Speciale
Speciale ’77. Gorilla, draghi e mongolfiere. Conversazione con Giuliano Scabia
Bologna e Trieste, l’aula e la piazza: il Settantasette raccontato da Giuliano Scabia in un’intervista/conversazione con Stefano Chiodi e Andrea Cortellessa.
Stefano Chiodi: Com’è cominciato il tuo lavoro all’università di Bologna?
Giuliano Scabia: Nel ’72 facevo teatro vagante, un’azione chiamata Forse un drago nascerà. Nei paesini dell’Abruzzo fondavo città che duravano tre giorni, il terzo giorno la città si trasformava in un drago. In ogni posto portavo un teatrino che poi restava lì. Un giorno ero sul Monte Velino, in un paesino che si chiama Massa d’Albe, facevo il cavaliere e combattevo col drago quando arriva un messo comunale e dice: C’è uno che vorrebbe parlare con lei al telefono, da Bologna, un certo Squarzina. Ho detto va bene, finisco e vengo. Era Squarzina che mi invitava al DAMS. Ti piacerebbe venire a Bologna a insegnare?, mi fa; e io: non è la strada che ho scelto, studiare mi piace ma adesso sto facendo il drago. Lui insiste e gli dico: lunedì vengo a Bologna col furgone.
Andrea Cortellessa: In quante persone giravate?
GS: In tre. In ogni posto ci procuravamo i materiali per costruire la città, i tubi, era una cosa bellissima.
AC: Città evanescenti.
GS: No, no, città dove si poteva abitare, col cartone facevamo delle stanzette di un metro per un metro con una porticina, poi i ragazzi ci dipingevano dentro.
AC: È lo stesso anno delle Città invisibili.
GS: Ah, sì… non conoscevo ancora Calvino, mi pare... comunque il lunedì arriviamo a Bologna e in Strada Maggiore tiriamo fuori un gigante… gli studenti vengono a vedere, poi arriva Benedetto Marzullo, il grecista, un altro dei fondatori del DAMS, e anche lui mi chiede: ti piacerebbe venire qui? io rispondo: faccio queste cose più che altro, non è che verrei proprio a fare il professore. No, dice lui, se vieni qui fai le stesse cose. Ci ho pensato, ho visto che stavano arrivando Clementi, Donatoni, Umberto Eco, persone con cui si poteva giocare, Giuliani, Nanni Loy. Così mi sono detto, proviamo. Il primo anno: teatro giornale di strada. Il corso era complesso, si partiva da Eschilo, facevo il professore davvero, con le bibliografie…
AC: Era un’epoca in cui si poteva studiare in maniera non seriosa. Si poteva studiare davvero.
GS: Spesso facevo fare lezione agli studenti. All’accademia c’era Barberio Corsetti, poi Roberto Faenza che faceva i video per la regione… Giorgio era un ragazzino, mi ricordo di avergli fatto fare una corsa, per strada, c’era un canovaccino che avevamo inventato insieme… a un certo punto lui fa una cosa che gli altri non avevano fatto, di colpo si ferma, si volta… erano improvvisazioni fatte partendo dal giornale, la mattina ritagliare le notizie e nel giro di due tre ore montare un’azione da fare per strada, informando la gente sulla situazione del giorno. Il lavoro sulla strada veniva in un secondo momento; prima il lavoro in aula con i testi, poi si esce. Ricordo una delle prime apparizioni di Bustric, una delle azioni era il giro d’Italia, cioè il giro della Villa Pallavicino, lui su una biciclettina travestito da Fanfani… insomma, la città è diventata il corpo di tutto quello che andavo facendo. L’aula, la città, l’Appennino, tutti luoghi da attraversare. La ricerca d’ambiente, uno dei miti del Movimento. Mi piaceva molto dialogare con Mario Lodi, Fiorenzo Alfieri, tutta gente in cammino. La scuola era un viaggio: attraverso i libri ma anche attraverso l’educazione reciproca con quello che stava “fuori”.
AC: Quando sei stato contattato dall’università eri “fuori”, no?
GS: Completamente.
AC: E quando era cominciata questa tua attenzione?
