Basilico ritorna a Beirut
Nel 1991 Gabriele Basilico si trova a Beirut insieme ad altri fotografi di fama internazionale per documentare lo stato di devastazione della capitale del Libano dopo quindici anni di guerra civile. Negli scatti di questa prima spedizione del fotografo milanese – ne seguiranno altre tre, nel 2003, 2008 e 2011 – siamo di fronte al fatto evidente della distruzione dell’architettura e, con lei, del significato stesso che assume la vita circoscritta in un certo luogo. È uno guardo in qualche modo inedito per Basilico, abituato a trovare tracce di perfezione anche tra le facciate delle fabbriche di Milano e le strade deserte della Normandia.
Alla storia del particolare amore che Basilico nutrì per Beirut viene reso omaggio ad Alessandria nelle Sale D’Arte con la mostra – che arriva per la prima volta in Italia – “Ritorni a Beirut / Back to Beirut” curata da Giovanna Calvenzi e Christian Caujolle. Attrazione, la sua, che lo portò a sondare le fasi di completa trasformazione della città negli anni, con immagini che dal 1991 ne documentano la ricostruzione in una danza di abbandoni e ritorni durata vent’anni.
Lo spazio, ogni spazio – parola cardine nel concepire ogni struttura edificata – ha in sé il proprio codice per poter essere letto e interpretato, composto dal complesso alfabeto dell’estetica della costruzione edilizia, delle distanze e del posizionamento delle principali mete del cammino umano quotidiano: scuole, ospedali, municipi, chiese, portici, ponti, stazioni, costituiscono nel loro insieme il modo e il senso della vita di un popolo, la storia a cui appartiene, l’insieme eterogeneo di cosa ogni giorno vede, dove si muove, cosa cerca. Gabriele Basilico è noto soprattutto per le sue fotografie di paesaggio urbano e architettura in cui categoricamente l’uomo non compare: lasciati soli, gli edifici parlano in un soliloquio estraneo al nostro modo di percepirli come entità nate per dialogare con una comunità – il loro messaggio parrebbe compiersi unicamente in virtù dello scambio che ad essa offre – mentre, solitari, acquisiscono quella dignità monumentale che ne fa prima di tutto volume, forma, superficie esposta alla luce del sole, come la Cattedrale di Rouen di Monet. Per questo motivo assume un senso specifico, nel tributo del fotografo milanese a Beirut distrutta, la sopravvivenza nelle immagini dei pochi uomini che ancora la abitavano dopo gli scontri, visti come sfuggenti presenze di un dramma assai più vasto inserite nel mosaico frantumato del tessuto urbano. Solo così Basilico ci può far capire che, anche se distrutta, l’architettura non perde mai di significato: distrutta, l’architettura racconta ancora qualcosa di chi prima l’aveva abitata e, soprattutto, voluta. Documentare la fatiscenza moribonda della città segnata dai colpi, resa irriconoscibile talvolta anche nei luoghi un tempo conservati con maggior cura – perché storici – e con devozione – perché sacri – significa per Basilico non tanto cercare tra i resti ciò che suggerisce ancora la verità originaria e passata di quel luogo, bensì trovarla nello stato presente, seppur sfigurato. Blaise Pascal diceva che l’uomo, se si ascoltano bene i suoi pensieri, non lo si troverà vivere mai nel presente, ma sempre nel passato o nel futuro. In questo senso la fotografia aiuta l’uomo a riappropriarsi di ciò che pare sfuggirgli sotto agli occhi costantemente, recuperando brandelli di tempo necessari alla costruzione della trama specifica della memoria, cercando di evitare che anche lei, come Beirut stessa, venga rasa al suolo.
La distruzione porta via con sé parti numerose di ciò che prima era stato intero: provoca, in altri termini, l’eliminazione da un paesaggio originario di quelle porzioni necessarie per completarlo, conducendolo a una sintesi bestiale della propria anatomia. A metà del XIX secolo, John Ruskin – pittore e scrittore britannico, nonché grande studioso di architettura – rappresentava la selezione naturale operata dalle rovine degli edifici storici in carte dipinte con tecniche miste facendo celare dal bianco stesso della carta tutto il resto del paesaggio che rovina non era – il mare, la terra, tutti gli altri edifici che le circondavano; a Beirut, dove tutto è rovina di fronte agli occhi di Basilico, niente va cancellato più di quanto il conflitto abbia fatto, e va fatto emergere tutto ciò che fin lì è riuscito a sopravvivere: questa la scelta, pare, di fronte al compito di rappresentarla.
