Tocatì / Arte in gioco
Nelle opere della Storia dell'Arte sono sempre stati raffigurati i giocatori e le giocatrici, mentre il tema del gioco si ritrova in un unico, famosissimo quadro. Tuttavia, se si escludono le sculture che rappresentano atleti, piuttosto ricorrenti nell'arte greca (che avevano un fine religioso, d’altra parte, come ha sostenuto Johan Huizinga in Homo Ludens, il mondo del gioco e quello del sacro appartengono al medesimo universo), e alcune pitture tombali etrusche (di carattere invece più evocativo e celebrativo della vita, a dispetto dei luoghi in cui furono eseguite), le immagini di giocatori e di giocatrici non sono moltissime (a meno che non se ne voglia estendere il concetto - alla Roger Callois, cfr. I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine - allo sport, al circo, al luna park e ai parchi dei divertimenti in generale, al carnevale, al casinò, alle lotterie, eccetera, eccetera).
Del gioco in quanto tale tratta il quadro Giochi di bambini di Pieter Bruegel, firmato e datato 1560, che oggi si conserva al Kunsthistorisches Museum di Vienna, in cui sono 'censiti' addirittura un’ottantina di giochi infantili tra quelli in auge a quel tempo. Molti di essi sono diffusi ancor oggi, come, ad esempio, l'altalena, i birilli, le bocce, le bolle di sapone, le capriole, il cavalluccio, le costruzioni con la sabbia, la morra, la moscacieca, nascondino, la pertica, il salto della cavallina, il tiro alla fune, i trampoli (alti e bassi), il trenino, la trottola e così via.
La scena dipinta, uno slargo fra le case che, per la sua forma irrisolta non assurge alla dignità di piazza, è popolata da ben 250 bambini, intenti ai loro trastulli. Esso si apre in una zona suburbana, probabilmente di Anversa, città in cui l'artista ha vissuto e lavorato a lungo. A farlo supporre è l'ansa del fiume (Schelda), che si avvolge attorno ai vasti campi visibili in alto sulla sinistra del quadro, aperti verso un lontano orizzonte che conferisce profondità e respiro alla scena.
A destra, separata dal fiume da una costruzione porticata, dall’aspetto più nobile di quello delle altre, forse un edificio pubblico, c'è una lunga arteria in fuga prospettica verso il centro urbano. Anche su di essa giocano i bambini, ma soltanto sul suo primo tratto, quello prossimo allo spiazzo, la loro presenza, infatti, si va via, via diradando di mano in mano che la strada si approssima al cuore della città, da cui i bambini e i loro giochi sono esclusi. Ma, se i bambini non sono ammessi nell’operoso centro cittadino (sul fondo della strada si intuisce chiaramente la presenza di botteghe e di negozi), gli adulti sono banditi dallo slargo dei giochi. In esso, infatti, l’artista non ne inserisce alcuno, come a voler significare che l'attitudine al gioco è purtroppo inversamente proporzionale all'avanzare dell'età, così come recita il titolo stesso del quadro.
Tra le opere che ritraggono giocatori e giocatrici, le più incantevoli sono indubbiamente quelle che hanno queste ultime come protagoniste.
Al British Museum di Londra si conserva una delle sculture più antiche dedicate a delle giocatrici, in particolare a giocatrici di astragali.
L'astragalo è un osso del tarso di alcuni quadrupedi (vitello, capra, cane, maiale o pecora) quasi corrispondente al nostro tallone. Di forma cuboide, è stato usato fin dall'antichità come dado da gioco, tanto in Occidente, come in Oriente, perciò si dice indifferentemente "giocare agli astragali", o "giocare agli aliossi". Ad ognuna delle loro quattro facce corrispondeva un numero: 1, 3, 4, 6. L'esito del lancio degli astragali, se eseguito da sacerdoti, aveva un valore divinatorio (astragalomanteia).
L'opera del British, datata alla fine del IV secolo a.C., consta di un piccolo gruppo in terracotta proveniente da Capua che rappresenta due fanciulle accovacciate l’una di fronte all’altra, mentre giocano agli astragali. Entrambe li tengono nella mano sinistra ed eseguono il lancio con la destra. Vestono il chitone, l’abito femminile comunemente in uso nell’antica Grecia, che si modula attorno ai loro corpi in eleganti panneggi, lasciandone intuire le forme armoniose. Una di esse porta i capelli raccolti in una morbida acconciatura, mentre quelli dell’altra, fluenti sulle spalle, sono trattenuti da un cerchietto. Tutte e due indossano orecchini vistosi.
