Speciale
Un verso, la poesia su doppiozero / Spesso il male di vivere ho incontrato
Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.
Il verso apre una delle più memorabili quartine di Montale, incastonata in mezzo alle splendide poesie di Ossi di seppia:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Nel cuore del primo verso, il male di vivere: una definizione dell’esistenza individuale e universale che viene da lontano. Lo sguardo dei primi poeti e tragici greci - da Mimnermo a Sofocle - sulla vita come male, le concezioni della gnosi - nelle varianti neoplatoniche e cristiane - intorno al dispiegarsi del mondo come lontananza dalla luce e dal principio, le tante modulazioni della poesia romantica europea, che declinano il male sia nell’orizzonte metafisico sia in quello dell’esistenza del singolo. Una storia ricchissima, sul cui fondo il poeta deve muovere le tessere del suo mosaico, che dovrà diventare singolare e irripetibile, come solo la vera poesia sa fare.
L’esclamazione del leopardiano pastore errante nel Canto notturno, – “a me la vita è male” – è il precedente più diretto, e forse più consapevole, che agisce nella formazione del verso di Montale. Il quale ha del resto lo stesso movimento ritmico e timbrico dell’endecasillabo che apre L’infinito: Sempre caro mi fu quest’ ermo colle - Spesso il male di vivere ho incontrato; con gli accenti simili, nell’un verso e nell’altro (1, 3, 6, 10), con la stessa posizione incipitaria dell’avverbio temporale (Sempre, Spesso), e con l’appoggio del soggetto a un’azione raccolta nel verbo (mi fu, ho incontrato). L’impronta leopardiana di questo primo verso di Montale è come un’offerta tematica: segnala la presenza di un dialogo con il poeta dei Canti che trascorre nelle due quartine della poesia e che del resto è, insieme al dialogo con Dante, tessitura rilevante di tutto Montale, almeno fino alla Bufera.
Potrebbe non essere estraneo a questo “male di vivere” montaliano il Baudelaire delle Fleurs du mal, con tutte le risonanze gnostiche e insieme “maladives” raccolte nel titolo, e con l’affermazione “vivre est un mal” del sonetto Semper eadem. Con questa aura, insieme filosofica e poetica, e con questi precedenti, il primo verso della poesia di Montale rischierebbe una sua pensosa e austera solennità, se non affidasse la pronuncia, sin dall’avvio, a una tonalità narrativa dalla dizione piana: l’avverbio iniziale spesso si sottrae, infatti, a una temporalità piena e assoluta, introduce una condizione non abituale e continua, ma periodica, intermittente, e in questo modo porta la considerazione, di per sé grave, in una colloquialità quotidiana. Alla non perentorietà dell’apertura - spesso - corrisponde il timbro colloquiale del passato prossimo - ho incontrato -, verbo che oltretutto sembra separare il soggetto dall’esperienza, ponendolo quasi in una posizione di osservatore. Dire di un incontro non è necessariamente partecipare in profondità alla vita o natura dell’accaduto. Questa postura del poeta non è tuttavia un porsi fuori dall’esperienza, è semplicemente un gesto che, evitando la centralità sia sentimentale sia esistenziale dell’io, intende mostrare l’appartenenza dello stesso io a un universo che comprende tutto quel che è vivente : il male di vivere è la fisica stessa del mondo. Una fisica dolorosa, di cui già Leopardi ha avvertito tutte le venature - vegetali, animali e relative all’intero cosmo - rappresentandole, oltre che nel Canto notturno, in molte pagine del suo Zibaldone . Si ripensi, tra queste, e solo per quanto riguarda la “souffrance” del mondo vegetale, alla pagina datata Bologna, 22 aprile 1826 :
Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali […]. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta staccata e strappata via […].
Nella quartina di Montale la natura ferita si mostra in un’iconicità esemplare, avvicinando allo sguardo del lettore tre figure tra loro concatenate dall’anafora (era…era): il “rivo strozzato” che sembra mandare con il suo gorgoglio un lamento, la foglia riarsa che ha perso colore e venature - foglia morta che si accartoccia -, il “cavallo stramazzato”, immagine che rinvia al dolore animale e alla morte che è ritmo stesso del vivente. Il forte accamparsi scenico delle tre figure – che la critica montaliana raccoglierebbe nell’abusato sintagma del “correlativo oggettivo” - appartiene alla drammaturgia fortemente visiva e insieme meditativa degli Ossi di seppia, ma definisce anche uno dei modi propri della poesia montaliana : fare del particolare una sorta di concrezione fisica dell’essenza che diciamo vivente, e allo stesso tempo fare arretrare il soggetto dello sguardo in una regione opaca che è insieme lontananza e enigma. Da quel punto l’ osservazione dell’esistente può abolire, o provare ad abolire, tutti i segni di un’implicazione interiore, e così farsi lingua di una suprema imperturbata ironia. Un riflesso di questo movimento di poetica è la seconda quartina:
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Se il male appartiene alla natura del vivente, il bene è fuori dall’orizzonte dell’esperienza soggettiva. È tutto iscritto nel mostrarsi prodigioso di un mondo: l’antica physis, la natura con le sue leggi, con la sua necessità, con il suo legame tra nascosto e visibile. Il suo principio supremo, dunque d’ordine divino, è l’Indifferenza. Ma nel cerchio di quella privazione, che può apparire come privazione dell’umano sentire, ecco dispiegarsi il visibile. Un visibile nel quale il poeta sceglie, in analogia al movimento della prima quartina, tre figure, in una progressione che riconduce però al vivente, un vivente non più ferito : la statua, osservata “nella sonnolenza del meriggio”, dunque in una sorta di astrazione e lontananza, la nuvola, immagine dell’impalpabile e della metamorfosi continua, e il falco. Il volo del falco, con la sua libertà e bellezza, invita a sollevare gli occhi verso il cielo : in questo sguardo verso l’oltre, il male di vivere non è abolito, ma compreso in un suo orizzonte d’enigma e di splendente apparenza.
Chi darà a questo sguardo montaliano sul visibile della natura una grande energia evocativa e interrogativa, dispiegando in molte forme un pensiero fisico e creaturale del vivente, sarà un poeta grandissimo della generazione successiva, Mario Luzi.
Un verso:
L'amor che move il sole e le altre stelle
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi