Speciale

Speciale Gianni Celati | La liberazione di Baratto

4 Aprile 2013

Prima di tutto, devo dire una cosa poco letteraria ma semplicemente umana. Io amo i libri di Gianni Celati perché mi fanno stare bene. Fin da quando lessi il primo, negli anni ottanta. E’ uno “stare bene” che ha a che fare con una migliore comprensione del mondo: il senso che, leggendo, uno capisce meglio cosa ci sta a fare qui. Per essere più precisi, come stiamo qui, giorno per giorno, incontro dopo incontro. A questo sentimento di fondo si è aggiunta negli anni la fortuna di una conoscenza diretta dell’uomo; e anche quella di aver lavorato insieme.

 

Credo che noi registi abbiamo un modo particolare di manifestare la soddisfazione per la lettura di un libro. E’  l’immediata formulazione di un pensiero: “Voglio farne un film”. Con i lavori di Gianni Celati questo pensiero mi è venuto spesso. Ma la prima, e più convinta, occasione fu dopo aver letto l’ultima riga del racconto Baratto in Quattro novelle sulle apparenze. La storia dell’insegnante di educazione fisica che un giorno smette di parlare perché, semplicemente, si stufa dell’inutile cicaleccio di cui è fatta la nostra vita quotidiana ha prima di tutto la luminosità dell’idea folgorante. C’è un profondo senso di liberazione nel gesto di Baratto, eppure si tratta di una cosa apparentemente così facile da fare, alla portata di tutti. I personaggi di Celati si trovano spesso su una soglia epifanica di questo tipo, un passaggio in cui la “normalità” del mondo si rivela per quello che è: una spettacolare messa in scena – un’apparenza, appunto.

    

   

Il racconto diventa irresistibile quando il mutismo di Baratto si trasforma nella pietra lanciata nello stagno, le cui onde cominciano a propagarsi all’infinito. Ognuno assegna al silenzio di Baratto un significato personale e Baratto diventa la cartina di tornasole del loro straniamento. L’intuizione più bella di Celati, qui, è la rappresentazione di quella che Roman Jakobson chiama la funzione fàtica del linguaggio: il fatto che non si comunica con gli altri per dirgli qualcosa, ma soprattutto per rassicurare loro (e noi stessi) che  continuiamo a esistere.

 

Per un regista come me, Baratto ha poi un’attrattiva particolare e specifica: il carattere episodico della narrazione; l’accumulo di incontri, avventure, personaggi che il mutismo del protagonista fa deflagrare in irresistibili episodi di comicità. Così, la sceneggiatura che trassi dal racconto si arricchiva di nuovi eventi e personaggi. E, nel silenzio che accompagnava Baratto, erano i muri  a mettersi a parlare come voce fuori campo; o il selciato della piazza; o le sedie della scuola… In questo lungo processo (e nei vari tentativi di realizzare il film) sono sempre stato confortato dall’atteggiamento dell’autore. Ogni volta che si parla di diritti o di “controllo” sulla sceneggiatura, l’atteggiamento di Gianni Celati è sempre lo stesso: “Fai quello che vuoi”. Non lo considero un favore meritato o meno dal sottoscritto. Credo che, coerentemente con quanto spesso ripete, Celati creda sinceramente che le storie, al netto di certe evidenti e giuste necessità SIAE, siano di tutti. E che una volta raccontate siano come le parole che Baratto descrive: “le frasi vengono e vanno, e poi fanno venire i pensieri che poi vanno…”. Un vento leggero che agita lo spazio tra le persone. Ha mai avuto un padrone, il vento?

 

(Come potete facilmente constatare, il film non sono mai riuscito a farlo; perché è una lunga storia e non proprio edificante. Però, se ci penso bene, credo proprio che il taciturno Martino interpretato da Giorgio Pasotti in Dopo mezzanotte debba non poco al mio caro, vecchio Baratto)

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