Star Wars. Mitologia Jedi e cultura convergente
Per spiegare l’incredibile successo ottenuto da Star Wars nei suoi quasi quarant’anni di vita alcuni non hanno esitato a chiamare in causa la nozione di “mito”, senza tuttavia preoccuparsi di specificare le ragioni di tale definizione o valutarne seriamente l’attendibilità. Come si sa nel linguaggio moderno in effetti il termine “mito” viene applicato, forse in modo troppo superficiale, a tutti quegli oggetti culturali che hanno in qualche modo colonizzato l’immaginario collettivo finendo per imporsi all’attenzione anche di chi non si considera un fan. Nel caso di Star Wars tuttavia l’appellativo di “mito” rischia di recuperare il suo significato originale, ossia quello di racconto (nel senso più largo del termine) che presenta un certo tipo di requisiti o elementi, che lo distinguono nettamente da altre tipologie di testo narrativo. Ovviamente esistono un’infinità di definizioni di “mito” e persino i Greci, che ne sono gli inventori, non erano d’accordo quando si trattava di dire cosa fosse un mythos. Per semplificarci il compito faremo nostra la definizione, semplice ma al tempo stesso estremamente affidabile, proposta diversi anni fa dal filologo svizzero Walter Burkert, secondo cui i miti altro non sarebbero che racconti tradizionali forniti di una loro «significatività». Il mito, dunque, è un racconto che viene da lontano, che ha attraversato il tempo, ha resistito al tempo, e che in virtù di questa sua forza continua a godere di una certa autorità nel presente, continua cioè ad essere «significativo» sul piano culturale. Vediamo allora se il nostro testo possiede questi due requisiti.
Per quanto riguarda il primo punto, bisogna innanzitutto intendersi sulla quantità di tempo che deve necessariamente trascorrere perché un racconto possa essere definito «tradizionale». Se la risposta presuppone come unità di misura i secoli è ovvio che Star Wars non può rientrare nel novero dei racconti tradizionali. Se invece consideriamo come indice di tradizione non tanto l’antichità del racconto in sé e per sé, quanto l’antichità dei materiali narrativi che lo compongono, allora le cose cambiano. Si potrebbe infatti sostenere che anche un racconto nuovo di zecca è «tradizionale» se è lo è la sua morfologia e i mitemi di cui risulta composto. È il caso di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll o di King Kong di Merian C. Cooper. Del resto, lo stesso George Lucas ha dichiarato più volte di essersi ispirato alle opere di Joseph Campbell, saggista e storico delle religioni, molto famoso in America, secondo il quale la struttura ricorrente in ogni mitologia, il fulcro di qualunque racconto mitologico, è rappresentata dal «viaggio dell'eroe». Nella sua opera più famosa, The Hero with a Thousand Faces, egli si è proposto di fare con i miti quello che a suo tempo James George Frazer aveva fatto con i riti: raccogliere, analizzare, comparare un’infinità di racconti mitici provenienti dalle culture più disparate per rintracciare una sorta di struttura archetipica (basic pattern), l’ossatura fondamentale di qualunque racconto mitologico. Seguendo il modello proppiano, Campbell arrivò così ad individuare nel «viaggio dell’eroe» ben 17 tappe, divise in tre sequenze principali: partenza; iniziazione e ritorno. Ora, se Lucas ha seguito lo schema di Campbell, è evidente che il suo racconto non può che suonare come «tradizionale».
Veniamo ora alla «significatività», ossia all’efficacia che il mito possiede a livello sociale, culturale, letterario, artistico. In molti sostengono che Star Wars occupi nell’America contemporanea il ruolo che i poemi omerici avevano nell’antica Grecia o altre mitologie hanno avuto presso altre culture. Inutile dire che simili analogie richiedono grande cautela. Solo per restare al mondo greco, è ovvio che i tempi, i luoghi, i destinatari della performance di un aedo o di una trilogia tragica hanno ben poco a che vedere con i tempi, i luoghi, i destinatari di un testo cinematografico. Per non parlare degli scopi. Tuttavia, se la «significatività» di un mito consiste nella capacità di trasmettere idee, valori e modelli di comportamento in esso contenuti, non vi è dubbio che anche questo secondo requisito sia pienamente soddisfatto dal nostro candidato: Star Wars è stato talmente significativo da aver generato, oltre ad un vasto impero economico, un intero universo narrativo e iconografico (il cosiddetto Universo Espanso), e persino una vera e propria religione.
