Atlanti e fantasmi Redux
Imagine no museums
Dopo Atlas. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas? al Reina Sofía di Madrid, allo ZKM di Karlsruhe e alla Sammlung Falckenberg di Amburgo (2011), dopo Histoires de fantômes pour grandes personnes al Fresnoy, Studio national des arts contemporains di Tourcoing, al Museu de Arte do Rio in Brasile e al Beirut Art Center in Libano (2012), apre al Palais de Tokyo di Parigi l’ultima volet di questo percorso espositivo: Nouvelles Histoires de fantômes (fino al 7 settembre). Curatore e ideatore è Georges Didi-Huberman, lo storico dell’arte francese più influente degli ultimi trent’anni, che chiude così il periplo attorno alla figura e al pensiero di Aby Warburg.
Atlas non era una semplice mostra itinerante, ma un atlante aperto a configurazioni ed estensioni ogni volta diverse a seconda delle sedi espositive e dei prestiti accordati. Preso atto della difficoltà o del disinteresse istituzionale (leggasi il Centre Pompidou) verso una tappa francese di Atlas (“nemo propheta in patria”), Didi-Huberman ha accettato l’invito di Alain Fleisher di reinventare il dispositivo dell’esposizione in completa assenza delle opere. A sua disposizione i quasi 1000 metri quadrati del Fresnoy, un centro e una scuola di arti audiovisive rinnovata da Bernard Tschumi e poco fuori Lille.
Un’occasione unica per riflettere sul ruolo dei musei all’epoca della riproducibilità tecnica: “oggi si espongono, nei musei d’arte moderna, tanto delle opere ‘riproducibili’ (stampe, fotografie, film, edizioni di oggetti o di libri) che opere ‘originali’ (quadri, sculture, disegni), un modo utile per mettere in questione, spodestare le gerarchie estetiche”, scrive Didi-Huberman nel dossier della rivista “Palais” (n. 19, 2004, da cui provengono anche le citazioni successive). Non sorprende che, nel suo pensiero prensile e vivace, si confrontasse prima o poi con André Malraux e il suo musée imaginaire, tematizzato in un ciclo di conferenze al Louvre e in un saggio (L’Album de l’art à l’époque du ‘Musée imaginaire’, Hazan 2013).
A dispetto del successo del libro di Malraux, difficilmente può considerarsi come un vademecum per conservatori, critici e curator. Il museo di Malraux è così immaginario – o senza muri per citare la traduzione inglese – che non c’è spazio per questioni architettoniche. Tra le 172 riproduzioni, ve ne sono solo due che rappresentano musei: una galleria di dipinti del XVII secolo di David Teniers (Galleria dell’arciduca Leopoldo Guglielmo a Bruxelles) e una fotografia di una sala della National Gallery di Washington DC con tre dipinti di El Greco impeccabilmente installati. Insomma, come ha giustamente osservato Rosalind Krauss (Postmodernism’s Museum Without Walls, 2005), “what we experience is not so much architectural as museological”.
Malraux ha insomma poco da dirci sul modello selettivo dell’istituzione museale, quello, argomenta Krauss, del palazzo rinascimentale con una serie di sale en enfilade che si susseguono una dopo l’altra. Un “processional path” che connette tra loro gli spazi, “a sort of narrative trajectory” in cui ogni sala è conchiusa come il capitolo di un libro, volta a dispiegare il “master plot”. Un modello in fondo allineato con l’idea di Malraux della storia dell’arte come disciplina umanista.
Ora, nel periodo in cui elaborava il suo Musée imaginaire, in pieno modernismo, si stabilivano due nuovi modelli museali: lo spazio modulabile e aperto di Mies van der Rohe e la rampa a spirale di Le Corbusier e Frank Lloyd Wright. Il primo è quello della Neue Nationalgalerie di Berlino e del Museum of Fine Arts di Houston, ripreso anche nell’allestimento della collezione del Centre Pompidou di Parigi. Il secondo trova la sua icona nel Guggenheim di New York, una rampa circolare e discendente che provoca una visione decentrata e cinematografica. Le opere appese alle pareti scorrono come i fotogrammi di un film agito dagli spettatori stessi che, spinti dalla gravità, scendono la rampa. Lo spazio architettonico induce così alla circolazione piuttosto che alla contemplazione, a un’esperienza motrice piuttosto che all’otticalità modernista.
