Speciale
Agenda per il nuovo governo. Pari opportunità
Sarebbe bello stare al mondo con pari opportunità, eppure è quasi impossibile. A differenza di quanto ha scritto Cartesio nel suo Discorso sul metodo, in natura e nella civiltà non c’è pressoché nulla che sia distribuito in maniera perfettamente equa, neppure il “buon senso”. Nasciamo diversi, abitiamo in posti diversi, abbiamo corpi diversi, conti in banca diversi, caratteri incompatibili, pensieri distanti, limiti e sogni che non c’entrano niente l’uno con l’altro: ben poco resta della nostra origine comune e semplice, che sia una famigliola di primati o, ben più indietro, il bosone di Higgs.
Sembrerebbe che solo di fronte al fatto della nascita e della morte siamo in qualche misura perfettamente uguali – ed è con estrema saggezza che Totò ha definito la seconda “a livella”. Per tutte queste ragioni, dunque, il Dipartimento per le pari opportunità – che è piuttosto giovane, essendo stato inventato nel 1996 – ha vita difficile, perché non c’è niente di più complicato che rimediare alla lotteria della fortuna o della natura. E, per di più, farlo senza i soldi. Infatti, si tratta di un ministero senza portafoglio, e quindi non ci si può aspettare da lui la prima cosa che ci si aspetterebbe, ovvero che rimedi a una delle poche disuguaglianze alle quali si può rimediare: dare di più a chi ha troppo poco. Prevedendo, se occorre, un’azione uguale e contraria.
A seconda dell’ottimismo di chi giudica, il Dipartimento per le pari opportunità può sembrare un sogno splendido o una grande ipocrisia. E, in base all’interpretazione, questo lavoro di dare a tutti le stesse chance appare eroico e sterminato, oppure perfettamente inutile: l’immagine più semplice per rappresentarsi il paradosso è quella ormai frusta del tizio che si avvicina al mare per svuotarlo con un solo cucchiaino in mano. Ci sono compiti che richiedono una operatività talmente diffusa e capillare nella società da apparire esagerati. Per convenzione il Dipartimento lavora soprattutto sulle discriminazioni legate ai generi, alla religione, alla razza, alle condizioni sociali e personali, rispecchiando l’articolo 3 della nostra Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Ma un conto è enunciare un principio, un altro decidere come si fa a metterlo in pratica, sempre senza immaginare di cancellare tutto e di ricominciare daccapo, cosa che nessuno in fondo si augura (tantomeno il Ministro delle pari opportunità). D’altra parte, mentre scrivo, sulle televisioni del pianeta vanno in scena le immagini di una splendida bara regale sormontata da una corona di pietre preziose e uno scettro e se, alla fine, li stiamo a guardare, è perché neppure i più intransigenti di noi al momento sono in grado di figurarsi un mondo troppo diverso da così, un mondo senza stratificazioni di bellezza e di potere, senza montagne russe, un mondo tutto in pianura.
1.
Queste vaghe riflessioni preliminari servono solo a dire che se c’è una cosa che il Dipartimento per le pari opportunità dovrebbe fare prima di ogni altra è dissipare la nebbia di scetticismo intorno alla sua esistenza: non c’è niente di più dannoso del pensare che un compito difficile sia impossibile, o peggio inutile, nella vita privata come in quella pubblica. Se uno pensa così, non fa più niente, mentre le scienze (e anche la letteratura) mostrano che per progredire conviene affidarsi al movimento e ai suoi errori, ma da qualche parte incominciare. Per infondere fiducia nel suo compito, il Dipartimento farebbe bene ad allearsi con il Ministero dell’educazione.
È noto che se non si vuole azzerare con violenza la civiltà, ma riformarla, ci vuole tempo e il tempo passa da chi ha più tempo davanti, quindi i giovani. Ci vorrebbe un’ora alla settimana di Complessità, per tutti, grandi e piccini: andrebbe erogata gratuitamente nelle scuole di ogni ordine e grado. Si potrebbe obiettare che ciascuno fa esperienza della complessità e che insegnarla non serve, ma invece io credo che la complessità non si spieghi da sola e che passi soprattutto per una educazione etica e bioetica. Che cosa è giusto fare nelle situazioni in cui i valori in gioco sono diversi e contrastanti tra loro?
La pluralità dei valori cara a Max Weber è uno scenario in cui ci si trova costantemente, ma “ci si trova” appunto, buttati nella mischia, con poco tempo per decidere quale strada imboccare, senza la possibilità di riflettere e di pensarci su, senza una guida. L’educazione alla Complessità sarebbe un presupposto fondamentale per dimostrare ai cittadini, fin da piccoli, che quello che è difficile da risolvere non è impossibile. Senza pensare questo, senza averlo visto sulla propria pelle o dentro il proprio linguaggio, la stessa espressione “pari opportunità” fa abbastanza ridere.
2.
