Tarantino, autoritratto da spettatore

27 Aprile 2023

Racconta Quentin Tarantino nel suo Cinema Speculation (traduzione di Alberto Pezzotta, La nave di Teseo 2023) che una volta, da ragazzino, andò al cinema con Floyd, un tizio che aveva affittato una stanza a casa di sua madre, a vedere Quel motel vicino alla palude, un horror "laido" che mischiava paura e sesso. Nella prima scena dopo i titoli di testa il protagonista pronuncia questa frase, rivolto a una donna: "My name is Buck, and I'm here to fuck". "Floyd si girò verso di me e mi chiese incredulo: 'Cos'ha detto?'". Furono colti da un attacco di ridarella: la rima Buck/fuck li fece sganasciare per i primi venti minuti ("che erano la parte più seria del film") e praticamente non riuscirono a smettere, tra vani tentativi di ricomporsi e concentrarsi sulla storia, ogni volta che Buck compariva sullo schermo. "Non volevamo fare gli scemi, ma era più forte di noi. Di conseguenza, più che il film ci piacque il fatto di averlo visto". 

I film che Quentin Tarantino ha visto da bambino, quando sua madre lo lasciava il sabato e la domenica nei cinema di Los Angeles dove si proiettavano due pellicole in abbinata e tornava a riprenderlo dopo quattro o cinque ore, sono tutti nel prezioso "Indice dei film" che, insieme all'accurato "Indice dei nomi" chiude questo strepitoso volume. I libri scritti dai registi sono affascinanti per svariate ragioni: La lanterna magica di Ingmar Bergman (1987), per esempio, perché parla di lui; Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut (1966) perché è il tributo a un genio (ma Tarantino disapprova "i goffi tentativi dei tanto elogiati hommages al cinema di Hitchcock da parte di registi della Nouvelle Vague, in particolare Truffaut e Chabrol"); A proposito di niente di Woody Allen (2020) perché rivela un uomo disincantato e ferito; Stanley Kubrick e me di Emilio D'Alessandro (2012), perché il grande regista emerge dai racconti inaspettati del suo autista; Cinema Speculation perché parla di film.

"Un atto d'amore verso il cinema" attraverso il lungo elenco di schifezze che una madre un po' svagata faceva vedere a suo figlio (per fortuna, con il senno di poi), portandolo con sé al cinema o parcheggiandolo in sale che si chiamavano Tiffany, Carson Twin, Orpheum, Million Dollar Theatre e facendone prima un ragazzino che ai suoi compagni sembrava "molto sofisticato" e poi un "cinefilo saputello e presuntuoso" ("Dopo essere diventato un professionista non ho mai lasciato che nessuno mi dicesse quello che non dovevo fare") che sa riconoscere il bello e il brutto, il kitsch e il camp ma che resterà per sempre legato a quella stagione irripetibile in cui era meraviglioso vedere qualunque tipo di film: il più delle volte senza capire fino in fondo cosa stava accadendo, ma spalancando gli occhi davanti al sangue che schizzava "a ralenti" nella Casa dei vampiri, o elaborando nella sua mente acerba lo stupro di Un tranquillo week end di paura in un atto di bullismo e di sopraffazione, come quelli che capitava di vedere "a qualunque ragazzino che giocasse nel cortile di una scuola". 

Chi ha frequentato in Italia le critiche di Roberto Silvestri e Mariuccia Ciotta sul quotidiano Il manifesto, dagli anni '80 in poi, non si stupirà se uno dei registi più citati da Quentin Tarantino sia Mario Bava, insieme a Dario Argento (il suo Uccello dalle piume di cristallo sarà un successo in America, tanto da ispirare, secondo Tarantino, alcune scelte stilistiche di Brian de Palma): i cosiddetti B-movie vennero sdoganati dai due brillanti critici, che proposero un punto di vista differente nell'analizzare questi prodotti del mercato, realizzati spesso con professionalità nonostante i budget ridotti, dopo che Susan Sontag, nel 1964, aveva pubblicato le sue Note sul Camp, rivelando che il cattivo gusto, quando è "consapevole" può diventare "una sensibilità inconfondibilmente moderna, una variante della ricercatezza". Ed ecco che i film di Bava, Argento, i western di Sergio Corbucci diventano "cult" e finiscono in tv a Fuori orario, le scelte cinematografiche notturne ed eccentriche di Enrico Ghezzi su Rai Tre ed entrano nei must di Quentin Tarantino.