È proprio questo dialogo con il cinema che Histoires de fantômes pour grandes personnes e Nouvelles Histoires de fantômes – mostre senza opere – mettono avanti. “Il museo è il nuovo tempio della cinefilia” (Angela Dalle Vacche), l’ultimo rifugio dei cinefili, sebbene questo dialogo tenda a irrigidirsi, a museificarsi appunto. Nel 1964, Godard filmava i tre protagonisti di Bande à part in un attraversamento pazzo e anarchico delle sale del Louvre. A questa scorribanda sembra rispondere la traversata notturna – e nostalgica – di Alexander Sokurov (Arca russa, 2002), in cui gli interni sontuosi del museo dell’Ermitage e la storia della Russia si susseguono, in compagnia di una guida pedante, in un solo piano sequenza, in un solo respiro – compimento della visione di Malraux?
In che modo Didi-Huberman articola museo reale e immaginario, white cube e proiezione filmica, atlanti e fantasmi? Cercherò di rispondere soffermandomi su tre gesti (quattro con quello di Arno Gisinger) che presiedono e costituiscono il dispositivo espositivo di Atlas e delle due Histoires de fantômes.
Tavola-matrice
Il primo gesto, che ci conduce all’interno della mostra, è l’esposizione della tavola 42 elaborata da Warburg nel 1929 su “Pathos della sofferenza come inversione energetica”, “Lamento funebre borghese, eroicizzato. Lamento funebre religioso”. Al Fresnoy come al Palais de Tokyo, questa non era una semplice idea di partenza ma il fulcro o meglio la matrice della mostra. Se al Fresnoy la sua presenza era discreta, al Palais de Tokyo è imponentemente installata all’ingresso, al punto che per accedere all’installazione video bisogna letteralmente girare attorno a questo muro schermico visibile su entrambi i lati.
Doppia proiezione
Il secondo gesto è quello della proiezione, da intendere in due sensi: come détour della proiezione ortogonale, in cui la tavola 42 perde la sua verticalità per irradiarsi sul suolo del museo; come détour della proiezione cinematografica, con i proiettori in alto e gli schermi a terra. Questa doppia proiezione è anche l’occasione per riattualizzare le immagini di dolore scelte da Warburg: non più Donatello, Mantegna, Verrocchio, Signorelli, Carpaccio o Raffaello ma estratti di film e documentari, immagini televisive e fotografie: dal Kriegsfibel o L’abicí della guerra di Brecht alla morte della cantante e ballerina di flamenco Carmen Amaya; dalle fotografie di Darwin sull’espressione delle emozioni negli uomini e negli animali al muro del pianto di Gerusalemme; dal corteo funebre di Pio la Torre, vittima della mafia nel 1982, al funerale di Adnan al-Malki a Damasco; dalla veglia funebre durante la lotta per l’indipendenza in Kossovo agli insorti caduti durante la Comune di Parigi.
Alain Fleischer considera questi schermi orizzontali non come “un tappeto d’immagini luminose che coprono il pavimento”, ma come “una necropoli, con altrettante tombe scavante nel terreno e come riaperte: non su immagini morte ma su immagini redivive e insepolte. Se pencher à l’appel des fantômes”. A interessare Didi-Huberman – e qui il nume tutelare è il Goya dei Disastri – è la “memoria dei senza nome”, la “tradizione degli oppressi” e le potenzialità estetiche e politiche contenute in tali eventi luttuosi.
Per riprendere le sue parole, è qui questione della vicinanza tra popoli in lacrime (“peuples en larmes”) e popoli armati (“peuples en armes”). Tale questione politica coinvolge direttamente l’estetica: secondo Hannah Arendt, la politica doveva occuparsi degli uomini e non dell’uomo. “Allo stesso modo”, commenta Didi-Huberman, “si dovrà dire, e ribadirlo, che non si arriverà mai a pensare la dimensione estetica – o il mondo del ‘sensibile’ al quale costantemente noi reagiamo – finché continueremo a parlare di rappresentazione o di immagine: poiché ci sono solo delle immagini, immagini la cui stessa molteplicità, che sia conflitto o complicità, resiste a qualunque tentativo di sintesi”. E ancora: “la rappresentazione è, appunto, come il popolo: è qualcosa di molteplice, eterogeneo e complesso” (Qu’est-ce qu’un peuple, La Fabrique 2013, tr. it. Che cos’è un popolo, Derive e Approdi, 2014).