Una volta che abbiamo stabilito che le donne, per esempio, non vanno discriminate (cioè non possono essere pagate meno degli uomini, non vanno escluse dai posti di responsabilità, non devono essere considerate diversamente abili rispetto ai loro colleghi maschi) e sulla carta siamo tutti d’accordo, com’è che lo facciamo diventare vero? Le leggi, i provvedimenti e i metodi rappresentano sempre una semplificazione necessaria rispetto alla complessità del mondo. Prendiamo, per esempio, le quote rosa. Chiunque si sia trovato a organizzare un festival sa quanto è difficile mettere su un palinsesto che sia interessante e giusto, sforzandosi di rispettare la logica delle quote rosa: perché? Perché ne derivano alcune forzature.
Gli organizzatori più saggi alzeranno gli occhi al cielo se li si costringe a usare il pallottoliere, per decidere in quali percentuali rappresentare chi. E le donne invitate si domanderanno se sono lì per i loro meriti oppure per il solo fatto di essere donne. Ma d’altronde è necessario usare questo metodo, perché per molto tempo la nostra società – che è patriarcale – ha scoraggiato in vari modi anche inconsci la carriera delle donne. È necessario finché non si trova un altro metodo.
E un altro metodo potrebbe essere quello di non pensare a una minoranza alla volta, a una vittima alla volta, ma di ribaltare completamente il problema: qualsiasi sistema biologico è arricchito a dismisura dalla cosiddetta biodiversità, dal numero di specie diverse che lo popolano. Si tratta di convertire un problema morale in un problema estetico, funzionale, di composizione e di efficacia. Tutelare una sola specie vivente ci crea l’impressione istintiva di una contro-ingiustizia, l’idea di rappresentare tutti invece no. Piuttosto che rosa, le quote dovrebbero essere anche rosse, verdi, gialle e così via. Una maggiore diversità è una garanzia di successo, nella foresta come dentro un padiglione o su una piazza pubblica.
Nel frattempo, però, rosa è molto meglio che niente.
3.
Robert Hughes ha scritto un libro molto bello che si intitola La cultura del piagnisteo. Nel saggio si analizza il ruolo pubblico della vittima nella società americana e non solo. La diffusione della televisione (ma lo stesso discorso potrebbe valere tranquillamente per i social network) ha fatto sì che ciascuno di noi spettatori si scoprisse interessato a sentire storie infelici, disperate, lacrimevoli. La galleria delle vittime è sterminata, c’è l’imbarazzo della scelta, ma il punto è sempre lo stesso: si è venuto a creare un sistema corrosivo e malato in cui la misura del successo di alcuni individui sembra direttamente proporzionale al dolore che hanno subito. Purtroppo, è falso. In pochissimi casi è così, nella maggior parte i piagnoni sgomitano fino a farsi vedere, mentre tutti gli altri non parlano in nessun microfono e tirano avanti.
Un Dipartimento delle pari opportunità dovrebbe rimettere in sesto questa idea sbagliata che essere vittime tutto sommato non è male. Essere vittime è un obbrobrio, e nella gran parte dei casi non ci si guadagna nulla. Se alla vittima per non essere più vittima deve spettare un privilegio di ritorno, qualcosa non va: le opportunità, di nuovo, non sono più pari. Il rischio di questa dinamica è che sia impossibile pensare a una vittima in altri termini che non siano quelli della vittima: pensare a una persona che proviene da un paese povero del mondo senza pensare che sia povera o disperata, pensare a una donna senza pensare che sarà vessata dalla società in cui vive, pensare a un malato non come a un essere umano ma come a un malato, e così via.
Questa forma mentis va sradicata prima di tutto da chi si trova in una condizione svantaggiata, e d’altronde in molti già lo fanno, ogni volta che cercano di mettere in primo piano la loro umanità, e portano in secondo piano il fatto di essere donne, immigrati, affetti da una malattia. La regola è sempre quella di portare alla luce la complessità, anziché una forma mentis più schematica e rigida che obbliga le cose e le persone a stare dentro una gabbia stretta. Ma il nostro sistema non incoraggia sempre le vittime e le minoranze a non identificarsi solo nel loro essere vittime e minoranze.
E non identificarsi nel proprio limite non significa fare silenzio, non combattere per i diritti o non rivendicare il proprio bisogno di fare o di essere qualcosa. Si può sempre alzare la voce, a condizione che poi si sappia parlare anche di qualcos’altro. In quanto al Dipartimento sulle pari opportunità, non so proprio che cosa potrebbe fare per raggiungere questo risultato, probabilmente campagne di sensibilizzazione, investimenti nella comunicazione, un osservatorio che monitori e premi trasmissioni e canali virtuosi, che non si fondano sulla cultura del piagnisteo.
Queste sono tre missioni impegnative ma non impossibili da compiere, tanto più se c’è un dibattito, se si continua a parlarne. Su altre faccende, invece, a mio avviso non si dovrebbe spaccare il capello in quattro: il fatto che chiunque possa sposarsi con chi vuole, definire la propria identità come desidera, trovare un posto sicuro al di qua del mare. Per queste cose sarebbe meglio ricorrere alla legge non scritta e lasciare che sia come deve essere, e che Antigone seppellisca suo fratello Polinice in pace.
L'illustrazione di copertina è di Ilya Milstein.