Tacita Dean e Philippe Parreno: luce e icone

3 Giugno 2023

In questi giorni, ci sono due opere, in due mostre in corso, che affrontano con lo stesso medium, quello cinematografico, ma con tecniche e stili differenti, soggetti simili. Il che permette alcune riflessioni tanto sul cinema come sul rapporto tra stile e sensibilità storica nelle arti visive, al rapporto tra un particolare periodo storico e la predilezione per una certa tecnica o supporto.

A Punta della Dogana, avamposto veneziano della Collezione Pinault, è ora in corso la mostra Iconês (aperta dallo scorso due aprile fino al 26 novembre), che indaga – in modo molto lato – come il concetto di icona proveniente dall’arte sacra sia reimpiegato e declinato nell’arte contemporanea e specialmente nelle opere di proprietà di Arnault Pinault. Tra le prime opere esposte, in una sala a cui si accede dopo aver percorso una scalinata, c’è il video di Philippe Parreno, La Quinta del Sordo (2021). Il video si dedica alle Pintura negras, il ciclo parietale di quattordici dipinti ad olio realizzati negli ultimi anni di vita da Francisco Goya nella sua casa nei sobborghi di Madrid. Soggetti profani ma che per contrasto richiamano e si inseriscono nel corpus delle sue opere a tema religioso; Emma Levigne, nel catalogo, la dice come una “Via Crucis” in cui “ogni traccia di sacro sembra essere definitivamente svanita”. Dove tutto, volti, colori, episodi, appare come il contrario di ciò che è santo, ma la cui costruzione a parete rimanda a un ciclo della storia della vita di un santo, o di una biblica, di una cappella. 

Il video, di quasi quaranta minuti, segue i dettagli della pittura di Goya: indugia sulle pennellate del colore ad olio, le scruta secondo diversi angoli e prospettive con movimenti della camera e zoom. Si attarda a mostrare i contrasti nella pittura e nel colore: i chiari scuro, le tracce marcate del colore che si raggrumano e compiono i tratti unti e disuniti dei volti raffigurati, o degli abiti, o si impastano nei neri cupi fondi. Assieme al movimento delle camera e dell’ottica, a tracciare i percorsi sui dipinti sono i passaggi di luce che spostandosi, calando o salendo di temperatura e intensità, sottolineano o celano colori e intonazioni dell’olio. Una luce resa ancor più evidente nel pulviscolo che si frappone fra l’ottica e la tela. Il tutto ancor più marcato dalla costruzione di un suono volto ad esaltare i passaggi sulla tela, a replicare il rumore di lavorio durante la realizzazione dei dipinti, a caricare le luci e i fuochi di candela della loro dimensione sonora.

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Philippe Parreno, La Quinta del Sordo, 2021, Venezia Punta della Dogana.

Il secondo film è esposto nella mostra del Mart di Rovereto Giotto e il Novecento (dal 6 dicembre 2022 e prolungata fino al 4 giugno 2023), Buon Fresco di Tacita Dean. L’intento della mostra è chiaro: cercare nell’arte del Novecento le influenze, più o meno dichiarate, di Giotto in altri artisti. A chiusura della mostra, dopo la sezione dedicata a esempi nell’arte non italiana e più recente, chiude l’esposizione il film realizzato nel 2014 dalla Dean. Si tratta di trentadue minuti retroproiettati in pellicola 16mm, lo stesso formato utilizzato in fase di ripresa, su di uno schermo dal formato quadrato sospeso nel vuoto di una piccola stanza scura. Il film è di un rigore formale incorrotto: solo riprese statiche di dettagli degli affreschi di Giotto nella Cappella Scrovegni, senza movimento alcuno né aggiunta di qualsivoglia testo e manco meno di audio – unico commento sonoro è il continuo rullio del proiettore. Si tratta di un allestimento tipico per le opere della Dean inserite in esposizioni o gallerie; come anche per il soggetto del film, che si inserisce in una serie di vari altri casi in cui sì è dedicata a un artista o a un’opera d’arte, come ad esempio Merce Cunningham, Cy Twombly, Mario Merz, Giorgio Morandi o su un disegno lasciatole da un frate.

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Tacita Dean, Buon Fresco, 2014, Rovereto.

