Alessandro Cinquegrani. Cacciatori di frodo

22 Ottobre 2012

Cacciatori di frodo di Alessandro Cinquegrani (Miraggi Edizioni, pp. 112, € 12,50) è la messa in scena della lingua del dolore, di un dolore psicotico, ossessivo, incontenibile. Chi legge si ritrova spettatore di un teatro di parole che “rotolano” sulla pagina, braccate dalla sofferenza di chi parla. Ma in questo libro non c’è solo una lingua malata, perché una storia viene raccontata anche se a intervalli discontinui, in una incessante zoppia di pensieri.

 

Il protagonista si chiama Augusto, ha una moglie bella dalla pelle candida, Elisa, che ogni mattina percorre 12 chilometri a piedi per andare a morire sulle rotaie di un binario morto, in attesa di un treno che non arriverà mai. Un suicidio cercato ad ogni alba. Ed è proprio lungo questi binari, due linee perfettamente parallele, che la storia viene narrata come una litania, con frasi angosciate che si ripetono arricchendosi lentamente di particolari narrativi. Perché ogni mattina Augusto si alza e va a riprendersi questa moglie dagli occhi fissi e assenti. E ripercorrendo i 12 chilometri ripercorre anche la sua vita, trascinandosi dietro il peso degli errori, delle colpe e delle ingenuità, tutte concentrate in quella che il protagonista chiama “una nuvola di acerbe espiazioni al guinzaglio”. Augusto aveva un fratello gemello comunista, Cesare, “di padre nazifascista moderno e di madre cattolica integralista”; Augusto aveva anche un figlio di 18 mesi, che ora non c’è più; così come non ci sono più la madre cattolica, il padre nazifascista, il fratello gemello comunista. Non c’è più nessuno.

 

Ogni giorno la stessa strada lungo le rotaie, ogni giorno gli stessi pensieri ingabbiati che si mordono la coda. Ogni giorno la stessa nuvola nera di “acerbe espiazioni” legata al polso e i ricordi che si mescolano ai dettagli del presente. Presenze emblematiche accompagnano Augusto: il Piave che scorre accanto al binario cieco, il fiume della morte che mormora le voci dei caduti; un cane maremmano che nel suo candore gli abbaia con ferocia, come a ricordargli la strada sbagliata che ha preso anni prima; una mandria di pecore, le giuste che hanno seguito la retta via. I riferimenti biblici sono disseminati nei pensieri auto-flagellanti di Augusto, così carico di sensi di colpa (la colpa di essere stato un imbelle, un mediocre, un vile). “Dannazione e destino” si rincorrono lungo i binari morti di questo girone infernale, nel suo ripetersi costante, in attesa di un’espiazione che non sembra arrivare. E che mai arriverà, così come non arriverà mai quel treno a tagliare la gola di Elisa, colpevole forse della morte di un innocente.

 

Le pagine di questo romanzo sono accompagnate da canzoni che ritornano come una cantilena, aumentando così l’andamento già cadenzato e ossessivo della narrazione. “Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio” dà il ritmo di marcia ai pensieri tormentati di Augusto. E a questo ritornello si oppone dialetticamente il grido spontaneo del fratello Cesare, di quando da ragazzino una sera cantò a squarciagola “ma il cielo è sempre più blu uh uh uh” di Rino Gaetano, e da quella sera tutto cambiò, perché non si poté mai più sedere alla tavola del padre.

 

Alessandro Cinquegrani costruisce un libro complesso, aspro per i temi trattati e tortuoso nello stile. Ed è proprio questa complessità a rendere il romanzo interessante. La voce di una malattia mentale nata dagli eventi della vita, dai doveri imposti dalla famiglia e dalla società, dai contrastanti sensi di colpa (essere un uomo tipicamente cristiano, votato all’onestà, dedito alla famiglia, lo porteranno d’altra parte, sotto la logica delle ideologie, a sentirsi meschino, mediocre, traditore) si trasferisce sulla pagina portando il lettore tra le pieghe più buie di un’angoscia esistenziale. È un libro duro, e sta qui il suo valore.

 

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