GS: Un po’ l’ho sempre avuta; poi c’è stato All’improvviso & Zip dove in una nota dico: la piazza, teatro che non abbia le pareti… Nel ’65 faccio il manifesto con Luzzati e Quartucci, nel ’67 c’è Ivrea. L’idea del luogo dripping, dove si entra si parla e si va via. Solo che il teatro, come diceva Majakovskij, è anche un po’ un «luogo lente»: dove vedi tutto ingrandito, metti a fuoco.
AC: Cos’hai pensato, nel ’69, del Furioso di Ronconi?
GS: Bello, stupendo, ci sono stato dentro con amore. L’ho visto a Bologna, erano tutti ragazzi, Mariangela e gli altri, entusiasmante. Luca ha una via completamente diversa dalla mia, ma io lo amo proprio.
AC: Quello fu il momento in cui il “fuori” divenne di massa…
GS: … la piazza era colma, i carri andavano tra la gente, le persone erano insieme; questa polifonia del presente… straordinario…
AC: … dico che al di là del linguaggio, al quale eri arrivato per tempo, quello che a un certo punto cambia è che tutto si sposta dall’avanguardia all’istituzione teatrale. Non a caso ti chiama uno come Squarzina. Insomma arriva il momento in cui queste cose si possono fare: non sono più utopia ma linguaggio che si può usare.
SC: Sono gli anni in cui c’è la famosa mostra ad Amalfi dell’Arte povera. Una parte del lavoro degli artisti si svolgeva in piazza, anche loro erano interessati a rompere i confini del cubo bianco della galleria. Pistoletto era in relazione col Living theatre, conosceva gli happening. C’era rapporto fra voi?
GS: Nel ’69 ero a Torino e lì c’era Pistoletto, le cose erano nell’aria.
SC: Nono, Quartucci, il DAMS. Tutte esperienze che proseguono l’eredità delle avanguardie. Negli anni Settanta però l’impressione generale è quella di essere su un versante ormai postumo.
GS: Era come se stessimo ricominciando tutto daccapo; quelle aperture linguistiche, i paradisi della parole, erano come i frutti nei giardini delle Esperidi… i testi dei cubofuturisti, il modo in cui Majakovskij parlava agli attori, le camminate di Chlebnikov… ci sembrava che fosse stato interrotto un arco di ponte verso spazi da inventare. Nel ’68 apro la stagione del Piccolo Teatro con L’isola purpurea di Bulgakov… una commedia sul teatro d’arte, sulla censura… era l’anno che Strehler era andato via, per questo c’era spazio… otto giovani attori con le maschere entrano in teatro e riscrivono, ricominciano daccapo la storia… la metafora era: riscrivere la rivoluzione, riscrivere il socialismo, perché tutto questo è finito, non c’è più. Sapessi gli attacchi che ho avuto!
AC: Beh, dopo Strehler, era un po’ diverso…
GS: Ma non era contro Strehler! Era sull’Est, dove ero stato, e avevo visto…
AC: … dopo Praga, vuoi dire.
GS: Certo, da Praga avevamo chiamato un gruppo jazz, bravissimi. Io facevo lanciare agli attori dei volantini con l’ultima lettera di Lenin al Congresso: questo non è più lo stato che noi volevamo, qui siamo in pochissimi contro centinaia di migliaia di funzionari che hanno rimesso in piedi la vecchia macchina, questo non siamo noi. Mi massacrarono. Ma è la stessa frase che tirerà fuori Gorbacëv con la Perestrojka… poi avevo aggiunto frasi mie: «Il nuovo teatro non verrà fatto dall’imprenditore commerciante né da una società per azioni, né dai vecchi padroni ma dalla Comune stessa. Deve essere una festa ininterrotta, l’invenzione della gioia»...
AC: … la festa…
GS: … ma lo spettacolo si conclude tragicamente, dicendo appunto che è tutto finito. In effetti non mi hanno fatto più mettere piede, al Piccolo!
