Tre domande a Paolo Di Stefano

15 Marzo 2012

Giunge oggi alla terza tappa Italia piccola, il ciclo di incontri sulla realtà italiana organizzato dalla Libreria Utopia di Milano in collaborazione con doppiozero.

 

Abbiamo voluto raccontare luoghi e situazioni degli italiani di ieri e di oggi: l’Italia minore, quella che non ha spazio sui media se non quando accadono catastrofi naturali o tragedie, e gli italiani, diventati un popolo attraverso le vicende unitarie, le migrazioni, le trasformazioni del boom.

 

Oggi alle 18.30 Lucio Morawetz incontra Paolo Di Stefano, che nel suo libro La catastròfa (Sellerio), ha ricostruito il disastro di Marcinelle dell’8 agosto 1956, con partecipazione emotiva e pietas storica, tessendo un racconto polifonico di una grande tragedia nazionale.

 

Noi abbiamo rivolto all’autore queste tre domande.

 



Marcinelle è una delle tappe dolorose della storia repubblicana, ma non ha, mi pare, una bibliografia sterminata. Da cosa parte l’idea di farne un libro?

Ero stato nel 2006 a Marcinelle per il Corriere della Sera al seguito del Giro d’Italia che quell’anno partiva da Charleroi in ricordo del cinquantenario della catastrofe. In piazza fui inondato dalle voci di vecchi minatori e vedove che volevano raccontarmi la loro storia, mostrami le ferite ancora vive a distanza di tanti anni. Veramente volevano raccontarla agli italiani, che non ne sapevano nulla. Mi sono accorto ben presto che la tragedia dell’8 agosto 1956 non era mai stata scritta e ricostruita nella sua totalità. Dunque, dopo qualche anno ho voluto ritornare sui miei passi, sono tornato a Marcinelle e ho viaggiato per l’Italia per cercare i sopravvissuti, i testimoni diretti dell’emigrazione mineraria in Belgio, una pagina oscura della nostra memoria collettiva. Ho ascoltato molti anziani minatori che avevano lavorato al Bois du Cazier, le donne rimaste sole, i figli, che mi hanno raccontato la vita quotidiana, le condizioni di lavoro, l’incidente di quella mattina. Sono andato alla ricerca anche degli atti processuali. Volevo costruire una specie di romanzo corale attraverso le voci dei testimoni per fare giustizia di una strage dimenticata che ha molti colpevoli.


Quale è stato il metodo di lavoro? Che lingua hai scelto per trascrivere le testimonianze orali e montarle con le fonti dell’epoca?

Una volta raccolte le testimonianze in Belgio e in Italia, le ho trascritte, cercando di rimanere il più fedele possibile al tono di quelle voci: cercando di restituirne i tratti essenziali sul piano sonoro, sintattico, lessicale. Già questa polifonia, attraverso le coloriture dei vari linguaggi (tra italiano, francese, dialetti vari), dava il senso epico della tragedia, ma dava conto delle rabbie, dei risentimenti, dei vuoti, dello spaesamento che ciascuno aveva maturato nella lontananza dal proprio paese. Il secondo livello, è quello delle fonti, che attraverso soprattutto gli atti processuali ricostruiscono la dinamica degli eventi e le condizioni di lavoro a mille metri sotto terra. La cornice del romanzo è il mio viaggio nei diversi luoghi e cerca di ricostruire gli ambienti e le facce di oggi. Dunque, si tratta di tre livelli narrativi che si alternano.


Che italiani hai trovato in Belgio? Quale è il loro sentimento verso il nostro paese?

Gli italiani rimasti in Belgio vivono ancora oggi con risentimento l’abbandono e la dimenticanza del proprio paese. Sono passati oltre cinquant’anni, ma per loro è come se fossero passati pochi giorni dall’8 agosto 1956. Le autorità italiane non si fecero vive all’indomani della tragedia. Le promesse fatte (tutele, risarcimenti eccetera) non furono mai soddisfatte. La vuota retorica politica che si manifesta in occasione delle varie celebrazioni aumenta la rabbia. Molti lavoratori avrebbero saputo solo dopo che erano stati mandati in Belgio grazie a un accordo intergovernativo che prevedeva lo scambio uomo-carbone: per ogni minatore inviato in Belgio sarebbero arrivate in Italia tra le 2.5 e le 5 tonnellate al mese di carbone. Dicono: “Noi abbiamo ricostruito l’Italia dopo la guerra, siamo stati mandati a morire in terra straniera e nessuno ce l’ha mai riconosciuto”. Eppure, nonostante la rabbia, l’incredulità e il rancore, mantengono un legame di profondo amore e nostalgia per la Patria.

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