Verga / I Malavoglia

11 Luglio 2011

Una pagina di grande letteratura, è risaputo, può essere più efficace di un saggio ponderoso. A proposito del sentimento di estraneità, se non di rifiuto, che i nuovi italiani ebbero verso il nuovo stato nazionale, bastava riguardarsi il capitolo IX dei Malavoglia; è tutto lì il sugo: la terza guerra d’indipendenza, la notizia della disfatta di Lissa e della morte di Luca, arruolato con la leva obbligatoria, subitaneo dono della neonata Patria unita alle masse popolari, e imbarcato su una nave che si chiamava Re d’Italia (in un conflitto, è bene ricordarlo, che la nazione avrebbe potuto evitare, essendo state offerte al governo italiano, in cambio della neutralità, le stesse concessioni che avrebbe ottenuto a guerra finita e ‘vinta’).

 

 

Un giorno dopo cominciò a correre la voce che nel mare verso Trieste ci era stato un combattimento tra i bastimenti nostri e quelli dei nemici, che nessuno sapeva nemmeno chi fossero, ed era morta molta gente; chi raccontava la cosa in un modo e chi in un altro, a pezzi e bocconi, masticando le parole. Le vicine venivano colle mani sotto il grembiule a domandare se comare Maruzza ci avesse il suo Luca laggiù, e stavano a guardarla con tanto d’occhi prima d’andarsene. La povera donna cominciava a star sempre sulla porta, come ogni volta che succedeva una disgrazia, voltando la testa di qua e di là, da un capo all’altro della via, quasi aspettasse più presto del solito il suocero e i ragazzi dal mare. Le vicine le domandavano pure se Luca avesse scritto, o era molto che non riceveva lettera di lui. – Davvero ella non ci aveva pensato alla lettera; e tutta la notte non poté chiudere occhio, e aveva sempre la testa là, nel mare verso Trieste, dov’era successa quella ruina; e vedeva sempre suo figlio, pallido e immobile, che la guardava con certi occhioni sbarrati e lucenti, e diceva sempre di sì, come quando l’avevano mandato a fare il soldato – talché sentiva anche lei una sete, un’arsura da non dirsi. – In mezzo a tutte le storie che correvano pel villaggio, e che erano venuti a raccontarle, le era rimasto in mente di uno di quei marinari, che l’avevano pescato dopo dodici ore, quando stavano per mangiarselo i pescicani, e in mezzo a tutta quell’acqua moriva di sete. Allora la Longa, come pensava a quell’uomo che moriva di sete in mezzo a tutta quell’acqua, non poteva stare dall’andare ad attaccarsi alla brocca, quasi ce l’avesse avuta dentro di sé quell’arsura, e nel buio spalancava gli occhi, dove ci aveva sempre stampato quel cristiano.

 

Coll’andare dei giorni però, nessuno parlava più di quello che era successo; ma come la Longa non vedeva spuntare la lettera, non aveva testa né di lavorare né di stare in casa: era sempre in giro a chiacchierare di porta in porta, quasi andasse cercando quel che voleva sapere. “Avete visto una gatta quando ha perso i suoi gattini?” dicevano le vicine. La lettera non veniva però. Anche padron ‘Ntoni non s’imbarcava più e stava sempre attaccato alle gonnelle della nuora come un cagnolino. Alcuni gli dicevano: “Andate a Catania, che è paese grosso, e qualcosa sapranno dirvi.”

 

Nel paese grosso il povero vecchio si sentiva perso peggio che a trovarsi in mare di notte, e senza sapere dove drizzare il timone. Infine gli fecero la carità di dirgli che andasse dal capitano del porto, giacché le notizie doveva saperle lui. Colà, dopo averlo rimandato per un pezzo da Erode a Pilato, si misero a sfogliare certi libracci e a cercare col dito sulla lista dei morti. Allorché arrivarono ad un nome, la Longa che non aveva ben udito, perché le fischiavano gli orecchi, e ascoltava bianca come quelle cartacce, sdrucciolò pian piano per terra, mezzo morta.

“Son più di quaranta giorni. – conchiuse l’impiegato, chiudendo il registro. – Fu a Lissa ; che non lo sapevate ancora?”

 

La Longa la portarono a casa su di un carro, e fu malata per alcuni giorni. D’allora in poi fu presa di una gran devozione per l’Addolorata che c’è sull’altare della chiesetta, e le pareva che quel corpo lungo e disteso sulle ginocchia della madre, colle costole nere e i ginocchi rossi di sangue, fosse il ritratto del suo Luca, e si sentiva fitte nel cuore tutte quelle spade d’argento che ci aveva la Madonna. Ogni sera le donnicciuole, quando andavano a prendersi la benedizione, e compare Cirino faceva risuonare le chiavi prima di chiudere, la vedevano sempre lì, a quel posto, accasciata sui ginocchi, e la chiamavano anche lei la madre addolorata.

 

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