AC: Quella della festa è comunque la metafora chiave dell’avanguardia: l’idea che la letteratura, il teatro, l’arte escano “fuori”, che il loro specifico sia rompere i confini, mescolare l’arte all’esistenza. Tu cominci in questa chiave. Però per tutti gli anni Sessanta abbattere la quarta parete resta qualcosa di molto intellettuale. Prima dicevi della differenza fra te e Ronconi; e infatti, a parte l’esperienza unica dell’Orlando Furioso, tutte le “aperture” di Ronconi hanno sempre mantenuto un tono intellettuale, una visione razionale. È un’oltranza della ragione, la sua. Invece un’altra corrente, che magari può avere esiti simili, parte da un presupposto opposto: da un elemento più dionisiaco, più irrazionale. E dal Sessantotto in poi, tutto questo diventa metafora della rivoluzione possibile. Quello che vogliamo capire è come tu, a Bologna, abbia concepito uno spazio teoricamente avanzato, sì, ma anche straordinariamente immediato. Quando si leggono le cronache di quelle esperienze, delle azioni, si ha l’impressione che tutto il discorso teorico dell’avanguardia fosse stato saltato, che i ragazzi vivessero tutto su un piano immediato: quello che Celati definiva lo spazio dell’emotività, del sentimento. A un certo punto si passa da una visione molto cerebrale a un territorio in ebollizione.
GS: Secondo me qualcosa del genere è cominciato a Venezia, nel ’65, col Frankestein censurato del Living Theatre. C’era un clima elettrico… alla prima c’era Ungaretti… Julian Beck che viene ad abbracciarmi… io ho amato molto Stockhausen, però in quel momento sentivo che bisognava cambiare voce… anche la Nuova musica, molto intellettualistica, molto di testa… pensavo invece che bisognava andare dagli operai… mi dicevo, forse andando coi matti…
AC: Ecco, la prima cosa a Trieste quando l’hai fatta?
GS: Abbiamo cominciato nel ’72. Basaglia ci invitò. Nel ’71, in riva al Po, facevo un’esperienza con una classe di scuola media: i burattini, i giornali murali, il quotidiano, le drammatizzazioni, la storia raccontata in piazza. A un certo punto dico: Sentite, ma se tutta questa roba la portassimo anche alle vostre famiglie? Ero a Sissa, un paesino vicino a Parma. Un giorno l’assessore alla Sanità, Tommasini (un grande amico dei matti, un uomo del popolo, è morto l’anno scorso), ci ha chiesto se andavamo nella fattoria protetta fuori del paese, dove c’erano cinque matti con gli infermieri che facevano un esperimento di apertura. Basaglia dirigeva Colorno, in quel momento, ma io non lo conoscevo ancora. Arrivo in questo cortile in bicicletta, e lì c’erano ad ascoltare Tommasini e uno che scopro essere Basaglia, che mi invita a fare le stesse cose a Colorno. Come dirà poi Marzullo, a Bologna: Venga qui a fare le stesse cose. Sul momento, così… non c’ero mai stato, dentro un manicomio… le uniche cose che sapevo sulla follia erano Pirandello e Shakespeare.
AC: Per un certo periodo Bologna e Trieste si sovrappongono. Stessi anni. C’era continuità tra queste due esperienze?
GS: Sì, uguale.
AC: Mi colpisce la frase che torna: vieni qua e fai la stessa cosa. In realtà quello che cambia è il contesto; quando muta il contesto l’azione cambia di segno.
GS: Ovvio. Io Il cavallo non l’ho mai fatto a Trieste, però ho fatto Il gorilla. Me l’avevano chiesto Nico Orengo ed Ernesto Ferrero dell’Einaudi, per la Grammatica della fantasia di Gianni Rodari. Così ho fatto questo gigante per la fiera del libro per ragazzi, a Bologna.
SC: Immagino che per molti studenti lavorare con te fosse un’esperienza scioccante, come entrare in una dimensione neanche sospettata. Una specie di Bildung politico esistenziale, immagino. Gli studenti erano gli stessi che andavano alle assemblee?
GS: Sì.
SC: E quando ti trovavi nei cortei, che cosa succedeva?
GS: Ma io nei cortei non sono andato! Sono stato molto attento a distinguere le due dimensioni. Su certe cose non ero d’accordo; non sono mai stato contestato ma non sono nemmeno mai diventato uno studente.
AC: Il tuo corso è continuato nel ’77?
GS: Durante l’occupazione no.
AC: Celati continuò.
GS: Facevamo delle riunioni, non il corso.
SC: E le mongolfiere?