Atlas e le due Histoires de fantômes vanno precisamente in questa direzione, offrendo allo spettatore una distesa popolata di immagini. Una costellazione o, più prosaicamente, un mazzo di carte spaiato sulla scrivania di Didi-Huberman e sul desktop del suo computer. Trascelte le immagini in un paio d’ore, l’atlante è in seguito adattato e riprodotto macroscopicamente in musei sparsi per l’Europa e il bacino mediterraneo. Atlas rinvia così tanto all’omonima figura mitologica che porta sulle spalle il globo terrestre che alla duchampiana boîte-en-valise con le riproduzioni delle opere originali.
Promenade
Histoires de fantômes pour grandes personnes e Nouvelles Histoires de fantômes offrono due diversi modelli d’immersione: al Fresnoy ci si affacciava da un ballatoio per vedere le immagini sul pavimento del pian terreno “scorrere” come l’acqua di un fiume. L’accesso a questo piano era negato, quanto generava una certa frustrazione. Al Palais de Tokyo invece, oltre a un ballatoio sul lato destro, è permesso immergersi nell’ambiente reso tecnologicamente acquatico e camminare letteralmente tra gli schermi. Una promenade che costituisce il terzo gesto.
Il protendersi della prima mostra era una contrainte imposta dal direttore artistico del Fresnoy, Alain Fleischer, in linea con l’attività espositiva dell’istituto, dall’inaugurale Projections. Les transports de l’image (1997) a Let’s Dance (2012) passando per la multiple-screen installation di Patrick Keiler, Bombay. Victoria Station (2007). Questo protendersi era tanto una postura fisica richiesta allo spettatore, come il gesto trasognato di chi si affaccia da un ponte per vedere l’acqua o il proprio riflesso, che un richiamo alla postura scientifica dello studioso, come quando diciamo che un autore è sul pezzo, secondo il senso figurato di “se pencher sur”. Al Fresnoy, l’affaccio dello spettatore sulle immagini in movimento non faceva altro che mimare quello di chi apre un libro o meglio un atlante, quello di uno storico dell’arte come Didi-Huberman che traffica nel suo corpus d’immagini alla ricerca di cortocircuiti che generino nuovi atlanti, nuove dimensioni di senso, nuovi libri per Editions de minuit.
Rispetto a Histoires de fantômes pour grandes personnes, Nouvelles Histoires de fantômes lascia lo spettatore farsi in qualche modo curatore al di là della postura passiva di chi prende semplicemente atto di una configurazione visiva offerta allo sguardo. Come considerare quello che, senza dubbio, resta il gesto curatoriale più forte della mostra al Palais de Tokyo?
Giuliana Bruno apre il suo Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema (scritto in inglese e tradotto nel 2006 da Bruno Mondadori) con un misspelling fecondo: “sight (vista)-seeing”, cioè il giro turistico, diventa un più aptico e geograficamente collocato “site (luogo)-seeing”.
Questa mossa le permette di esaminare “la storia del cinema da un punto di vista architettonico”, di considerarla come “il nostro tipo di atlante: una mappa esposta in forma architettonica sulla parete, impressa nello schermo”. Nel mirino critico – e su questo punto gli intenti di Bruno e Didi-Huberman collimano – c’è “quel corpus di ricerche che, puntata l’attenzione solo e soltanto sullo sguardo filmico, non ha saputo parlare dell’emozione di vedere lo spazio”. Un’e-mozione che Bruno intende come un movimento, un motus dell’animo e del corpo.
Nouvelles Histoires de fantômes compie precisamente il salto dal sight-seeing al site-seeing, dal colpo d’occhio alla topografia, dallo spettatore come voyeur allo spettatore come voyageur. Per chi acquista il biglietto della mostra il viaggio è assicurato: si viaggia con l’immaginazione, come si fa al cinema: Italia (Pasolini), Francia (Godard, Jean Rouch), Germania (Farocki), Spagna (Carlos Saura), Andalusia (Dominique Abel), Romania (Filippo Bonini-Baraldi), Grecia (Theo Angelopoulos), Armenia (Artavazd Pelechian), Russia (Ejzenštejn, Pudovkin, Dovženko, Paradžanov), Iran (Mohsen Makhmalbaf), Cina (Zhao Liang), Brasile (Glauber Rocha), Nuova Guinea (Robin Anderson e Bob Connolly), Africa subsahariana (François di Dio). Ma si viaggia anche fisicamente, come in qualsiasi installazione video che si rispetti, spostandosi da uno schermo all’altro.
