Andrea Mochi Sismondi. Confini Diamanti

3 Luglio 2012

Il volto ruvido di una donna rom ci guarda dalla copertina. La carnagione è scura, la pelle segnata e gli occhi scavati; indossa un gilè di lana verde sopra un maglione grosso che lascia intravedere una t-shirt; cerchi d’oro alle orecchie, i capelli nascosti da una stoffa bianca e tra le dita della mano, magra e vecchia, una sigaretta.

 

Quando chiudi il libro ti sembra di poterle darle un nome, come se ti fossi conquistata una insolita familiarità, seppur precaria; sei sicura di averla sentita chiedere le anelle e raccontare come i bambini devono essere fasciati stretti, appena nati, per evitare che diventino storpi.

 

Confini Diamanti. Viaggio ai margini d’Europa, ospiti dei Rom (Ombre corte, pp. 254, € 20) racconta il viaggio di Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi con il figlio piccolo Marco a Šuto Orizari (Šutka). Quartiere alla periferia di Skopje per i cui vicoli dissestati hanno camminato “con gli occhi sgranati” in un momento di pausa durante una trasferta teatrale nella capitale Macedone, Šutka è l’unica municipalità al mondo in cui il popolo nomade per definizione si autogoverna, realtà sorta dopo che il terremoto del 1963 distrusse Skopje e ai rom fu dato il permesso di occupare il territorio a nord dove erano state accumulate le macerie.

 

Attratti e spaventati dalla sensazione di prepotente estraneità, coscienti della propria evidente differenza e consapevoli di essere portatori di pregiudizi da cui sarebbe ipocrita dirsi alieni – “stiamo affidando nostro figlio a una ragazza rom che abbiamo conosciuto appena” –, Andrea e Fiorenza osservano, cercano di trovare un senso alla loro presenza e di instaurare un dialogo fecondo sui temi dell’accoglienza, dell’assimilazione, della discriminazione, sul concetto di libertà e sulla coscienza identitaria in una realtà la cui specificità non sembra poter essere ridotta al “si parla il romané e manca il lavoro”.

 

Il libro è strutturato in due parti che corrispondono ai due periodi differenti in cui è scandito il viaggio.

 

Nella prima parte i dialoghi e le conversazioni riportate, la quantità di incontri e episodi descritti, fanno del lettore quasi un testimone diretto, come se la vita quotidiana si svolgesse sulla pagina. Non mancano le considerazioni ad ampio raggio, ma si è prima di tutto travolti dalle minuscole case pulitissime, dai ristoranti e barbieri in cui si svolge la vita politica, dalle strade piene di immondizia in cui si alternano baracche, container regalati dagli americani e case di lusso, dal clima di cosca di alcuni contesti e dall’assenza dello Stato che si riflette in episodi di vita ordinaria. L’abbigliamento alla moda, il bazar, gli innumerevoli fastosi matrimoni, i tentativi di raggiro e la logica del “fare affari”, emergono dal racconto di situazioni, così come i legami familiari, i profili delle persone, i rapporti tra uomo e donna, i conflitti con albanesi e macedoni, il desiderio di Europa e l’attaccamento alla casa.

 

Una descrizione che affronta i pregiudizi e li problematizza senza rovesciarli tessendo l’improbabile elogio di una comunità pura e intatta, scioglie alcune resistenze senza nascondere le tensioni.

 

Nella seconda parte si assiste a una variazione di registro. Andrea e Fiorenza sono ospiti in una delle piccole case divenute familiari e il racconto si sofferma per lo più sul confronto, attraverso conversazioni e dialoghi, con Theatre Roma, un gruppo locale che ha scelto il teatro per affrontare i problemi del proprio popolo e il rapporto con la tradizione occidentale. L’autore descrive bene la fatica di indovinare le modalità per articolare questo scambio, registra le tensioni non solo con i rom, che avvertono talvolta come ostili le domande loro dirette, ma anche tra lui e la compagna. I temi sono la libertà, l’identità, l’autopresentazione, i pregiudizi e la discriminazione che, per quanto sia la realtà, non deve essere trasformata in alibi.

 

Pagine dense descrivono la natura pacifica, se non rassegnata, dei rom, lo scarso attaccamento alla terra che li contraddistingue, riportano considerazioni sul ritorno a casa “svincolato dall’incubo della realizzazione come presupposto per l’amore” e sulle conseguenze dello “smettere di dirsi rom” di quanti in Europa riescono a trovare una degna sistemazione, e inducono riflessioni che oltrepassano i temi affrontati direttamente (ad esempio un parallelo tra il popolo nomade e il popolo esiliato per antonomasia),

 

Anche se la ricchezza teorica rende stimolante la lettura della seconda parte, l’importanza di questo libro, e la sua bellezza, mi pare risieda non soltanto nel tentativo lodevole di incrinare dialetticamente uno dei più ostinati pregiudizi che abita la nostra cultura, ma negli avvenimenti, negli incontri, nei caratteri che consegna: le storie di cui l’autore è testimone, quelle della tradizione che gli vengono raccontate, le leggende, i frammenti di passato. Sono queste storie, i volti che ci guardano e l’inquietudine che lasciano addosso, a produrre la sensazione di fascino e distanza, straniamento e curiosità, più efficace delle tante, forse troppe, argomentazioni.

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