in due parti: gli elementi del sogno e il suo significato (Deutung). La verità sta nel sogno, ma la sua rivelazione è impossibile, Friedrich Nietzsche usa uno dei termini greci che stanno per “verità”: aletheia (disvelamento), termine che indica una verità evanescente, fessurata, abitata dal nulla. Freud parla di sovradeterminazione: il sogno appare magro e insignificante, eppure ogni elemento del sogno corrisponde a una molteplicità di pensieri del soggetto e ogni pensiero del soggetto corrisponde a più elementi del sogno: espansione indefinita, degenerazione. Il sogno funziona come il sistema nervoso, così come lo descrive il biologo Gerald Edelman in Darwinismo neurale: ogni struttura svolge più funzioni, ogni funzione è svolta da più strutture.
Se l'opera di James Joyce corrisponde al dionisiaco, l'opera di Primo Levi all'apollineo.
Joyce ha scritto, con una scrittura impossibile, la vita onirica notturna di una famiglia, gli Earwicker. In quest'opera, Finnegans Wake, si accenna più volte a una caduta: delirio plurilinguistico, privo di senso, rapporto incestuoso a distanza, nel giardino dell'Eden, lavoro interpretativo di addetti ai lavori per trecento anni. Massima intensità inestricabile, densità assoluta, catastrofe.
Il sogno di Primo Levi è l'opposto. È chiaro e diretto, come un'iscrizione marmorea. Quando lo racconta, nelle versioni di Se questo è un uomo e La tregua, appare come la vita in un mondo parallelo, un invisibile che diventa visibile, un luogo di quiete che si torce nel suo opposto, ma non in virtù di una catastrofe, semmai di una quiete che si trasforma in indifferenza. L'indifferenza è angosciosa, soffoca il racconto.
L'opera di Primo Levi accade dopo la catastrofe, è rarefatta; come le immagini dei bambini soli, abbandonati per le strade di Berlino nell'immediato dopoguerra. È già stato tutto raso al suolo, regressione senza ripartenza. Auschwitz, di fronte all'indifferenza, rimane l'universo concentrazionario in cui ognuno resta per sempre catturato – chi per averlo attraversato, chi per averlo ignorato – e il sogno è precisamente questa evidenza.
Il sogno di Se questo è un uomo si ripete in La tregua. Il primo è quasi un momento di passaggio tra la veglia e il sonno: “al gradino superiore della scala tra la coscienza e l'incoscienza”. Inizia con: “Qui c'è mia sorella”, come in un'allucinazione. Sua sorella e altra gente che ascolta i suoi racconti, e Levi sta raccontando ciò che gli sta accadendo. Gode, è come se fosse ritornato a casa, ma tutto cade nell'indifferenza. Quello di La tregua è un sogno dentro un sogno, Freud, nel capitolo sul lavoro onirico dell'Interpretazione dei sogni, menziona questa esperienza come una variante peculiare del sogno: nel sogno, sogno di sognare, e quando mi sveglio dal sogno – interno al sogno – sono nel sogno esterno. Due forme differenti, dormiveglia e sogno nel sogno, un'unica esperienza, o meglio: “vario nei particolari, unico nella sostanza”. Qui Primo Levi introduce una serie; le sue conoscenze, Levi è chimico, lo aiutano. La serie non è un insieme di elementi omogenei, è un sistema di elementi eterogenei che hanno tra loro un legame. Posso essere in famiglia, con mia sorella, con amici, al lavoro, in una campagna verde, in una serie di posti differenti, solo o in compagnia. Ciò che accomuna questi luoghi è la serenità, la placidità priva di tensione e pena. In quel momento accade la reazione.
Appare un avversativo: “ma”, “eppure”. Allora emerge, repentinamente, che la quiete nasconde uno stato di minaccia incombente, esteriore nel primo caso, interiore, nel secondo. Ancora non si sa che cosa accadrà, si tratta di un sentimento, una variazione neurofisiologica. Poi, questa variazione, come in una composizione musicale, produce una catastrofe interiore: “non posso non accorgermi” che “tutto cade e si disfa”. Come sulla scena di un teatro che cade a pezzi: svanisce. Un caos presente qui e ora, Auschwitz, un caos interiore, indelebile, il sogno esterno di essere ancora là, ad Auschwitz.
Non possiamo dire, come nel caso Joyce, “caosmos”, semmai dovremmo dire il contrario “cosmaos”. Si entra, come nella Commedia dantesca, in un luogo privo di speranze e la meraviglia terrificante di questa esperienza è data dal fatto di averlo sempre saputo. Lo sapevo anche prima, sembra scrivere l'autore, solo che questo sapere allignava nascosto, sepolto dai miei sentimenti, silente fino a quel: ”eppure”.
Il dormiveglia tra i binari del terno e i piedi pesanti del vicino di branda, così come il sogno nel sogno scompaiono, ci si risveglia all'inferno, nel sogno esterno, che coinvolge l'intera vita: il comando del risveglio ad Auschwitz, l'evidenza di una realtà indelebile.
Nell'edizione di Se questo è un uomo del giugno 1958, sul risvolto di copertina – attribuito da Marco Belpoliti a Italo Calvino – sta scritto: “C'era un sogno, racconta Primo Levi, che tornava spesso ad angustiare le notti dei prigionieri dei campi di annientamento, il sogno di esser tornati a casa e di cercar di raccontare ai famigliari e agli amici le sofferenze passate, ed accorgersi con un senso di pena desolata ch'essi non capiscono, non riescono a rendersi conto.” Una serie, sognata dagli internati dell'universo nazista, cui Primo Levi ha dato voce, attraverso la sua esperienza personale, letteraria, etica.