Steve McQueen. Shame
Shame è un’occasione mancata. O un errore di percorso, se si preferisce. Un saggio sociale in forma cinematografica che pur centrando in pieno l’argomento, ne fallisce in maniera inesorabile la trattazione e che disfa attraverso i contenuti e lo svolgimento ciò a cui dà vita nella forma. Ed è un peccato.
Non solo perché Steve McQueen – che aveva incantato e convinto con il suo film d’esordio, Hunger (2008) –, è e rimane un autore dalla spiccata personalità e dall’indiscutibile talento, ma anche perché un’opera come questa, considerando le qualità che mostra nel cogliere e mettere in scena aspetti peculiari e non banali della società contemporanea, avrebbe potuto dire e comunicare molto di più di quanto non si sia trovata a fare. E del resto i primi venti minuti di film, assolutamente convincenti e incisivi, rappresentano un’esemplare prova di regia. McQueen, infatti, mette in campo le proprie migliori virtù di cineasta concentrando nell’apertura una presentazione ineccepibile e calibrata del protagonista: Brandon, un uomo d’affari newyorkese sulla trentina – interpretato da un Michael Fassbender splendidamente lubrico e carnale – ossessionato e completamente assuefatto dal sesso. Ma riuscendo a raccontare anche, con rigorosa efficacia, l’ambiente che circonda i personaggi.
Una macchina da presa insolitamente impercettibile e statica, infatti, descrive con elegante senso della spazialità i movimenti degli attori entro i numerosi interni cittadini (appartamenti, bar, uffici, metropolitane) nei quali la storia si svolge. Facendo sì che New York stessa divenga un universo estraneo a se stesso, un fuori campo esistenziale che si fa metafora e insieme antitesi dei luoghi in cui i corpi dei personaggi sono relegati. E che assuma i contorni, in un certo senso, di quella versione di “New York, New York” che Sissy, la sorella di Brandon, interpreta al night nella prima parte del film: una cover languida, infinita e sonnolenta, l’esatto contrario della città descritta nel testo. E non meno notevole, in tal senso, è la maestria con la quale il regista filma e ritrae i corpi, corpi che proprio come in Hunger si impongono come frontiera alla visione certo, ma che insieme emanano e si rivestono di un calore e un erotismo materico, quasi tattile.
In fondo McQueen non sbaglia nell’individuare nel sesso un modello ontologico, oltre che antropologico, dell’individuo contemporaneo e nell’intendere la lussuria, vista dal lato dell’atto sessuale ma soprattutto da quello della pornografia, come un vero e proprio carattere (anti)sociale del mondo globalizzato. Il problema è semmai che il suo giudizio non si ferma qui. La pornografia infatti, che nel film dovrebbe segnare il limite osceno che divide il pubblico dal privato e che conseguentemente trasforma, attraverso la propria natura clandestina, il sentimento intimo del pudore in quello comunitario e collettivo della vergogna, diviene l’elemento di rottura fra narrazione e argomentazione. E dopotutto Brandon assurge, in questo senso, al ruolo di esemplare di una razza. La vergogna che si impossessa di lui – e che intende rappresentare il punto nodale di un film che, non si dimentichi, mette la vergogna nel titolo – è esattamente il risultato di una pulsione privata che viene elevata a una dimensione pubblica.
Suggerendo, con sospetti di semplicismo (e non solo), che la questione morale si ponga, per il protagonista, nella perdita di un “possesso” scabroso (simboleggiata dallo smascheramento della masturbazione) non solo di fronte a se stesso, ma soprattutto di fronte agli altri. Motivo per cui la crisi di coscienza che ne consegue, diviene la messa in discussione di un modello di vita in nome, ancora una volta, di quei valori da cui evidentemente, neppure un regista come McQueen si sente di affrancarsi. Valori quali la famiglia, il matrimonio e i rapporti sociali comunemente accettati. Anche il personaggio di Sissy, in tal senso, viene a incarnarsi quale referente più prossimo del protagonista con il complesso famiglia, quello nei confronti del quale si prova la prima vergogna, quello dal quale Brandon è fuggito per tutta la vita.
Un modo di ragionare (e di rappresentare), questo, all’interno del quale però, diviene difficile evitare che i luoghi comuni facciano capolino e che l’universo etico del quale si è costruito il profilo, non finisca per assumere i contorni di un moralismo piuttosto pedante. In fondo è esattamente ciò che viene dato per scontato, ciò che si presume debba essere condiviso a priori riguardo l’ambiente e i comportamenti del protagonista, a destare i dubbi maggiori. Il film infatti, e sta proprio qui il difetto più grosso, tenta un’analisi sociale su larga scala, assumendo dei tratti particolari del tutto arbitrari con la presunzione che essi si elevino a un rango universale. Siamo davvero certi che la solitudine sia un disvalore tanto riprovevole? È assennato sostenere che il piacere coincida sempre e soltanto con la colpa? È così imperdonabile una considerazione strumentale dei rapporti sociali?
Il dubbio è che le domande dalle quali la pellicola di McQueen cerchi di sfuggire siano soprattutto queste, con buona pace di chi ha voluto leggere il film come una parabola della degradazione materiale del mondo globalizzato. Anche perché, sempre a proposito di degradazione, il fatto che quella di Brandon si riveli, allo spettatore e a lui stesso, con l’atto di una fellatio (subita) da parte di un altro uomo, lascia il fastidioso sospetto che il tono morale dell’intera pellicola non sia così ingenuo come potrebbe sembrare a prima vista. E non tanto per via della goffaggine con cui l’autore tenta di immettere simboli in un tessuto filmico cui manca il respiro della metafora, ma soprattutto perché sono proprio gli elementi più conformisti dei quali parla e dai quali parrebbe volersi smarcare, ad appartenergli più di quanto egli, forse, non creda.