GS: È la chiusa del ’77, le ho fatte perché volevo in qualche modo riconciliare gli studenti con la città. Perché la mongolfiera parte, vola, e dove va? Bisogna correre, seguirla, cercare di recuperarla: l’azione è questa. Cosa dirà la gente? Il bolognese era stato scioccato dall’occupazione di Piazza Verdi, dal saccheggio, dalle vetrine rotte. Ha sempre amato i suoi studenti, Bologna, però in quel momento… ne abbiamo tirato su trenta, quaranta di mongolfiere…
AC: … si recuperavano sempre?
GS: A volte restavano sui tetti, qualcuna partendo bruciava, anche questa era una sfida.
AC: Ma ti tenevi un passo “fuori”...
GS: Dice Dioniso: balla, balla, basta che non perdi la testa. Ho contestato quelli che perdevano il controllo.
AC: Il punto è questo, che limite c’è tra virtualità e… ho l’impressione che si sia partiti da un’idea tutta intellettuale della festa…
GS: … sbagliata, sbagliata…
AC: …che poi improvvisamente è divenuta sin troppo reale.
GS: Se studi la liturgia di qualunque festa, sin da quelle arcaiche, vedi che ci vogliono sempre degli ingredienti. Devi fare certe cose, per esempio preparare i cibi. Creare uno schema di azione, creare oggetti attraverso cui comunicare, pre-testi. Insegna Euripide che se non fai delle liturgie, delle teletai, non puoi costruire una festa, che è un atto di trasferimento. E questo è pericoloso.
AC: Vuoi dire insomma che una festa è una cerimonia?
GS: Una cerimonia che deve avere una sua freschezza, se è solo ripetizione è una cosa morta. Ma anche un rito può essere una festa, e una festa deve avere una sua drammaturgia; sennò non ti trovi con gli altri, non sai cosa dire, non sai cosa fare.
AC: Avere una drammaturgia significa avere una fine?
GS: Di questo mi sono accorto i primi tempi: magari partivo con una cosa, poi non riuscivo più a controllarla. Invece se preordini la fine… Nel Marco Cavallo per esempio: «Dobbiamo sapere bene il giorno e l’ora in cui finiamo, sennò lasciamo uno strascico di dolore, di nostalgia. Tutti devono sapere fin dall’inizio che noi ce ne andiamo, che facciamo questo passaggio e poi altri prendono in mano la fiaccola e fanno quello che vogliono».
SC: Fino alla catarsi, insomma.
GS: Uno scioglimento, diciamo; catarsi è qualcosa di più.
AC: Quindi il problema del Settantasette è che a un certo punto ha preso la mano. Non ha più avuto confini.
SC: C’era stato un momento, una sorta di acme di forze politiche e culturali, in cui creatività, politica, stare insieme, collettivizzazione dei piaceri della festa, tutti questi elementi erano stranamente composti. Subito dopo si sono separati: nel senso che poi abbiamo avuto la festa come tale, gli individui come tali, lo studio come tale. E quei nodi si sono sciolti.
GS: Si sono sciolti anche perché c’erano premesse pericolose. Per esempio se vedi il video di Grifi sul parco Lambro… quando arrivi e non c’è acqua, sei organizzato male, cominci ad avere sete, cammini alla ricerca del cibo… non hai fatto le azioni giuste. Una festa ha bisogno di un’organizzazione impressionante per riuscire, specie se di massa. Se non riesce si rovescia contro se stessa, è una catastrofe.
AC: Per fermarci all’ambito artistico, la differenza tra la seconda avanguardia, quella di massa degli anni Settanta di cui parlò Calvesi, e quella storica è forse proprio che quest’ultima prevedeva il momento della preparazione. L’infrazione si può produrre solo quando sia stata sancita una regola. Invece il ’77 non solo non aveva regole ma disconosceva l’istituto stesso della regola. Con la conseguenza da un lato che l’infrazione perde la sua potenza e, dall’altro, che appunto non ci sia più un confine della rappresentazione. Non c’è più quella barra diagonale che congiunge e separa esistenza e arte.
GS: Su questo problema ho impostato La resurrezione di Büchner, l’azione raccolta in un libro che si chiama Dire, fare, baciare, che riporta tutte le discussioni che facevamo nel corso.
SC: Eri andato al famoso convegno del settembre ’77?
