Assalto alle Alpi
In un passo che non ritrovo (Jorge Luis Borges? Guido Ceronetti?) viene suggerito come ogni azione umana condotta con perseveranza, cura e dedizione possa avvicinarci un po’ a Dio.
Del grande scrittore argentino ritrovo l’espressione di questo sentimento anche nella poesia I giusti: “Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire. /… / Il ceramista che premedita un colore e una forma. / Il tipografo che compone bene questa pagina, che forse non gli piace. / Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto. / Chi accarezza un animale addormentato. /…/ Chi preferisce che abbiano ragione gli altri. / Queste persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo”.
Sarebbe così per l’operare di uno scienziato e di un artista ma anche per quello di un vasaio, un artigiano, forse e soprattutto, un pellegrino in cammino…
Ecco, il camminare, il contemplare, lo scalare, comunque con la montagna davanti agli occhi e sotto i piedi rappresentano forse l’esperienza che più di ogni altra può avvicinarci al sacro, a un divino possibile e naturale senza passare dalla preghiera. Un’esperienza che anche i più distratti di noi possono aver provato, forse con sorpresa, spesso con meraviglia. E la testimonianza indiretta di Søeren Kierkegaard in una lettera del 1847 all’amica Jette – “Camminando ogni giorno, raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno. I pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo…” – vale probabilmente nelle faggete e sui crinali più che in ogni altro luogo. Sì, la montagna anche come dimensione in cui sacro e naturale possono coincidere.
Già, ma cosa è oggi la montagna e soprattutto che ne è delle genti che ci vivono?
Sono interrogativi tutt’altro che “particolari” rivolti agli specialisti della materia o riguardanti la residua umanità indigena che le abita. Lontano da vette e luoghi di sfolgorante bellezza, lontano da romiti e abbazie, da vie Francigene o vie del sale, la montagna ci raggiunge anche in città, seduti sul divano davanti alla tv o in metro mentre sfogliamo le home page dei quotidiani sul cellulare; ci “rotola addosso”, sempre più vicina e in qualche modo inquietante. Generazioni di viventi che dalle città stanno imparando loro malgrado come le montagne inaspettatamente siano diventate la nostra cattiva coscienza, le montagne ci interrogano non con esperienze di sacralità ma come indicatori della vita che siamo diventati.
È così per i ghiacciai in rapido ritiro, per il Po sempre più cronicamente simile al Giordano, per la sete di tutta la Pianura Padana, per gli orsi sullo sfondo di timori ancestrali, per la neve diventata questa sconosciuta e il turismo bianco ormai in rianimazione. Quasi ovunque in rianimazione ma anche, sorprendentemente, sotto accanimento terapeutico
È proprio da quest’ultimo elemento che muove il nuovo libro di Marco Albino Ferrari, Assalto alle Alpi, Einaudi 2023. Un viaggio puntuale e ispirato che parte delle Alpi Liguri e Marittime seguendo la catena verso oriente.
Viola St Gréé è l’inizio del viaggio di Ferrari ma anche del fallimento dell’economia della neve che su molte montagne è stata un’illusione durata una manciata di lustri a partire dagli anni del boom economico. È questa la prima dimensione della montagna raccontata da Ferrari.
Metà degli anni Sessanta, l’ingegnere Giacomo Augusto Fedriani, un giovane imprenditore, ex campione di sci, dopo voli ripetuti sulle Alpi Liguri individua nella Val Mongia e sulle pendici del Bric Mindino il luogo ideale per la realizzazione di una stazione sciistica sul modello di quelle sorte nel frattempo sul versante francese. Stazione sciistica e comprensorio alberghiero annesso, parcheggio auto e pullman per turisti e vacanzieri della neve tutto compreso, Genova, la Liguria e la sua autostrada a poche decine di chilometri. Gli anni erano del resto quel che erano; la montagna già esangue di oltre un decennio di immigrazione verso le città: “Considerando che il Comune di Viola trovasi tra territori montani classificati a zona depressa, che la popolazione locale, per i miseri redditi, in quest’ultimo decennio ha perso il 50% degli abitanti che hanno abbandonato il paese natio…” si legge in una deliberazione comunale del 1964 ritrovata da Ferrari (tra le altre cose, direttore editoriale del Club Alpino Italiano). L’idea di una economia bianca, basata sul turismo invernale era, in quegli anni, una possibile ancora di salvezza per territori apparentemente votati all’abbandono, era soprattutto l’idea di un possibile arricchimento economico su modelli di un’economia urbana, allora considerati gli unici possibili. Una modernità a base di industria, svago e cemento, pur nella diversità. sembrava la normalità anche sulle montagne alpine.