Il basamento su cui poggiano le due figure presenta tracce di pigmento pittorico, segno che la scultura doveva essere colorata, così come dimostrano anche il tono color miele della chioma della ragazza di sinistra e alcune velature azzurre in certi tratti del suo chitone.
La naturalezza dei loro gesti, la loro posa elegante, ma instabile, le mani che sembrano muoversi nell’aria, conferiscono a quest'opera deliziosa un dinamismo che, come già il gioco, ha il sapore della vita.
D'età romana sono invece le famosissime fanciulle in bikini intente al gioco, ritratte sul mosaico pavimentale della Villa del Casale a Piazza Armerina in provincia di Enna. Questa era una lussuosa villa risalente all’incirca al 350 d.C., che si estendeva su una superficie di 3.500 metri quadrati. Riportata alla luce nel 1950, nel 1997 è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.
In una delle sue numerose stanze, molte delle quali con straordinari mosaici riproducenti animali esotici ed altri soggetti ancora, si trova l'opera musiva pavimentale delle dieci ragazze. Questa è raggiungibile da un camminamento sospeso a qualche metro dal suolo, quasi un accesso rituale, che aiuta a predisporre l'animo alla loro vista, così reale e al tempo stesso così sublime.
Due delle fanciulle stanno giocando a palla, una lancia il disco, un'altra il volano, due di esse si esercitano nella corsa e una invece gioca con i manubri. Una mostra la palma della vittoria e un'altra, togata, è la premiatrice dei giochi che le sue compagne hanno svolto in onore di Teti, la dea del mare. Al di là della loro bellezza, quel che incuriosisce il visitatore è sicuramente la loro mise, il bikini, appunto, che le fa apparire di una sorprendente attualità.
Chissà se quando il museo è chiuso ne attraversano correndo le sale, per gioco o, magari, alla ricerca di quanto è sopravvissuto, come loro, alla furia del vulcano? Perché non appena si entra nella sala 116 del MAN, si ha come l'impressone che i Corridori di Ercolano stiano ancora correndo, tanto sono tesi i loro muscoli sotto la pelle scura, quasi arsa dal sole e lucida di sudore. Negli occhi bianchi, sbarrati e lucenti - recanti il segno dello sforzo fisico - a guardar bene, pare persino di trovare traccia della memoria dell'orrore di cui sono stati testimoni nel 79 d.C.
È soltanto suggestione? Mais bien sur! Perché indurre suggestioni è una delle cifre dell'arte.
I Corridori di Ercolano sono due statue bronzee gemelle riemerse dall'oblio nel 1750 nello scavo della Villa dei Papiri, una residenza gentilizia del I secolo a.C., appartenuta, come sembra ormai accertato, a Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Giulio Cesare, in quanto padre della sua ultima moglie, Calpurnia. La villa, sita al di fuori della cerchia urbana dell’antica Herculaneum, deve il proprio nome al rinvenimento, al suo interno, di un giacimento di oltre milleottocento papiri.
Presumibilmente copie romane di età augustea (I sec. a.C.) di originali greci della fine del IV sec.a.C., i Corridori di Ercolano facevano bella mostra di sé nel peristilio della magione. Forse celebrano due atleti vincitori in uno dei Giochi Panellenici. Efebici, i bei visi incorniciati dalle ciocche scomposte dei corti capelli e le labbra tirate per lo sforzo di correre veloci, quel che colpisce in essi sono gli occhi - con i globi oculari in avorio e le iridi e le pupille in pietra grigia e nera - che spiccano sul tono scuro del bronzo, facendoli sembrare vivi, complice l'agile dinamismo dei corpi, protesi in avanti, la testa leggermente ruotata verso la spalla. Anche nell'antichità, la corsa era uno dei giochi più popolari delle competizioni sportive, esattamente come lo è oggi, tant'è che la medaglia d'oro più acclamata dal pubblico nazionale, guadagnata dall'Italia alle Olimpiadi di Tokyo di quest’anno, è stata quella vinta da Lamont Marcell Jacobs, campione olimpico dei 100 metri.
Se non li separassero più di 2.400 anni e così tante conquiste della ricerca tecnico-scientifica, direi che vi sono parecchie analogie tra il modo di rappresentare un corpo umano che corre usato dal pittore greco antico Euphiletos e quello del pittore futurista Giacomo Balla.