Quest’ultimo è forse l’aspetto più interessante dal punto di vista sociologico prodotto, seppure involontariamente, dal testo di Lucas. Per dare un’idea del fenomeno basti pensare che nel censimento del 2001, più di 390.000 cittadini del Regno Unito hanno specificatamente indicato, accanto alla casella other religion, «Jedi». Ma il Jedi Census Phaenomenon non è rimasto confinato all’Inghilterra, ha attecchito anche in Australia, Canada e Nuova Zelanda, guadagnandosi così l’attenzione dei media, di sociologi, antropologi e storici delle religioni. Da allora sono fiorite, soprattutto nei paesi di lingua anglosassone, diverse comunità religiose che professano i valori della dottrina Jedi e tentano di metterli in pratica nella vita di tutti i giorni. Molte di esse sono riuscite a farsi riconoscere ufficialmente dalle istituzioni, come il Temple of the Jedi Order che dispone di un suo codice, di suoi sacerdoti, di un suo calendario liturgico. I suoi membri inoltre non solo si definiscono «veri Jedi» (real Jedi), ma rivendicano con forza la loro indipendenza rispetto ai personaggi della saga creata da Lucas. I film di Star Wars, sostengono, non sono altro che «parabole» alle quali ispirarsi, come le vite di Buddha, di Gesù, di San Francesco, di Gandhi, etc. Per i seguaci della Jedi Doctrine Lucas non ha fatto altro che fornire una terminologia comune a una serie di ideali morali e religiosi innati nell’uomo e preesistenti alle sue creazioni filmiche, le quali, dunque, non possono convalidare, né tanto meno negare la legittimità della chiesa jedista.
Questo genere di osservazioni mettono in discussione il concetto stesso di religione. Ha davvero senso distinguere tra religioni che pretendono di essere storicamente fondate e religioni palesemente inventate? O meglio, cosa è che rende una religione più autorevole di un’altra? E ancora, una religione che ha il suo testo di fondazione in un’opera cinematografica è per questo meno autorevole rispetto a una religione tradizionale, strutturata e ufficialmente riconosciuta?
Tutto ciò ci induce a riflettere sull’incredibile potere suggestivo e mitopoietico del cinema, l’arte in cui si realizza più compiutamente il meccanismo dell’illusione drammatica. È questa l’espressione utilizzata dal poeta romantico Samuel Taylor Coleridge (1772-1834) per definire il principio in base al quale il lettore, nel nostro caso lo spettatore, decide di sospendere temporaneamente e volontariamente la propria incredulità nei confronti di racconti, fatti e personaggi non reali, frutto dell’immaginazione di un qualche autore. Si tratta in sostanza di una sorta di patto che stringiamo con noi stessi quando andiamo a teatro, al cinema o anche quando leggiamo un libro, per cui fingiamo di credere in quello che stiamo per vedere, leggere o ascoltare, indipendentemente dal contenuto più o meno inverosimile della narrazione. In virtù di questo patto può accadere che una storia, se è una buona storia ed è ben raccontata, riesca a stringerci con tanta forza che, anche quando chiudiamo il libro o nella sala cinematografica si riaccendono le luci, a stento riusciamo a liberarci dai lacci della sua suggestione. A volte per riaversi è sufficiente qualche ora, una bella passeggiata all’aria aperta, una chiacchierata con un amico, insomma un po’ di moto nella realtà. In altri casi invece possono passare dei giorni; in altri ancora la cosa è più complicata: i lacci della suggestione invece di evaporare si solidificano, trasformandosi in vere e proprie credenze. Per cui si può arrivare a credere, in totale buona fede, che una teologia cinematografica sia plausibile e possa funzionare anche nel mondo reale. E poiché la forza di una credenza non dipende da un criterio di verità oggettivo, ma dalla sua utilità pratica, da suo cash-value come direbbe William James, l’oggetto della credenza non deve necessariamente essere vero, è sufficiente che sia vero per chi vi crede. In altre parole, il desiderio di credere è molto spesso sufficiente per credere.