Le vicinanze tra i due video sono palesi, così come le marcate differenze tra i due nella tecnica e nello stile ma anche nell’installazione, se si contrappone la piccola sala per il misurato riquadro retroproiettato per la Dean e la sala decisamente più ampia e il grande schermo su cui è proiettato il formato panoramico di quello di Parreno. Ma la differenza è ancor prima, ed è contenuta nello specifico stilistico e tecnico delle stesse opere su cui i due video si soffermano. Se è difficile poter parlare di una perfetta consonanza strutturale tra le opere protagoniste e il medium che le rimedia in immagine cinematografica, eppure un discorso su questo crinale lo si può intraprendere. A dare le parole su cui basare un tale discorso è padre Pavel Florenskij, il filosofo attento all’estetica e alla dimensione diremmo oggi antropologica, cioè nella sua dimensione cultuale e quindi culturale (per lui è il culto a dare forma alla cultura che abita) dell’opera d’arte.

Da una parte abbiamo un soggetto ad olio, espressione dell’arte moderna e più sottoposta alle temperature dell’arte religiosa occidentale seguita a secoli di sperimentazioni e sviamenti dal canone. Un canone a cui per primo risponde in intemperanza il soggetto giottesco del film della Dean. È infatti in Giotto che ravvisiamo il primo scarto con l’arta sacra e tradizionale cristiana che seguiva binari pressoché paralleli tra oriente e occidente fino all’ingresso di Giotto – e chi attorno a lui. Uno studioso di questa cesura tra oriente e occidente, che per formazione biografica ha ben a mente negli occhi il canone artistico dell’icona orientale, Vladimiro Zabughin, scrive a proposito: “Questa è l’arte di Giotto, ricca, possente, disuguale, turgida di germi donde sbocceranno tre secoli di pittura italica” (su Giotto come primo incrinatore della forma tradizionale dell’arte sacra si veda anche solo il saggio di Alessio Monciatti nel catalogo della mostra del Mart, che ha come esergo un brano da Cennini: “[Giotto] rimutò l’arte di dipingere in greco in latino, e ridusse al moderno”). Se da Giotto il moderno, compreso poi Goya, è però ancora in lui chiara la matrice e alcune caratteristiche dell’arte cristiana che proviene dall’oriente: ovvero, pur essendo tra i fautori dello scollamento tra arte cristiana orientale e occidentale, conserva una dimensione tradizionale sufficiente per tenerlo legato all’arte sacra orientale, per cui alla forma dell'icona. Può quindi in questo caso assumere il ruolo del bizantino rispetto al modernissimo Goya. Sono epoche non solo cronologiche ma indici di stagioni lontane e opposte tra loro che riversano questa loro differenza nell’arte e nella scelta dei supporti, delle tecniche e dello stile che decidono di utilizzare. È questa la lettura antropologica che Florenskij dà dell’arte sacra e religiosa nei diversi tempi storici all’interno del suo saggio dedicato all’icona.

Difatti le opere di Goya assumono su di sé quanto Florenskij scrive sulla pittura ad olio e su tela e la sua rappresentatività dell’epoca moderna: 

Elastica e duttile, elasticamente duttile, malferma, incapace di reggere il tocco dell’uomo, la superficie della tela tesa rende il piano della raffigurazione dinamicamente pari alla mano dell’artista. Con la tela l’artista lotta come “con suo fratello”, ed essa è tattilmente recepita come fenomenalità; la si può inoltre spostare dove si vuole e voltare a piacimento, non ha un’illuminazione indipendente dall’arbitrio dell’artista né una relazione con la realtà circostante.

Tutto questo perché “[l’]evidenza del sensibile e la precarietà ontologica dell’essere si esprime nell’aspirazione dell’arte a una malfermità carnosa”.

Sulla tela le Pitture nere di Goya non nascono ma ci sono portate. Nascono su parete, ma le è prorpria, interna, la destinazione e il supporto a cui tendono: la tela. Infatti proprio su tela saranno trasferite alcuni anni dopo e in questo loro allestimento sono filmate da Parreno. Della tela e dell’olio condividono e ne sono formati al pari della sensibilità storica che portano con sé questi strumenti, come si può leggere da Levigne: “Philippe Parreno ci ricorda come questo ciclo alchemico apra le porte alla sensibilità moderna e la coscienza di un mondo progressivamente abbandonato dagli dei”. E il cui “presentimento tecnico di aspirazione erano i colori a olio e la tela tesa”, completerebbe Florenskij.

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Philippe Parreno, La Quinta del Sordo, 2021, Venezia, Punta della Dogana.