Nelle opere di entrambi, l'anfora dipinta a figure nere con corridori (attribuita a Euphiletos, datata 530 a.C.) e la Bambina che corre sul balcone (dipinta da Balla nel 1912) sono infatti sorprendenti le similarità, pur nell'ovvia salvaguardia delle differenze culturali e formali, oltre che tecniche. Nell'una e nell'altra opera, infatti, quello che salta agli occhi è l'estrema efficacia nella raffigurazione del movimento, resa più veridica, in Euphiletos, dalla riproduzione in serie ripetuta della stessa figura umana (variano solo lievi inclinazioni dei busti e delle teste, oltre alle acconciature) sulla superficie curva dell'anfora che enfatizza l'idea di continuum; mentre, nella Bambina di Balla, essa trae origine dalla scomposizione in fotogrammi successivi delle fasi della corsa stessa, poi riequilibrati sull'asse verticale.
Ben note analogie formali, ma ancora una volta non tecniche e neppure culturali, intercorrono poi tra l'opera di Balla e quella del fotografo inglese Eadweard Muybridge. In The Human figure in motion (1879) grazie all'impiego della cronofotografia (che consiste nel registrare in un'unica immagine e su una stessa lastra fotografica varie fasi del movimento di un soggetto in successivi momenti temporali), egli ferma infatti le fasi susseguentesi dei movimenti compiuti da un uomo che corre. E l'effetto è assicurato.
Riprodotto in una miniatura spagnola del 1265, tra i giochi sferistici, spicca quello della pelota (termine castigliano per palla), in auge a partire dal medioevo in molte regioni del sud Europa. Si giocava da soli, lanciando la palla contro un muro, oppure a squadre, per strada. Quest'ultimo modo era piuttosto pericoloso, perché la palla volando a forte velocità poteva colpire qualche passante e magari ucciderlo, incidente, purtroppo, frequente. Per questo il re spagnolo Alfonso X il Saggio lo proibì. La legge, con severe punizioni per i trasgressori, era contenuta in un codice che la miniatura illustra, il cui soggetto laico costituisce un caso raro per un tempo in cui tutte le immagini erano a tema religioso. I giocatori vi sono ritratti in modo vivido, con pose dinamiche; dalle loro espressioni allegre e dai loro gesti si deduce che il gioco li diverte molto. Gli abiti che vestono, poi, (ampie tuniche multicolori annodate in vita, calzebrache e cuffiette bianche che trattengono le morbide acconciature) ricordano quelli indossati dai personaggi che popolano altre miniature coeve, anch'esse rare in quanto laiche, che illustrano il codice federiciano De arte venabdi cum avibus.
Più di 600 anni dopo, Rousseau il Doganiere dipinge i Giocatori di Foot ball. Molto in auge nella Francia a cavallo tra '800 e' 900, la moda del rugby dilagò proprio nel 1908, lo stesso anno del quadro, quando a dominare il campionato istituito nel 1892 dal barone de Coubertin - colui a cui si devono i moderni Giochi Olimpici - fu un club parigino.
Nel quadro sono raffigurati quattro giocatori impegnati in una partita di rugby in uno dei parchi cittadini, come accadeva spesso nella Parigi di allora. Se pure dipinta nel modo 'sognante' e quasi infantile, tipico di Rousseau, che aveva esordito come "pittore della domenica", la scena trae dunque spunto dalla realtà, che l’artista trasfigura calandola in una dimensione sospesa e quasi fiabesca. Immersi in una luce ‘da quadro fiammingo’, i quattro signori baffuti, con strane divise rigate simili ai costumi da bagno in uso al tempo (solo gli scarponcini e i calzettoni sciolgono l'equivoco) volteggiano graziosamente nell'aria, quasi danzanti, inseguendo la palla ovale.
A proposito di realtà, più reale del reale, iperreale, è invece la scultura Football Vignette, di Duane Hanson, datata 1969. Realizzata in fibra di vetro colata e resina poliestere, raffigura tre giocatori di rugby a grandezza naturale, perfettamente vestiti con livree sportive vere e caschi veri, che sembrano essi stessi veri e paiono muoversi per davvero, vorticando, funambolici, davanti ai nostri occhi. Lo straniamento della visione nasce proprio dal loro apparire a tutta prima ‘reali’ e ‘in movimento', mentre, immediatamente dopo, scoperta la loro natura fittizia e statica, essi si mostrano per quello che sono, una inconsueta opera d'arte.
Artista di spicco nell’America del XX secolo, Duane Hanson si è distinto per la sua tendenza alla critica sociale. Protagonista della sua opera è infatti la classe medio bassa degli USA, dove donne grasse coi bigodini in testa spingono il carrello del supermarket, Pin up ‘scarrupate’, operai tristi, turisti dalle camice hawaiane, con appese al collo le loro macchine fotografiche, majorettes tutte lustrini, mischie di giocatori di rugby, eccetera, mettono in scena, (più reali del reale) il lato oscuro dello stile di vita americano.
