La scrittura letteraria come un Teatro Anatomico / Alessandra Sarchi, La notte ha la mia voce

22 Marzo 2017

Non esiste il risparmio nella scrittura: chi scrive una storia, annota Natalia Ginzburg in un passaggio delle Piccole virtù, «deve buttarci dentro tutto il meglio che possiede e che ha visto, tutto il meglio che ha raccolto nella sua vita». La notte ha la mia voce, di Alessandra Sarchi, è un libro bello e importante anzitutto per questa capacità di non preservarsi: di non lasciar cristallizzare, fino al logoramento, domande essenziali di una vita, e che intanto possiamo fissare in due-tre punti: cosa diventi quando sei in ospedale? In quel teatro anatomico che è adesso il tuo corpo, cosa si mette in scena? E il tuo io arrivato da là fuori quale parte rappresenterà, d’ora in poi?

 

O, ancora: qual è la biografia di un corpo spezzato? Cosa ne ricompone la scrittura, se cerca di rimettere dentro un intero le trame del suo destino; come, con quale voce può farlo? Questo è il centro della narrazione, eppure questa non è la sostanza, perché La notte ha la mia voce non è il reportage di una degenza ospedaliera, non è una testimonianza, e non è neppure un memoir. Chi cercasse tutto questo dovrà passare altrove, perché l’ultimo romanzo di Alessandra Sarchi non s’ispira alla poesia della disabilità e della pietà decorosa, ma abita i luoghi della letteratura, che sono quel posto dove non ci sono le parole fin quando la scrittura non riesce a trasfigurare la realtà, a prendere tutto quello che ha raccolto, anche in un’esperienza personale, per trasformarlo in racconto e invenzione. 

La voce narrante del romanzo è quella di un io che, a causa di un incidente automobilistico, ha perduto l’uso delle gambe, e così parla, ricorda, interagisce con il mondo da uno spazio/tempo indistinto dove il sentimento della rabbia e della separazione è però deviato dall’incontro con Giovanna, una donna forte e vitale, senza una gamba: è la Donnagatto, colei che, come un felino, appare dal silenzio e scompare misteriosamente, spostando la percezione, stanando il dolore, dirigendolo verso il movimento e la fantasia:

 

 

Alla Donnagatto mancavano un piede e un polpaccio, in cambio roba posticcia. Eppure lei, nella mia testa, camminava (p. 41).

 

La notte ha la mia voce è un libro pieno di doppi che si guardano da posizioni di margine e di confine: anzitutto è una situazione di sdoppiamento quella che divide la vita prima dell’incidente dal dopo; poi il dentro dal fuori; continuamente, poi, la protagonista si specchia in immagini che appaiono all’improvviso: o sotto forma di incontri casuali che, guardati retrospettivamente, sembravano alludere a un destino futuro; o, più spesso, con immagini che sono degli eidola, divinità tanto iconiche quanto immateriali (McEnroe alla tv, Kate Moss sui cartelloni pubblicitari, Nurejew sulle foto collezionate dalla Donnagatto): sono proiezioni mitiche di un ideale del corpo al massimo della sua performance. E poi c’è il doppio più forte di tutti: quello di Giovanna, la Donnagatto, che entra in scena come voce – vale a dire senza un corpo – ed è la figura più fantasmatica di tutti, e non solo per le ragioni più riconoscibili, vale a dire perché con la sua esuberanza e il suo gusto della provocazione scuote la protagonista; Giovanna è una creatura magica soprattutto perché restituisce, “regala”, dice il testo (p. 39), la capacità simbolica di aggrapparsi alla vita attraverso l’ascolto degli altri: «l’umanità che si salva, prima di tutto, immagina» (p. 72), scorporando il pensiero dalla sofferenza. 

