Speciale

Ti scrivo. Tutti volevamo essere Pasolini

13 Dicembre 2015

Caro Pasolini,

il 3 novembre 1975 a Pordenone era una splendida mattina. Me lo ricordo perché ero in maglietta e jeans. Mi guardavo il viso allo specchio del bagno. Ricordo tutte le cose nitide e scintillanti, il verde del prato che intuivo affacciarsi alla finestra, il legno degli infissi luccicante, le voci che mi arrivavano dalla cucina.

Gianbattista Marongiu era passato a trovarci, per discutere del prossimo volantino che avremmo dato alla Zanussi, scambiandoci i turni di distribuzione. Chi si era alzato per il turno delle 4, questa volta sarebbe andato alla Porta Nord a mezzogiorno. Ogni volantino veniva discusso prima, confrontato con le considerazioni e le informazioni degli operai che conoscevamo dentro la fabbrica e dalle avanguardie organizzate in comitato con cui si cercava di tessere rapporti mai davvero decollati.

Ascoltavo e mi dicevo che dovevo imparare il più velocemente possibile tutto quello che loro, i compagni che stavano parlando in cucina, sapevano. Come un ladro dovevo rubare tutto, pensavo, pensando a come si pensa. E molto ‘opportunisticamente’ pensavo che se avessi resistito in mezzo ai più intelligenti, arroganti e maschilisti allora sarei riuscita a trovare la chiave per poter cavarmela con chiunque e dovunque.

E poi avevo un pensiero buffo. Perché io, quella volta, pensavo che se avessi derubato un sapiente del suo sapere, sarei arrivata alla meta senza fare fatica (noiossima scuola, studi approfonditi, ecc.) e – cosa più importante – avrei potuto tenermi una zona libera, direi riservata, dove potevo fare quel che più mi piaceva. Cioè leggere romanzi e altre attività frivole, come stavo facendo il 3 novembre verso le 10 del mattino. Con l’indice seguivo un piccolo segno comparso sulla mia faccia, nell’angolo sinistro della bocca. Quando sorridevo, compariva una piccola ruga, una perfetta parentesi che quando smettevo di sorridere invece di scomparire e rientrare nella superfice soffice della pelle, persisteva come un graffietto fatto da un sottile pennino. Avevo diciotto anni e un obliquo pensiero cercava di tenere sotto controllo quella mia anima nera, che sottile e bidimensionale, sgusciava fra le altre me, appena trovava una faglia.

La coda dell’occhio che vede la fine e comincia a sottrarre alla conta una tacca. Quanti saranno i segni graffiati sopportabili? Quando si sarebbe passati di là?

Di per sé quel piccolo segno sul mio viso era insopportabile, tremendo, inevitabile, temporale. Stava intaccando la mia potenza, il mondo mi intaccava. Non ero più rotonda, levigata, in me. Non potevo sopportare il pensiero consolatorio, riformista, triste di accettare di essere rosicchiati a pezzetti, gradualmente, in fila, un pezzetto alla volta. Morire a piccole dosi.

Però sapevo governarlo, questo brutto pensiero temporale. Riuscivo a saltellare fra due trattini e un punto. Io ero nel punto. Dietro un tratto che si perdeva nel buio. Davanti un precipitare nel buio. E siccome ero un punto anche a destra e sinistra precipitavo.

Saltellavo sul punto, su un punto del tempo, e sapevo che sarei riuscita a pattinare. Più bello stare in equilibrio nel punto che deragliare nel tempo.

 

Il 3 novembre 1975 Giambattista sicuramente ha portato con sé Il Corriere della Sera e altri giornali e leggendoli commentava a voce alta la tua morte.