Il gioco del calcio ha avuto molti estimatori tra gli artisti. Soprattutto lo hanno amato i futuristi, Carlo Carrà, Gerardo Dottori, Giulio D’Anna ed anche Umberto Boccioni, che con il suo Dinamismo di un footballer, del 1913, detiene il record di dipinto più famoso al mondo dedicato a questo gioco. Innanzitutto è una tela gigantesca, misura infatti quasi 2 metri quadrati. Nel precipuo linguaggio artistico del Futurismo, vi è riprodotto un giocatore che corre. Della sua figura si leggono le gambe e le braccia in movimento, ma non la testa, che l'artista ha escluso dall'inquadratura (così come aveva fatto Auguste Rodin nel 1907 nella sua scultura Uomo che cammina). Se si osserva con attenzione, si riconosce proprio al centro della composizione, la coscia destra del giocatore, mentre il suo polpaccio è in basso a sinistra. L'altra gamba occupa invece la metà inferiore opposta della scena. Salendo con lo sguardo, si scorge il grande arco formato dal suo braccio destro, il sinistro invece non si vede, perché resta nascosto dal corpo. La sua corsa genera un vortice che sembra risucchiare l'osservatore, esattamente come prevedeva il manifesto del futurismo (La pittura futurista. Manifesto tecnico), scritto nel 1910 e firmato da Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini, che diceva: “Noi porremo lo spettatore nel centro del quadro”. Per i futuristi, infatti, lo spettatore doveva avere un ruolo attivo e ‘interagire’ dinamicamente con le forme e con i colori del quadro, esattamente come accade qui.
Anche il protagonista dell’opera di Paul Klee sta correndo ed è anche lui un calciatore, nella fattispecie un portiere, lo si deduce dal titolo dell’acquarello, Corridore in porta, e dal numero 1 che porta siglato addosso. Reso dall’artista Bauhausler con un insieme di forme geometriche fluttuanti e delicatamente colorate, anche quest’opera ha il pregio di trasmettere l’idea di movimento, suggerita dalla simultaneità delle forme e sottolineata dallo svolazzare di gambe e braccia del protagonista, che sembra esultare, probabilmente per una vittoria. A me pare addirittura di udire la folla urlare ‘Goal!’ dagli spalti dello stadio, tanto questo dipinto è sinestetico.
E, a proposito di goal, uno dei più grandi goleador di tutti i tempi è stato Edson Arantes do Nascimiento, in arte Pelé, a cui Andy Warhol ha dedicato un ritratto nel 1977. Vera icona pop, il campione brasiliano aveva concluso il 1 ottobre di quell’anno una carriera straordinaria: fu autore di 1.286 goal, segnati in 1.351 partite ed è l'unico calciatore di tutti i tempi ad essere stato per ben tre volte campione del mondo. Ritratto dall’artista leader della Pop Art con la sua particolare tecnica divenuta famosissima (la stampa serigrafica da fotografia), questo di Pelé fa parte di una serie di dieci ritratti di campioni sportivi commissionata a Warhol dal collezionista statunitense Richard Weisman. Come in un cartellone pubblicitario, il giocatore brasiliano è ritratto sorridente, mentre sostiene con una mano il pallone a lui dedicato da una nota azienda statunitense di articoli sportivi. Tirata in una serie di più copie, secondo il dettato della PopArt, contraria al manufatto unico, l’opera è stata eseguita in varie gradazioni cromatiche, tutte molto fluo e molto pop, ça va sans dire.
Con dolcezza o con veemenza, da fermi o in movimento, nell'antichità come ai giorni nostri, il gioco è una delle attività più piacevoli e tra le più dotate di grazia.
Così ha scritto, in proposito, Johan Huizinga:
"La bellezza non è inerente al gioco come tale, eppure esso ha una tendenza ad unirsi a svariati elementi di questa. Alle forme più primitive del gioco si uniscono fin dall’inizio la gentilezza e la grazia. La bellezza del corpo umano in movimento trova la sua massima espressione nel gioco. Nelle sue forme più evolute il gioco è intessuto di ritmo e d’armonia, le doti più nobili della facoltà percettiva estetica che siano date all’uomo. I vincoli tra gioco e bellezza sono molteplici e saldi."
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Ugo Morelli, A che gioco giochiamo
Potrai approfondire la relazione tra Arte e Gioco nella conferenza Il Gioco nell'Arte di Jacopo Veneziani al Tocatì. Festival Internazionale dei Giochi in Strada, a Verona e online dal 17 al 19 Settembre 2021. Scopri di più sul programma di Tocatì: www.tocati.it