La domanda, dunque, che un sociologo delle religioni deve porsi di fronte ad un fenomeno come il Jedismo non riguarda la sua plausibilità, ma piuttosto le ragioni del suo successo. La recente affermazione delle cosiddette «religioni inventate» (invented religions) non dipende soltanto dal mezzo o dal modo i cui sono state diffuse, ma anche e soprattutto dalla loro capacità di intercettare le aspirazioni e i bisogni delle persone, e di rispondervi in maniera pragmatica. Come nel caso dei miti, le narrazioni su cui esse si fondano non sono vere, ma non per questo sono meno «significative». Anzi la «significatività» fa sì che tali narrazioni sfuggano al controllo del loro autore e guadagnino un’esistenza autonoma, alimentata delle risonanze emotive del pubblico e del suo desiderio di condivisione. Attraverso questo processo le creazioni filmiche tendono ad oggettivarsi, ad assumere una qualche consistenza sociale, e dunque, in un certo senso, a divenire «vere».
Il sociologo delle religioni Adam Possamai parla a questo proposito di «hyper-real religions». La nozione di iper-reale, così come quella correlata di «simulacrum», è tratta dagli studi di Jean Baudrillard. Secondo il filosofo francese, l’industria dello spettacolo, le nuove tecnologie e i mezzi di comunicazione di massa hanno sostituito la realtà con un suo simulacro, con una sua immagine artificiale, che però è talmente sofisticata e seducente da essere scambiata per reale. Anzi è «iperreale», cioè più reale del reale. Ma l’aspetto più interessante, e per certi versi inquietante, della teoria di Baudrillard, è il fatto che il mondo iperreale non si limita a offrire ai suoi fruitori esperienze molto più intense e coinvolgenti rispetto a quelle della banale vita quotidiana, ma indirettamente li stimola a ricercare quelle stesse esperienze anche al di fuori del simulacro, nella vita di tutti i giorni. I modelli, le immagini e i codici dei mondi iperreali sono in grado di determinare i pensieri e i comportamenti di chi li abita. In altre parole, l’iperreale finisce per rendere simile a sé anche il reale, plasmandolo a sua immagine e somiglianza. Inutile dire che la linfa vitale che alimenta i mondi iperreali scorre lungo la rete. Internet può essere a buon diritto considerato il simulacro dei simulacri, o meglio il mezzo attraverso il quale i diversi simulacri crescono ed espandono il loro dominio a scapito dei mondi reali.
In questo senso potremmo dire che il Jedismo, con le sue infinite piccole comunità, più o meno serie, è un prodotto di quella che Henry Jenkins ha chiamato «cultura convergente», che nasce e prospera attraverso il web, dove i fan si uniscono, mettono insieme le loro passioni, discutono, insomma, “convergono” sull’oggetto del loro desiderio, esercitando su di esso il proprio potere creativo. Ogni anno la saga viene celebrata in tutto il mondo da migliaia di fan che organizzano convention, raduni, vere e proprie parate in costume (l’equivalente moderno di un rito antico?). Non si tratta di cerimonie religiose nel senso proprio del termine, ma il confine tra il fan e il devoto può essere molto labile. Le chiese jediste nascono dalla medesima istanza, tradurre il racconto in atto, ma perseguono il loro scopo a un livello molto più alto che interessa la stessa realtà sociale. I real Jedi non si limitano a commemorare il testo filmico, intendono realizzarlo concretamente nell’esperienza quotidiana, vogliono essere dei veri Jedi, o meglio, vivere da Jedi. Se la forza di una religione dipende dalla sua capacità di migliorare la vita delle persone, aiutandole a realizzare la propria identità individuale e sociale, poco importa quale sia l’origine o la natura del racconto sul quale essa pretende di fondarsi. L’importante è che il racconto circoli, diventi oggetto di comunicazione, in altre parole, che abbia un pubblico di cui riesca a catalizzare attese e speranze.
Una versione più completa ed estesa di questo articolo è stata pubblicata in S. Botta e T. Canella (a cura di), Le Religioni e le Arti. Confronti interdisciplinari in epoca contemporanea, Quaderni di Studi e Materiali di Storia delle Religioni, Morcelliana, Brescia 2015, pp. 130-153.