Niente, infatti, viene sacrificato da Basilico nelle sue vedute, riuscendo a comprimere in esposizioni perfette ogni dettaglio celato apparentemente dall’ombra più scura, e salvando al contempo le nuvole dei cieli più bianchi: in questo senso il metodo, apparentemente frutto solamente di profonda conoscenza tecnica e perfezionismo da fotografo sapiente di architettura, nasconde una propria intima poetica strettamente correlata al soggetto che si propone di rappresentare. Così nei pozzi d’ombra dei vuoti delle porte e delle finestre troviamo gli immaginabili lasciti dentro le abitazioni abbandonate, lo strato sottopelle leso quanto la superficie. Salvare tutto di ciò che già è stato deturpato suggerisce una presa di coscienza completa di fronte al disastro, e carica le immagini del fotografo di una precisa missione di recupero e salvaguardia: salvare tutto (“salvare” è un termine che appartiene anche al gergo fotografico, quando appunto non si brucia niente nell’immagine esponendo correttamente) significa non forzare la sintesi a cui il paesaggio già per altri fattori è stato ridotto, rendendogli dignità di completezza nonostante gli evidenti buchi visivi al suo interno, al suo panorama mutilato.
Nel raccontare il lavoro svolto in Normandia Basilico diceva che in quei paesaggi aveva fatto finalmente esperienza dell’infinito, ovvero, secondo la sua visione, di un orizzonte lontano visibile e toccabile con mano, in contrapposizione alla chiusura che a Milano le architetture esercitano alla fuga dello sguardo: si potrebbe dire che a Beirut Basilico faccia esperienza di un secondo tipo di infinito o, meglio, che si trovi nella condizione di vederlo – molte vedute dall’alto ci spingono fino ai moli affacciati sul mare, o tra gli scorci urbani in cui una lontananza pure s’intravede – ma non cercarlo più, attento più che mai alla documentazione dello stato lacerato d’insieme, alla condizione presente da cui si trova circondato. Dalle strade di Beirut l’occhio non fugge, né deve farlo, ma rimane a constatare da vicino i dettagli dell’evidenza.
Il secondo atto, quello della ricostruzione e della inevitabile sostituzione del nuovo sul vecchio – inteso come ricordo traumatico da cui allontanarsi per costruire una narrazione urbana da zero, si veda l’evoluzione di Milano dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, fase che Basilico, seppur giovane, aveva probabilmente vissuto – è ciò che Basilico racconta in tre fasi e anni distinti in un passaggio che lo vede approdare infine anche al colore, come completamento di un processo e uscita definitiva dall’incubo.
Così le vedute del fotografo si ripopolano della levigatezza dei palazzi finiti, moderni, dedicati a un avvenire di rinnovata stabilità in cui di nuovo si può guardare a una vita normale, volta magari al consumo, al benessere materiale. Le varie fasi di recupero, come ricorda anche Rita Capezzuto all’interno del catalogo che accompagna la mostra, edito da Contrasto, hanno indubbiamente modificato irreversibilmente – quasi quanto ha fatto la guerra, per paradosso – l’aspetto della città, ma allo stesso tempo, dice “le faglie archeologiche, il tessuto storico e le sopravvivenze edilizie erano troppo importanti per procedere a un’avvilente tabula rasa”; per questo le operazioni di recupero si dividono tra quelle più filologiche e quelle di completo rinnovo. L’attrazione di Basilico verso la città ricostruita – documentata a partire dalle stesse prospettive con cui aveva iniziato a fotografarla nel 1991 – è soggetta a quell’effetto straniante del passaggio apparentemente repentino a una condizione opposta rispetto alla precedente. Ecco, dunque, una città nuova: Beirut ha di nuovo strade, parcheggi, abitazioni, incastonati tra i segni ancora evidenti dello scontro sui palazzi non ancora restaurati o ricostruiti. Senza mai drammatizzare ostentatamente, attraverso le immagini di Beirut Basilico restituisce un pezzo di storia dell’uomo riflessa sui muri, delegando alle cose immobili il compito di narrare lo stravolgimento che hanno visto e subito negli anni. Tra il 2003, il 2008 e il 2011, Beirut rinasce a un nuovo presente in mezzo ai cantieri, trasformando radicalmente la propria percezione visiva. Il passato viene cancellato e ridefinito dalle nuove lastricature in favore, come dice Pascal, di un presente passeggero che guarda però già al futuro, di un presente che accade per permettere una nuova costruzione, e che pare avere in bocca – il presente può allora essere anche un cippo con un’epigrafe incisa a monito di chi lo attraverserà – le parole del poeta italiano Attilio Lolini: “La rivoluzione non era / dietro l’angolo / vanno distrutte anche le rovine.”
Da sabato 17 giugno la mostra aperta fino al 1° Ottobre 2023, sarà visitabile dalle ore 15 alle ore 19 dal giovedì alla domenica.
Indirizzo: Sale d’Arte via Machiavelli 13 – Alessandria
Il 13 luglio sarà inaugurata la "quinta" sezione della mostra, intitolata “Gabriele Basilico – Alessandria , 2006” e relativo catalogo.
In copertina, © Gabriele Basilico | Beirut 2008.
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