Tre domande a Maria Pace Ottieri

29 Febbraio 2012

Giunge oggi alla seconda tappa Italia piccola, il ciclo di incontri sulla realtà italiana organizzato dalla Libreria Utopia di Milano in collaborazione con doppiozero.

Racconteremo luoghi e situazioni degli italiani di ieri e di oggi: l’Italia minore, quella che non ha spazio sui media se non quando accadono catastrofi naturali o tragedie, e gli italiani, diventati un popolo attraverso le vicende unitarie, le migrazioni, le trasformazioni del boom.

 

Oggi alle 18.30 Luca Scarlini incontra Maria Pace Ottieri, che in Chiusi dentro (Nottetempo) mescola storie, leggende, ritratti e memoria per comporre un ritratto della cittadina toscana da cui proviene la famiglia del padre, lo scrittore Ottiero Ottieri.

Le abbiamo rivolto queste tre domande.

 


 

Perché Chiusi? Da quanto tempo “covavi” questo libro e perché sei arrivata a scriverlo?

 

Ci sono libri che si scavano una galleria da soli, per conto loro e a un certo punto emergono in superficie, uno non sa di covarli, lo realizza quando sono già maturi. Così è stato per Chiusi. Dopo anni di matrimonio combinato, senza innamoramento, il mio rapporto con la casa avita della mia famiglia paterna e quel paese, è diventato senza che me ne accorgessi un rapporto importante, di dipendenza reciproca e con l’amore, si sa viene la curiosità, l’interesse per l’altro, il desiderio che si racconti. Abbandonata dal resto della famiglia a tener vivo un luogo inesorabilmente votato al declino, senza interlocutori, ho cominciato a raccontare alla pagina quello che trovavo, quello che ricostruivo, quello che mi inventavo per far risuonare la casa di voci e il libro si è scritto da solo.

 

 

Il libro tocca alcuni temi a te cari: le migrazioni, le memorie familiari, le storie degli individui. Come sono entrati nel libro?

 

In modo naturale, oggi non c’è più una differenza abissale tra la provincia e la città, il centro e i margini, si trovano gli stessi elementi ovunque, quello che cambia sono le relazioni, i dosaggi, l’importanza di questo o quell’elemento. Uno dei giochi alle spalle del libro era poi proprio quello di trattare il microcosmo della casa e del paese come fosse una terra sconosciuta da esplorare, allenare lo sguardo a cogliere indizi e segnali come tante volte ho fatto nelle città o durante lunghi soggiorni in paesi lontani per poi tirare i fili di quei luoghi. Guardare così vicino era anche una sfida a me stessa, ho sempre guardato all’altrove come fonte d’ispirazione.

 

 

So che il libro è stato presentato a Chiusi. Come è stato accolto?

 

Con eccitata diffidenza, con un moto di “ma come si permette questa forestiera di parlare di noi, di definirci, che cosa ne sa?” Piano piano con lentezza, man mano che si spargeva la voce dell’uscita del libro, anche le due cartolibrerie ne ordinavano timidamente qualche copia e non solo la più accorta libreria. Ho ottimi rapporti col Comune del paese e così la presentazione è stata fatta nel teatro, a cura di Filippo Bologna, un giovane scrittore di un paese affine, ma a una quindicina di chilometri che aveva capito il libro molto bene. La gente si è divertita, ha fatto le consuete domande comizio, alcuni sono stati felicemente sorpresi di ritrovarsi nel libro, è stato un piccolo brivido nel sonnolento inverno del paese.

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