GS: No, sono andato sulle montagne a trovare gli amici con cui avevo fatto Il gorilla quadrumano. Prima ero andato a Roma per la manifestazione di marzo, ma senza partecipare al corteo; sapevo che i Volsci avrebbero tirato fuori le pistole. L’avevo detto ai miei: state attenti…
AC: Roma era la città delle pistole.
GS: I Volsci tiravano fuori le pistole, anche quando venivano a Bologna. Non erano amati dai bolognesi.
AC: Le pistole arrivavano solo coi romani?
GS: Forse no, ma quando arrivavano loro cambiava l’aria. La maggioranza degli studenti, a Bologna, ballava in piazza.
SC: I Volsci in gran parte non erano studenti, erano persone venute dalle lotte delle periferie, sottoproletari, infermieri del Policlinico, precari. Già da febbraio, dalla cacciata di Lama dall’Università, la parte creativa a Roma s’era in qualche modo autoliquidata.
GS: Leggo dai miei appunti: «Nel quaderno La resurrezione di Büchner raccolgo a trent’anni di distanza le immagini scattate durante il corso intitolato Dire, fare, baciare. Abbiamo cominciato nel dicembre 1977, anno creativo, gioioso, fantastico, folle, estremo e anche terribile con finale di morte e carcere; e abbiamo concluso a maggio, per tornare a studiare un testo (non volevano più sentir parlare di testi) ho proposto di leggere, mettere in scena (in quali spazi!) Leonce e Lena di Georg Büchner, che aveva poco più dell’età degli studenti quando è morto per febbre e ne aveva già fatte tante, compreso un tentativo fallito di rivoluzione insieme al pastore Weidig: ci assomigliava. Ho voluto fin dal principio immergere il testo, ancor prima che gli studenti lo avessero letto, nel gran teatro della città di Bologna, laddove erano avvenuti le feste e gli scontri del ’77, il teatro nello spazio degli scontri. È stata un’avventura forte, piena di intelligenza e amore. Credo che abbiamo capito, tra l’altro, il senso più profondo del termine “reviviscenza”: resurrezione. Molti erano i Leonce, molte le Lene, i Re Pietro, i Valeri, le governanti, le Rosette; per ogni personaggio c’erano due, tre, cinque, dieci attori che si incrociavano in scene sempre nuove in molte lingue e dialetti, ognuno nel suo parlare. La città e la collina sono state il nostro teatro, e anche il cielo con l’uccello della notte. E quanti amori, quanti baci, quante gentilezze. Come poteva, ad un certo punto, non ricomparire Büchner, risorgere per un momento?» Ogni partecipante doveva preparare una sorpresa per gli altri, e una l’avevo preparata anch’io; avevo preso l’unico ritratto di Büchner che esista, l’avevo ingrandito, era diventato un gagliardetto, un gonfalone. Così scendiamo dalla collina con Büchner. Dietro c’erano i musicisti, uno studente cieco con la fisarmonica, un flautista, un’orchestrina perfetta.
SC: Tutto terribilmente romantico e malinconico…
GS: … tutti piangevano. Anche gli alberi piangevano. Questo ragazzo che tornava vivo tra noi l’ho appeso sul grande cedro che c’era lì, all’imbrunire, poi siamo stati in silenzio. Questa era la resurrezione, la reviviscenza. Tutti hanno capito quello di cui parla Stanislavskij. Ogni poesia fa questo, fa risorgere le persone.
SC: Era anche un modo per seppellire la giovinezza, l’innocenza.
GS: No, per ritrovarla. La situazione è sempre nuova, i semi ci sono sempre.
SC: Anche questo è un tema malinconico…
AC: … cristiano...
SG: … no, è la vita! È Dioniso, non è Cristo. Dioniso, la Zoè, la vita perenne.
SC: Dioniso è uno che finisce male, a una festa. Lo fanno a pezzi.
AC: È naturale che la cerimonia della reviviscenza porti un messaggio vitale, addirittura vitalistico; però è anche vero che presuppone la morte. Qualcosa dev’essere morto, perché se ne possa celebrare la rinascita.
GS: Esiste forse qualcosa che non muore?
AC: Non puoi negare che sia simbolico il fatto che tu alla fine del ’77 metta in scena una morte e resurrezione.