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In Cinema Speculation c'è un irresistibile capitolo dedicato proprio alla critica cinematografica: "A quanto pareva, la maggior parte di coloro che scrivevano per giornali e periodici si riteneva superiore ai film che recensiva (...). Guardavano dall'alto in basso film che davano delle emozioni e registi che, al contrario di loro, capivano che cosa voleva il pubblico". Scrivevano come qualcuno che odia la propria vita o il proprio lavoro, dice Tarantino: "per due decenni, in modo quasi ridicolo, il Los Angeles Times - ossia il quotidiano dell'industria cinematografica - assoldò dei buffoni come titolari della critica". C'era il "leccaculo prezzolato" Charles Champlin, che recensiva film come avrebbe venduto auto usate; Sheila Benson: "più che recensioni le sue sembravano relazioni di una casalinga sui libri che aveva letto al corso serale di letteratura americana"; "quel trombone sovrappeso di James Bacon" che, nella sua rubrica che appariva su più testate, magnificava film dove gli avevano dato "una particina" perché, all'epoca, "c'era una specie di regola: se riuscivi a piazzare il culone di James Bacon nel tuo film, era certo che ne parlasse bene", fino a Kenny Turan, "un vero critico, ma un critico che non ti faceva venire voglia di leggerlo" e che "fu l'unico a parlare male di Pulp Fiction, ma la sua recensione andava oltre la stroncatura di un film che non gli era piaciuto: aveva un secondo fine. Quello di controbattere ai peana del New York Times e di Variety". 

Tarantino ha una conoscenza sterminata dei B-movies che lo hanno nutrito da piccolo e, se li privilegia nel racconto di Cinema Speculation, non vuol dire che non conosca l'"altro" cinema, quello di Woody Allen, Coppola, Cassavetes, Scorsese, Antonioni, Fellini, Fassbinder e del suo idolo Sergio Leone. Gli spettatori che non abitavano a New York o a Los Angeles e non leggevano il New York Times, il New Yorker o il Village Voice non capivano perché - sostiene Tarantino - dovessero sottoporsi alla visione di film deprimenti, o noiosi, o problematici: nel libro c'è un capitolo dedicato alla New Hollywood degli anni '70, che sfornava film "sull'insensatezza e la tragica ironia della vita americana". Film per spettatori "cui piacevano Jack Nicholson, Elliot Gould e Dustin Hoffman. Quelli a cui piacevano Burt Reynolds e Charles Bronson non la pensavano così". Quei registi hippie, che scimmiottavano i colleghi europei e finivano per confezionare apologhi moraleggianti, come Paul Schrader (il mitico sceneggiatore di Taxi Driver) in Hardcore o American gigolo, non capivano, o non volevano capire, che c'era gente a cui piacevano i film sulle formiche giganti e "che prendeva sul serio Assalto alla terra". 

Si arriva alla fine di questo libro conoscendo in profondità il Tarantino regista anche se, nelle quattrocentoventi pagine, non mette mai in mostra il proprio io, preferendo darci un'immagine nitida di sé attraverso il lungo elenco dei film che ha visto, soprattutto da ragazzo, raccontandoli e ammirandoli tutti per varie e differenti ragioni, perché un film è fatto di attori, montaggio, colonna sonora, titoli di testa e di coda. E amando ancora di più le novità nella scrittura e nelle regie dei suoi film, che non annoiano mai, dalla parte dello spettatore, sempre, e dove non manca mai un "eroe": una lezione reiterata da Pulp Fiction a Bastardi senza gloria, a Kill Bill, a The Hateful Eight, a C'era una volta a...Hollywood su come si può essere un regista "antisistema", pur nella devozione al mainstream, e continuando ad essere affascinato dal cinema-cinema, quella tautologia che sposta un'opera su un altro piano del pensiero (trasformando la spazzatura in una forma d'arte, direbbe lui) da godersi "in sale buie piene di sconosciuti".

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