Tutt’altro testimonia la pittura su tavola dell’icona e l’affresco. Le due tecniche sono totalmente assimilabili: “Storicamente la pittura di icone nasce dalla tecnica della pittura murale, e di quest’ultima è in sostanza la vita stessa, affrancata dalla dipendenza esterna dalle contingenti costrizioni architettoniche e da altre ancora”. E infatti “La prima cura del pittore di icone è tramutare la tavola in muro”. Una stabilità e una fissità del supporto che sono connaturate con l’ontologia del loro soggetto divino. Questo è alla base per gli affreschi di Giotto e del Buon Fresco della Dean. Una durezza che la Dean riprende tramite la scelta, date le alternative che oggi esistono, del supporto e della tecnica della pellicola cinematografica: la pellicola conserva un grado di resistenza maggiore e una materialità tangibile, una resistenza e una fissità soprattutto laddove messa a confronto con la tecniche digitali. Ad esempio mettendo a confronto il film della Dean al video di Parreno; e in raffronto alla proiezione digitale certamente più versatile nelle modalità di proiezione e quindi fruizione.

Sullo stesso piano è il raffronto tra le due scelte espositive: da una parte una cella e la dimensione di una tavola votiva, di un’icona appunto. Dall’altra il grande telero dello schermo incommensurabilmente più vasto, come anche la sala di installazione.

Una maggiore rigidità e minutezza nella proiezione della Dean, ma anche una concentrazione dello sguardo e una precisione selettiva a favore del particolare che rivela il significato del quadro (generale) nella ripresa statica. Nella Dean è tipica la fissità delle riprese su determinati soggetti; lasciando che siano questi, e il nostro occhio su di loro, a spostarsi. Gli esempi potrebbero essere molteplici, i più evidenti sono The Green Ray o Fernsehturm o la coppia Disappearance at Sea I e II. E così è anche in Buon Fresco, dove a scorrere è la teoria degli affreschi in dettaglio piuttosto che un passaggio da un punto all’altro della macchina da presa che mai si vede. Mentre voluttuosa vaga la ripresa di Parreno, che scivola sul dipinto, senza fissare alcun punto fermo, e che rende evidente ogni suo spostamento tra i dipinti e al loro interno, proprio come fossero su tela che, come detto, “rende il piano della raffigurazione dinamicamente pari alla mano dell’artista”.

D’altra parte, tipico di Parreno è il mostrare l’atelier che genera un’opera, in questo video lasciato alle immagini di inizio e fine: la ciotola per il colore, la ripresa serale, ai nostri giorni, del luogo ora perso dove Goya realizzò la sua opera.

Ma il punto decisivo che connota le due opere come testimoni del significato dei loro soggetti è la luce.

L’arte di Goya, innestandosi nella modernità, “non ha un’illuminazione indipendente dall’arbitrio dell’artista”, ha invece una illuminazione esterna alla materia dell’opera doppiata dalla illuminazione scelta da Parreno. 

Riprendendo Florenskij, di tutt’altro tipo di luce vive l’icona:

La pittura di icone vede nella luce non qualcosa di esterno rispetto alle cose, e nemmeno una proprietà originale di ciò che è materiale: per la pittura di icone, la luce dispone e crea le cose, è la loro causa oggettiva, che proprio in quanto tale non può essere intesa come solo esterna a esse; è il loro principio creatore trascendente, che attraverso di esse palesa sé stesso, ma che in esse non si esaurisce.

La causa materiale di questa luce nell’arte dell’icona è data dal fondo oro, in russo chiamato svet, da cui emergono le figure.

Ma se in Giotto la luce interna sembra mancare per via dell’assenza del fondo oro, dello svet che è la luce, questa è come recuperata dalla Dean, che è forse più bizantina di Giotto.

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Tacita Dean, Buon Fresco, 2014, Rovereto.

Florenskij sottolinea che “la tecnica e i procedimenti della pittura di icone sono tali che quanto essa raffigura non può essere inteso se non come prodotto dalla luce”, ovvero “la pittura di icone raffigura le cose come prodotte dalla luce, e non come illuminate da una sorgente di luce”.

La Dean, non tanto nella illuminazione piatta e senza alcuna ombreggiatura delle sue inquadrature, ma ancor più radicalmente – ontologicamente sarebbe da dire – sceglie la luce come materia per l’immagine, di cui è materialmente composta l’immagine. Ne fa la materia attraverso cui si ha l’impressione su pellicola, e così segna la pellicola, ne fa muro e la incide nella reazione dei sali d’argento: la materia è la luce. In questa rimediazione, la Dean, è come se riponesse gli affreschi di Giotto nel solco della pittura di icone, dove la luce è letteralmente interna ad esse ed è ciò da cui tutto deriva, ristabilendo l’evidenza che la luce è la materia del reale e forma ciò che è santo, tornando a un tecnica che come quella dell’icona serve a dire che “quale radice della realtà spirituale di ciò che è stato raffigurato, non si può non vedere l’immagine luminifera sovramondana, il sembiante luminoso, l’idea”.

In copertina, Tacita Dean, Buon Fresco, 2014, Rovereto.

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