GS: Ma è solo un episodio, sarà durato sette otto minuti… alla fine c’è per esempio la gara per conquistarsi Lena, è una cosa di una gioia immensa. Un girotondo, due cerchi che girano…
AC: Perché Büchner?
GS: È una commedia in cui tutti sono fannulloni e vagabondi, soprattutto Valerio, e fanno un viaggio in Italia. Leonce è innamorato di Lena, Valerio è il suo consigliere, vanno verso Sud ma in realtà non vanno da nessuna parte. Sono uguali ai ragazzi di allora… tutti si sono riconosciuti… tutti Leonce, tutti Lena, tutti Valerio.
AC: Dei dispersi?
GS: Sì, dei dispersi.
SC: Avete fatto delle riprese?
GS: No, quella volta non mi pare.
AC: Questo è un problema che riguarda il teatro in generale, c’è sempre differenza fra chi lo vive e chi ne sente parlare, lo vede fissato in alcune immagini…
SC: La fotografia e la morte, barthesianamente, sono inscindibili.
AC: A proposito di malinconia: l’incontro con Celati è con qualcuno di molto diverso da quello che conosciamo oggi. Parlando di morte e resurrezione, c’è una discontinuità tra le sue cose degli anni Settanta e quelle successive. Prima la comicità, il corpo, appunto la festa, poi…
GS: Ma Gianni non è cambiato, è sempre stato molto malinconico, è un viaggio coerentissimo il suo. È stata una delle prime persone che ho incontrato a Bologna, dormivo spesso a casa sua. Poi s’è aggiunto Camporesi, venivano al mio corso, io proiettavo i filmati dei carnevali, cantavamo le cose che avevamo imparato in giro per l’Italia. Camporesi leggeva alla sua maniera, Gianni faceva le sue chiose. A un certo punto s’è unito ai ragazzi, è diventato quasi uno studente del corso.
AC: Una costante di tutti questi lavori di piazza, a Bologna ma anche prima, è questa del gigante. Un gigante vero e proprio, o il gorilla, o ancora il drago… anche quando parli del gonfalone di Büchner, o delle mongolfiere, in fondo è sempre qualcosa sotto cui porsi. Perché?
GS: Perché fa colpo, intanto; poi con alcuni di questi giganti è possibile l’identificazione. Per esempio il cavallo non nasce per caso; era il cavallo che c’era nell’ospedale fino a tre mesi prima e che risorge, avevo visto una matta che lo disegnava…
AC: … è questo che colpisce, che tu ogni volta cerchi un catalizzatore… forse quello che hanno in comune queste figure non è la dimensione, ma appunto il fatto che stanno in alto, il che porta la collettività a incarnarsi in esse, a catalizzarsi…
GS: … il motivo razionale non te lo so dire. Da bambino sono stato colpito dai giganti, comunque, ne ricordo uno che camminava sui trampoli all’ingresso della città. Quest’apparizione mi ha segnato, era così diverso, così sorprendente… Per me una categoria base della poesia e del racconto è l’apparizione.
AC: Tornando al Settantasette. Un po’ tutti lo vedono come uno spartiacque: la grande occasione perduta, o il punto di non ritorno, o la grande festa dopo la quale nulla è più stato come prima. Invece sembra che tu ne abbia una visione molto più equilibrata. Per te è una tappa nel tuo percorso. Della figura della resurrezione non è un caso che enfatizzi il momento della continuità.
GS: Ma sì, io vedo soprattutto una continuità coi momenti forti che c’erano stati in precedenza. Anzitutto il ’60, i fatti di luglio, ero studente a Padova, presidente dell’Unione Goliardica Italiana, portammo molta gente a protestare… poi il ’68 a Milano, insegnavo al Convitto Rinascita, la scuola che avevano fondato i partigiani nell’Ossola… Scelba aveva tentato di chiuderlo con gli assalti, però i partigiani l’avevano difeso… facevamo dei seminari, con Fortini, Giudici, Cesarano, Grazia Cherchi, Piergiorgio Bellocchio… Mi chiedete come veda il senso del ’77. Certo è stato un momento forte, però devo dire che ho cercato in tutti i modi di esorcizzarlo. C’erano domande profonde ma risposte inadeguate. Mi piaceva lo stare insieme ma c’era troppa umidità, troppo addio giovinezza, troppo buttiamo via tutto… a me veniva da dire, e qualche volta devo averlo anche detto: ragazzi, quando vi svegliate guardate che state male… forse è stata davvero la coda di un ciclo, anche se con dentro già le domande del futuro.