 

La terra, l’aria, l’acqua sono i tre archetipi che danno il nome alle tre Parti di cui si compone il romanzo di Sarchi, secondo una struttura che a prima vista potrebbe sembrare lineare e progressiva, perfino dantesca, avanzando dal primo momento del trauma e della perdita, letterali e simbolici, a quello del riadattamento creativo; ma la terza parte, quella dell’acqua, sia in senso figurale che narrativo, non funziona, nel libro, solo come tappa finale, bensì come una specie di terzo spazio intervertebrale che ha lavorato per l’intero corso del romanzo operando, in senso tecnico e semantico, come una struttura che assicura respiro e senso della composizione a tutto il racconto. Per capire questa sorta di espansione dell’invenzione attraverso la forma, questo respiro nascosto della scrittura che, quasi sdoppiandosi essa stessa, affianca e sostiene l’intero edificio, vale la pena di soffermarci proprio sul titolo, che è tanto evocativo quanto capace di alludere almeno a tre livelli testuali che danno sostegno e significato alla narrazione. La notte ha la mia voce, difatti, può essere inteso per indicare, letteralmente, l’azione della Donnagatto, che lavora in un servizio di telefonate erotiche a pagamento: offre sogni, illusioni che si consumano dentro il mondo notturno delle identità nascoste, dei corpi occultati e reinventati dall’immaginazione; ma il titolo è una metafora perfetta anche per dire il regno delle malinconie e degli incubi in cui si muove la soggettività di un corpo vulnerato: 

 

Ho sfinito il Dottor G a furia di raccontargli con dovizia di dettagli come io non senta la pelle, se toccata ferita sfregata, ma senta il fluire formicolante del sangue sotto, la pesantezza dei muscoli inerti, le scariche elettriche incontrollate che rendono la parte sublesionale simile a un campo di esperimenti. Essere un corpo e non raggiungere una forma percettiva compiuta, è così che la materia senza coscienza si agita per averne una? […] Ma dove sono finita io, che con la superficie ho perso il contatto? E se è già così terrificante allontanarsi dall’identità corporea funzionante, cosa deve essere sprofondare nel nulla? (p. 141). 

 

Al tempo stesso, La notte ha la mia voce è una definizione che vale anche in senso stilistico e compositivo, perché la storia, le scene, i dialoghi sono intelaiati in una trama fortemente onirica: per la scomposizione della cronologia narrativa in livelli che si sovrappongono, per lo stile visionario delle scene ospedaliere (che ricordano Dentro ai suoi occhi, il primo testo della raccolta di racconti di Sarchi Segni sottili e clandestini, 2008); per l’ambientazione in notturna della maggior parte delle pagine del romanzo – la notte, del resto, è un modulo tematico della narrativa di Sarchi: anche Violazione, il primo romanzo (2012), cominciava e finiva con una dissolvenza notturna. 

 

Soprattutto, però, la notte è l’universo in cui lavora la memoria, e nel romanzo diventa l’indistinto da cui reimmaginare e ricostruire un tempo narrativo inteso come risonanza interna, flusso che incorpora e rielabora le vicende passate e le situazioni presenti rilasciandole e facendole diventare, sulla pagina romanzesca, un nuovo organismo. Lì, particolarmente, si sente la letteratura. Così, la parte più bella di La notte è la mia voce è la seconda, nelle pagine in cui, in montaggio alternato, al racconto della notte trascorsa accanto alla Donnagatto mentre lavora, s’incrocia, prendendo forma, la narrazione del trauma: mentre i clienti di Giovanna, attraverso la sua voce, conquistano una sensibilità virtuale, trovano spazio anche gli eventi legati al momento della scoperta della perdita di sensibilità del proprio corpo. Attraverso i ricordi di Giovanna, l’io recupera anche i propri. Come in una lanterna magica, la scrittura si muove dentro questo mondo fatto di mondi ai confini del mondo, e sa creare una sensibilità nuova, immaginata, fantasmatica, che vive dentro il testo, e nella nostra esperienza di esso. 

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