È stato così che dal bagno ho ascoltato quello che a tutti gli effetti è stato il mio privato sermone in occasione della tua morte. Giambattista, dicendo parole che non gli erano consuete, senza sarcasmo, senza alcuna lubricità raccontò la tua vita corsara e notturna. Il ritorno eroico sulla stessa scena. Cercare di nuovo, e di nuovo, e di nuovo, l’attimo perfetto del desiderio. Cercare l’estasi. Stare fra il prima e il dopo, il bianco e il nero. Per Giambattista, non era importante, quel che avevi detto e scritto ogni giorno contro di noi, senza capire niente di noi, ma quel che la tua vita aveva contraddetto ogni sera. La politica del desiderio contro la politica del dovere e del dover essere!

Adesso so che noi, noi di quegli anni, noi che saremmo stati la generazione del ‘77 eravamo l’attimo perfetto. Volevamo con perfetta innocenza stare lì in equilibrio, sulle punte dei nostri piselli, sulle bocche delle nostre vagine in una texture complessa e ramificata.

In quell’ammasso di cera molle che mi componeva, questa è l’impronta che mi hai lasciato.

Per questo non sopporto i tuoi seguaci dolenti e austeri. I predicatori millenaristi. Tutte quelle foto pompose e pensose che, però, evidentemente hai acconsentito a farti fare.

 

Invece, caro Pasolini, mi piace molto, l’effetto straniante che riuscivi, e riesci ancora, a creare mescolando piani di ragionamento, categorie che attengono a discorsi diversi, facendoli calzare su immagini vivide.

A Gennariello il tuo interlocutore immaginario delle Lettere luterane racconti e spieghi che i capelli lunghi sono orribili, schifosi, a differenza della nuca rasata e il ciuffo. Questa cosa così personale, che attiene alla tua sfera più intima, in definitiva alle tue preferenze e fissazioni erogene ed estetiche, la trasformi in un vero e proprio discorso politico (cioè trasporti su un altro pianeta in modo arbitrario un linguaggio che appartiene a un altro genere di discorso). Questo procedimento insolito del ragionamento indica e mi dice che lì si annida qualcosa di importante, di espansivo.

Stai dicendo, nello stesso tempo, una cazzata personale: ripeti al mondo che prediligi i capelli corti (e ti disperi che tutti non abbiano i capelli corti) e contemporaneamente stai abbattendo i confini fra ordini di discorsi diversi; come hanno fatto le donne con il privato politico, come hanno fatto gli operai attraversando i muri della fabbrica e i confini fra il tempo del lavoro e quello della vita. Tutti i corpi hanno voluto parlare e scavalcare, tutti abbiamo voluto essere Pasolini.

Però, caro Pasolini, qui ti fermi. Scavalchi i confini, mescoli il personale, il politico, l’antropologico. Ma non vuoi che lo facciano gli altri, non ti sei sciolto nell’abbraccio e non ti sei voluto far fecondare.

Questo tuo operare poetico se n’è andato a braccetto con il PCI e con l’ordine rassicurante.

 

Quanto a Giambattista Marongiu, così legato alla sua Sardegna, l’isola senza mare, era un operaista anomalo e sosteneva che gli operai (fossero italiani, russi, spagnoli, o altro) avevano attitudini sovversive perché rifiutavano il disciplinamento e la gerarchia della fabbrica perché avevano l’esperienza della comunità contadina a cui erano legati e non volevano rinunciare.

Nei tanti articoli scritti per Liberation in una Francia in cui è stato un esule politico, nella quale il suo corpo ha dovuto reimparare a vivere, e dove è morto nel 2014, moltissimi sono quelli dedicati alla Sardegna, alla sua letteratura, alla sua aura rurale e comunitaria che forse l’avvicinava un po’ al Friuli che tanto hai amato e odiato.

 

 

Questo testo fa parte del contributo che doppiozero ha scelto di realizzare, articolato in tre parti - interviste, poesie, lettere - in occasione delle celebrazioni promosse dal Comune di Bologna, dalla Fondazione Cineteca di Bologna, e all’interno del progetto speciale per il quarantennale della morte, che si articola in un vasto e ricco programma d’iniziative nella città dove Pasolini è nato e ha studiato.

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