La passeggiata si rivela però più complessa del previsto, più uno slalom tra gli schermi che una promenade rivelatrice. L’ingiunzione giunge chiara da un pannello ben piazzato alle due estremità delle proiezioni: non si possono calpestare i 23 schermi, come se fossero aiuole, mine o, secondo la metafora di Fleischer, sarcofagi scoperchiati. Le immagini infatti sono proiettate non al suolo ma su apposite superfici incorniciate da un nastro bianco. Del resto chi lo ha detto che muoversi tra le immagini dialettiche sul lamento fosse cosa agevole!
In una mostra tutta giocata sulla smaterializzazione digitale e la riproducibilità tecnica delle immagini sin dall’epoca del museo immaginario, torna con prepotenza il più classico dei divieti: (si prega di) non toccare le opere – anche se qui delle opere è presente solo un simulacro fotografico o cinematografico senza valore di mercato. Gli schermi da non oltrepassare restano così stazioni di una via crucis che porta il visitatore da un lamento all’altro, lasciando inespresse le potenzialità della proiezione da quando si è svincolata dalla sala cinematografica.
Esposizione-readymade
La storia dei fantasmi raccontata nelle due Histoires de fantômes era anche la storia della mostra inaugurale, Atlas. Come iscriverla all’interno del nuovo contenitore espositivo in absentia delle opere stesse? A quest’arduo compito risponde il fotografo Arno Gisinger che costruisce, lungo le pareti del Fresnoy e del Palais de Tokyo, un montaggio serrato di scatti sull’installazione e l’accrochage della tappa amburghese. Atlas si presentifica, come un’esposizione-readymade, come un fantasma, a dir il vero poco discreto, visto il carattere un po’ ampolloso dell’intervento di Gisinger. È il quarto e ultimo gesto, che includo alla fine in quanto non pensato, come i precedenti, da Didi-Huberman.
Partage
Didi-Huberman è consapevole che Atlas non è un’opera d’arte né, stricto sensu, un’installazione, quanto un’esposizione nel senso accademico del termine, ovvero un “saggio visivo”, “un semplice dispositivo che suscita delle domande”. Egli è ben consapevole che un atlante d’autore è una contraddizione in termini, data la natura anti-soggettiva degli atlanti, come sta a dimostrare tra l’altro la storia del collage e del fotomontaggio.
Eppure è inutile girarci tanto attorno: si va al Fresnoy e al Palais de Tokyo per visitare la mostra “di” Didi-Huberman – l’Atlante degli atlanti. Si penetra in queste istituzioni dedite alla contemporaneità per confrontare le formule del pathos di Warburg e di Didi-Huberman e cogliere la disposizione del suo archivio privato nello spazio; il modo in cui la cartella “Atlas” del suo computer si è proiettata o è esplosa nelle tre e quattro dimensioni di un’esposizione; i termini in cui l’installazione riflette e completa la serie di saggi, tuttora in corso, su L’œil de l’histoire (e di cui Atlas ou le gai savoir inquiet è il numero 3); la declinazione particolare di quella Politische Ikonographie o iconografia politica in corso sin dagli anni novanta ad Amburgo e che costituisce il tentativo più significativo di cogliere l’eredità warburghiana.
Insomma, si visita Atlas e Histoires de fantômes per vedere come i fantasmi e le ossessioni che traversano la mente di Didi-Huberman hanno preso corpo – un’operazione intima, quasi indiscreta, come entrare nel suo cervello, piuttosto che nell’officina com’era il caso di Szeemann.
In conclusione, a ognuno i suoi atlanti, come a ognuno i suoi fantasmi? Didi-Huberman, ne sono certo, storcerebbe il naso, citando probabilmente una frase di Deleuze che lo assilla da tempo: “L’émotion ne dit pas ‘je’”. Non siamo proprietari delle nostre emozioni, perché l’emozione dice piuttosto ‘nous’, è ovvero questione di comunità, di partage. Ecco, se devo condensare in una frase la mia posizione: è in quest’oscillazione interna tra, da una parte, la spinta alla collettività estetica o a un sensus communis e, dall’altra, i sotterfugi più o meno espliciti dell’io di riappropriarsi di tale universo visivo, di ricondurlo a una precisa agency, a un’autorialità, che si collocano gli atlanti e i fantasmi di Didi-Huberman.
Le sue esposizioni senza opere d’arte mettono in opera e all’opera questa tensione irrisolta e forse irrisolvibile. L’atlante non dice, non dovrebbe dire, io: è questa, in fondo, la sfida più ambiziosa e genuinamente politica di Atlas e Histoires de fantômes.