È sorprendente vedere le analogie con la storia di altre aree come quella che ad esempio per me è sempre stata “casa”. Pochi anni prima dell’ingegner Fedriani, sull’Appennino Tosco-Emiliano Enzo Marchelli aveva ispezionato e valutato le diverse pendici montuose e i crinali tra Succiso e il Monte Cusna. La stazione sciistica e il “neo paese” di Cerreto Laghi (intermittente nucleo turistico commerciale mai diventato comunità) sorgeranno in pochi anni con l’apporto di capitali di amici imprenditori di Parma. Come per Viola St Gréé l’apice a fine anni Ottanta per poi un più o meno rapido declino per carenza di neve, per un clima in via di drastico cambiamento, per il lento mutare dei bisogni, per l’evoluzione verso stili di vita più maturi e consapevoli.
In questo senso, Assalto alle Alpi è anche assalto alla montagna, perché sembra parlare per tutta la montagna mediterranea, almeno quella a quote elevate. Quella montagna che sulle Alpi era presto diventata mito e paesaggio idealizzato in contrasto con la prima invadenza della modernità. Il capitolo La vera Heidi parla di questo e dell’invenzione da parte degli svizzeri di un marketing naturale ante litteram in contrasto alla vita urbana già all’inizio del Novecento. E per contrasto c’è la lenta vita del passato, immutabile attraverso i secoli, che era stata l’economia agro-pastorale, quelle le origini e vocazione di un intero territorio.
Se Heidi e il suo messaggio erano stati una prima impostura della modernità, è con gli anni Sessanta che l'assalto alla montagna diventa reale, oggi ferita aperta di modelli economici senza futuro, nonostante gli accanimenti terapeutici che politica locale e imprenditoria ostinatamente perseguono. A cominciare dall’aumento delle piste e delle sciovie a quote più elevate, allo skidome costruito a Selvino sulle Alpi Orobie, “si tratta di un impianto sci al coperto, refrigerato così da sciare quando fuori spuntano i fiori sui prati…”; oppure il progetto di uno skidome analogo a Cesana ma aperto tutto l’anno, anche d’estate, dove ora ci sono le rovine della pista da bob delle Olimpiadi 2006. Sono diversi gli esempi che Albino Ferrari fa di questo presente. Leggendo, non può non venirmi in mente come a fine anni 80 a Cerreto Laghi si costruisse un “palaghiaccio” – da anni chiuso ma in odor di colpevole “accanimento” – per il pattinaggio anche estivo; impianto nato morto se dopo un decennio, un deficit comunale (equivalente a un milione di euro attuali) sanciva la “fallimentare bontà” del progetto. Certo si potrebbe dire che questo è solo un passato prossimo confinante con il presente e che oggi esiste un presente che guarda altrove. Non sono forse cambiati i modelli e non si sono fatti più consapevoli i bisogni? Ferrari nella seconda parte del libro – Prime luci nella notte fonda – esplora anche questa dimensione. Poche le luci in realtà nei tentativi di uscire dai vecchi schemi; sono infatti solo poche le pagine dedicate a questo aspetto; prima sono riportati i tentativi risibili di un turismo che vorrebbe inseguire i nuovi stili di vita. Stili di vita posticci se ci sono imprenditori alberghieri che pensano a bagni secchi di pregiata lana di pecora come attrattori per consumatori confusi quanto amanti del wellness; dunque luci effimere quanto sbiadite inseguendo sempre i turisti, i turisti e le mode urbane. Le alternative e la speranza, per quanto ancora fragile. sono invece per nuovi modelli di fruizione, per l’escursionismo e la valorizzazione delle antiche produzioni alimentari, per la riscoperta delle antiche vie e degli antichi percorsi, in “un’economia dolce” lontana dal refrain “all you need is snow”. Esempi ancor fragili ma sulla strada di un’economia dove anche la fruizione del territorio da parte dei turisti passi per una loro dispersione e non la concentrazione in pochi luoghi, “iconici” o meno.
