Teatro Akropolis
L’opportunità è all’orizzonte degli eventi. Intuire nei ciottoli una strada, nei cancelli una breccia, nell’abbandono l’innesco di un inizio. Ciò che sarà è già in ciò che è. Ma il giorno nuovo arriva e cresce e prospera per chi sa avere gli occhi aperti e le mani libere, per gli altri passa e niente più, lasciando dietro di sé solo condizionali dell’irrealtà. Il futuro è qualcosa che si può costruire, altrimenti non è futuro, è recriminazione. Così, almeno, lo vivono Clemente Tafuri e David Beronio del genovese Teatro Akropolis rispetto all’arte della scena, come un processo, un passaggio di stato che indaga le possibilità e i motivi stessi del fare (teatro). Artistico è l’atto di ricerca, sia per chi crea sia per chi guarda. “Mi sento a disagio quando uno spettacolo diventa la cosa più importante – riflette Tafuri. – Come si può pensare che sia tutto lì? È evidente che le cose rilevanti sono altrove e sono convinto che faccia parte della responsabilità dell’artista dire dove sono”.
Villa Rossi Martini
Akropolis ha generato un ecosistema di indagine proprio per raggiungere questo ‘altrove’: un festival giunto quest’anno alla VI edizione, Testimonianze ricerca azioni, visioni, momenti teorici e possibilità di pratica teatrale; la casa editrice AkropolisLibri che pubblica ogni anno il volume Teatro Akropolis – Testimonianze ricerca azioni per fornire un apparato critico al lavoro delle compagnie ospiti al festival e per stabilire un confronto tangibile sulle forme artistiche contemporanee; la cura delle opere teatrali e filosofiche inedite di Alessandro Fersen, drammaturgo, attore e regista dal lungo sodalizio anche con Emanuele Luzzati; Genius loci, il progetto a sostegno delle residenze creative dei gruppi più giovani, alcuni dei quali verranno inseriti nell’edizione 2016 del festival: tra le ‘aule’ deputate, la villa nobiliare Rossi Martini (XVII secolo). Un ex istituto scolastico chiuso agli inizi del Duemila, che Veronica Righetti, responsabile delle relazioni esterne di Teatro Akropolis, ci apre in ogni suo lucchetto, serranda, porta o finestra. L’aria che entra è quella di una domenica sera d’aprile, riflessa nelle luci operose del porto di Genova. Il teatro impara dai battiti della vita che lo circonda. Li impara e costudisce. “Comunque uno spettacolo ha una sua autonomia – interviene David Beronio, – deve poter comunicare di per sé, deve emozionare. Chi poi vuole approfondirne alcuni aspetti può allargare lo sguardo e andare a esaminare le altre parti del nostro progetto”.
Autori, scrittori e registi, entrambi poco più che quarantenni, Clemente Tafuri e David Beronio, l’uno di Genova, l’altro di Chiavari, conducono dal 2001 con la compagnia Teatro Akropolis una ricerca sulla recitazione in chiave fisico-espressiva, fondata sullo studio dell’origine del teatro e sulla natura del coro tragico anteriore alla definizione di personaggio. L’ultimo esito è Morte di Zarathustra, un libro, un percorso di studio per un gruppo di attori e uno spettacolo in prima nazionale a Testimonianze ricerca azioni (sabato 9 maggio sarà a Modena al Festival Trasparenze – Atelier della scena contemporanea), che porta sul piano teatrale il risultato di un lungo periodo di analisi, ispirato a Nietzsche, sulla nascita della tragedia, sull’azione e le sue potenzialità conoscitive.
Il luogo che racchiude lo spettacolo è in un quartiere periferico del capoluogo ligure, Sestri Ponente, che, nel tempo, è diventato un presidio di volontà culturali capaci di incidere anche sul centro, per scelte, prospettive, impegno. Si chiama come la compagnia, Teatro Akropolis, ed è stato ricavato dalla palestra di una scuola nel marzo 2010, grazie all’impegno del Municipio VI Medio Ponente, del Comune di Genova e della compagnia stessa. Ancora una volta, scuola e teatro hanno il medesimo passo, si riconoscono e si alimentano a vicenda. Imparare a fare e poi farlo sul serio, non dire di fare e poi restare a guardare. Tafuri e Beronio, ad esempio, staccano anche i biglietti all’ingresso: non perché manchino le maschere, ma perché si sentono responsabili di Akropolis e vogliono dimostrarlo a ogni spettatore, ancora prima di varcare la soglia del teatro. Responsabilità è consapevolezza della qualità dei propri gesti. Arcate in legno uniscono il nero delle pareti, sembrano giunture, cartilagini, l’effetto è da ventre della balena di Pinocchio. Lo spazio vuoto di un abisso sacrale completamente modulabile nell’armonia degli opposti: tutto il calpestabile, all’occorrenza, è palcoscenico, la platea si può ribaltare nella scena, e viceversa. Di fronte a noi solo un tavolo che ha la consistenza e la freddezza di un altare e un fondale scuro.