AC: Forse il problema è che non c’è stata una quarta tappa. Tu dicevi il’60, il ’68… momenti che hanno avuto una loro controprova, anche negativa se si vuole, appunto nel ’77; il ’77 invece è strozzato dal fatto che non c’è stata nessuna discontinuità, dopo. Penso anche al rapporto con gli studenti. Dicevi che quelli di allora non erano così diversi da quelli che hai avuto dopo. Però negli anni Settanta con docenti come te e Gianni era possibile una solidarietà, un giocare insieme. Poi a un certo punto si apre un fossato.
SC: Gli studenti danzano ancora nelle strade?
GS: Nelle strade no, ma nel mio corso ti garantisco che hanno danzato fino all’ultimo giorno. Marco Cavallo oggi non sarebbe più possibile, certo, ma perché non ci sono più i manicomi. Non sempre le cose cambiano in peggio.
AC: Non ti pare che oggi spazi di libertà si siano museificati, arroccati nelle università e in altri luoghi protetti, nelle riserve? La metafora di Gianni delle riserve è molto poetica ma anche molto triste.
GS: Ma eravamo nelle riserve anche allora, il Gorilla è un fatto di riserva…
AC: Ma c’era un’osmosi con la gente, con la città, che poi in quella misura non c’è più stata; quello che fai oggi o hai fatto fino a poco tempo fa…
GS: Ma oggi siamo tutti dominati dalla paura! Paura dell’immigrato, dell’albanese, del nero. Senti che le porte non si aprono così facilmente. Io continuo ad andare nei paesi, ma da famiglie che conosco, non so se facessi un corteo oggi cosa succederebbe… all’epoca attraversavo Milano col Gorilla… era venuta la televisione a riprenderlo… gli abbiamo detto: no, guardate, è una roba di studenti… Poi quando la Biennale, Ronconi e Ripa di Meana, mi hanno chiesto di fare qualcosa nel ’75, ho fatto il teatro vagante a Mira. Dovevo fare la discesa del Po con gli studenti, avevamo già preso il barcone, fissato le tappe, dovevamo fare sedici spettacoli…
SC: … una transumanza… erano delle chiatte?
GS: I burchi, gli antichi burchi! Gli ultimi ancora in grado di navigare… la cosa era annunciata su tutti i giornali. Volevano tutti venire con noi, Zavattini simpaticissimo. Per due motivi non s’è fatto… dopo assemblee su assemblee… primo perché ho pensato che fisicamente non ce l’avremmo fatta… dormire, farci da mangiare, gli spettacoli… il sole d’agosto, tre mesi sul Po… secondo perché ho capito che stava diventando una cosa televisiva… gli studenti diventavano vedette… mi sono detto: ora rovino la tessitura di tutti questi anni…
AC: Ecco la convitata di pietra! Non abbiamo mai citato, finora, la voragine che ha assorbito tutto quello di cui abbiamo parlato: la televisione. Il predominio, la dittatura mentale della televisione nella società italiana ha cambiato tutto, ha atrofizzato tutte queste energie.
SC: Non a caso l’hanno chiamata piazza virtuale.
GS: Quello che mi domando e che vi domando è: questa rete meravigliosa che Teilhard de Chardin profeticamente, prima dell’elettronica, ha chiamato noosfera… il pianeta pensante… è questo il salto evolutivo di cui si diceva prima. Non c’è dubbio, l’evoluzione è reale, continua e continuerà sempre. E allora, cosa resta da fare ai poeti?, la vecchia domanda di Saba. Ai poeti, agli scienziati, a tutti noi, cosa resta da fare? Ognuno può fare la sua scelta. Mario Lodi ha scritto un libretto, Ho spento la televisione, ci penso spesso. Eppure mi dico che bisogna farci i conti, col pianeta pensante: può essere una cosa atroce, spaventosa – oppure qualcosa di meraviglioso.
(Le foto che accompagnano questo testo sono di Enrico Scuro).