Questi i tratti principali del libro, o almeno quelli che dalle città dove viviamo possono interessare di più.
Sulle autentiche “speranze” vale naturalmente per le Alpi ciò che è la realtà di quella lunga montagna mediterranea che sono gli Appennini, in alto drammaticamente ancora più feriti dai cambiamenti climatici. Lì, nel suo “cuore” più alpino, un progetto valga a titolo di esempio; A piedi nel Parco d’Abruzzo è iniziativa che prova ad abbracciare i tempi nuovi, turisti come esploratori di se stessi, pellegrini laici accompagnati alla riscoperta degli antichi tratturi della transumanza, tra lento cammino, letteratura, cibo dei luoghi, il parco sempre negli occhi e sotto i piedi.
Dunque sarebbe anche questo ciò che accade oggi sulle montagne, quasi frammentata e frastornata conferma che “la vita è quello che ti accade mentre stai facendo altri progetti” (John Lennon Beatiful boy). Ma è “vita che accade” senza futuro se i grandi progetti che toccano i monti sono sulla scia di certezze ormai abortite, progetti nati ciechi quando l’umanità che comanda, ovvero “la domanda”, ‘il mercato”, le tendenze, chiamiamolo come vogliamo sono ancora e sempre la città.
Si dice per le imprese famigliari che la prima generazione crea, la seconda conserva, la terza consuma; è un detto che potrebbe avere una valenza più generale.
Per la montagna c’è stata una generazione che a cavallo di un mondo (quello antico dell’economia agro pastorale) e l’irruzione di un altro, quello del boom economico e della rivoluzione consumistica, ancora manifesta la sua presenza. È stata la generazione entusiasta quanto oggi maledetta – imprenditori e consumatori sono state solo diverse facce della stessa medaglia – che nella quasi totale integrità ha abbracciato quella che sembrava una rivoluzione definitiva, per molti di quella generazione l’irrompere improvviso di un facile benessere era stato un paradiso in terra in forma di consumi, quegli anni dovevano essere sembrati la definitiva negazione della maledizione successiva alla cacciata dall’Eden.
Dopo sarebbe venuta una generazione – quella a cui appartengo – e quella di Albino Ferrari che, critica, avrebbe cercato una mediazione tra vecchio e nuovo, avrebbe recuperato il senso profondo del vecchio mondo, godendo di tutta la modernità, sciando in jeans e occhiali da sole, mentre rimetteva a nudo le antiche pietre frettolosamente intonacate dai padri...
Forse ci vorrà una terza generazione, quella dei nostri figli – e forse nuove tecnologie e una nuova realtà – non per “consumare” ma per dare alla montagna una rinnovata dimensione, oltre ogni desiderio di sostenibilità, oltre ogni sostenibilità di facciata.
Le pietre dei monti sono sempre rotolate a valle: è legge di natura dai ritmi lentissimi, propri dell’età geologiche. Poco più di ieri ed è tutta la civiltà della montagna che è rotolata a valle, inseguendo il mondo urbano, lo è stato nella moltitudine dell’immigrazione, lo è stato nell’annullamento di una cultura diventata inutile. Sono state queste le pietre rotolanti che hanno riguardato ogni vallata, quasi ogni regione del nostro paese. Che tra quelle pietre – rette stirpe montanare – abbiano germinato qualcosa di buono nelle città del boom economico, può essere solo una rimossa quanto parziale consolazione. Oggi per tutti, in alto come in piano, l’urgenza è ritrovare un ordine che restituisca qualche equilibrio; come realizzarlo è ancora qualcosa da scrivere, costruire, vivere con la certezza che debba essere lontano dall’emulazione dei modelli di benessere urbano.
Gli orsi sullo sfondo di una minaccia ancestrale come i teli stesi a protezione del ghiacciaio nei mesi estivi sanno di angoscia e di impotenza, anche sugli schermi di uno smartphone.