Teatro Akropolis
Teatro sacrificio canto e danza
Morte di Zarathustra accerchia gli albori della vita nel buio della carne. Nello scuro più oscuro lampeggiano alcune spie, occhi che fendono la nostra attesa, rendendo nerissimo il già nero. Non siamo soli, ma non riusciamo a capire chi c’è là, non vediamo, ma siamo visti. Poi rantoli di animale e uomo insieme, e la musica paranoica di Varg Vikernes, industrial/dark sintetizzata nel gotico più artificiale. L’immagine che si definisce su quello schermo di tenebra ci è offerta come la paura di un sacrificio o la fuga da esso. Qualcosa che sentiamo intimamente nostro. Salgono le luci e dalla penombra affiorano gli attori in cerchio, Luca Donatiello, Francesca Melis, Alessandro Romi, Felice Siciliano. Romi è accovacciato, gli altri tre in piedi. Cerca uno spazio che sia suo fuori di sé, sbatte la testa per terra come a voler far esplodere sia la testa che la Terra. È il macigno lanciato nello stagno della totale assenza di partecipazione dei compagni: una forza ancestrale, primitiva, si impadronisce per ossessive spire concentriche di Donatiello, Melis e Siciliano. Divampa allora la lotta di sessi e bocche e lingue, scontri sconci e perbene, lascivi e morigerati, come le lucciole appoggiate agli angoli a luci rosse, accese anche di giorno, dei carruggi non lontani da via del Campo.
Morte di Zarathustra
Nei corpi (peraltro sempre vestiti), scenografia, paesaggio di violenza deformante, si costituiscono le immagini e nel loro movimento si sgretolano. Non parlano le parole, parlano i muscoli, in grado di attingere a una conoscenza che neppure il poeta o il filosofo possono far propria del tutto. Così, le figure che si avvicendano familiari ed estranee a un tempo non fanno appello alla nostra memoria privata, ma al fondo condiviso della coscienza di ognuno, cioè al mito, presentato in Morte di Zarathustra nella sua natura più essenziale: l’azione, un balenio che subito svanisce e libera lo spazio per la musica e il rumore, la luce e l’ombra. Si scorge qui in atto quanto David Beronio scrive a proposito di “Gioco e sapere” nel suo contributo a Teatro Akropolis – Testimonianze ricerca azioni 2015 (AkropolisLibri): “Ogni attore sia testimone dell’azione di tutti e al tempo stesso tutti siano anche autori delle forme che sorgono dal gioco. […] Il corpo riprenda il proprio ruolo fondamentale nello sviluppo del gioco che da esso prende forza. Un teatro che sia al tempo stesso sacrificio, canto e danza”.
Al culmine di questa competizione fisica e mentale sulla soglia della Grecia arcaica e del coro ditirambico, si manifesta la parola di Zarathustra per voce dell’unica donna del gruppo, Francesca Melis. I corpi, però, a questo punto hanno già detto tutto quello che c’era da dire. Le frasi prendono quindi la consistenza lieve del respiro di un sogno che non ci vede lottare al suo fianco. Sono umane, troppo umane. Un inciampo cui segue quello dell’estrema brevità (appena 40 minuti, più da studio che da spettacolo fatto e finito) che rende difficile la distribuzione, se non in contesti ‘protetti’ come i festival, di un’esplorazione altrimenti condotta con vitalità, inventiva e senso sulla dis-misura delle capacità attorali in quella galassia conoscitiva che è Teatro Akropolis.
φύσις κρύπtεσθαι φιλεῖ, “la natura (delle cose) ama nascondersi”, diceva Eraclito e dicono, bianco su nero, le borse di tela in vendita all’uscita. In definitiva, Akropolis è la traccia, l’occasione, lo strumento “per addentrarsi il più possibile nei processi di ricerca degli artisti – scrivono Clemente Tafuri e David Beronio – vivere le loro pratiche, frequentare i loro saperi. […] A prescindere dai gusti. A prescindere dai finanziamenti. […] A prescindere dalla propria storia personale. Che ha tra l’altro valore solo quando, e se, è utile a mettere in discussione le cose che ci sono”. Non un pensiero, ma un agire che prima deve essere compreso e poi praticato. Il racconto del mondo da portare nel mondo.