Benjamin in punta di penna

4 Gennaio 2012

“Was Ist Aura?”. Sono queste le uniche parole che riesco a decifrare. Si leggono in apertura di un documento non datato e manoscritto di Walter Benjamin. Tra i supporti più disparati utilizzati da Benjamin per prendere appunti mi colpisce quello che tenta di definire l’aura, uno dei concetti benjaminiani più indeterminati: una carta intestata “Acqua di S. Pellegrino. La migliore da tavola”. Il logo – una sorta di sponsor dell’Italian Style sul pensiero di Benjamin – non è cambiato: una stella rossa a cinque punte, con l’immagine della bottiglia disposta al centro oppure, come recitavano le pubblicità dei primi del secolo scorso, “la marca stella rossa” da esigere, l’acqua “battericamente pura” rispetto alle altre, che possono contenere “i germi del tifo, della dissenteria e di altre gravi infezioni”. “Was Ist Aura” è riportato giusto sotto l’insegna “S. Pellegrino”, quasi che Benjamin fosse indotto a interrogarsi sulla decadenza e la frantumazione dell’aura a partire non dall’opera d’arte e dalla fotografia contemporanea ma da un marchio pubblicitario. Siamo in piena fantasmagoria della merce: la stella rossa è una materializzazione dell’aura che irradia dal prodotto reclamizzato, un’aureola trasmigrata dal capo dei santi al collo della bottiglia, dall’icona e dalla mistica alla società dei consumi. Forse la sua iconicità funziona per Benjamin anche come un’immagine dell’infanzia, una delle tante che la sua scrittura ha recuperato dal cafarnao della storia.

 

 

“Was Ist Aura?” è uno dei documenti esposti nella bellissima mostra Walter Benjamin Archives al Musée d’art et d’histoire du Judaïsme di Parigi (fino al 5 febbraio), una raccolta di quello che Benjamin avrebbe chiamato “kitsch onirico”. Di quale altro filosofo del XX secolo sarebbe pensabile una mostra del genere? L’aura dell’opera d’arte e della pubblicità ha infine coinvolto Walter Benjamin, oggi vera e propria figura allegorica. Lo dimostrano bene le testimonianze di quanti lo hanno conosciuto, snocciolate nel percorso della mostra: Benjamin come mago, con cappello a punta e bacchetta magica (Theodor Adorno), con la fronte spaziosa (Scholem), la capigliatura folta (Adorno) e brizzolata prima dell’età (Jean Selz); Benjamin con i suoi occhiali rotondi come piccoli proiettori (Asja Lacis) e il suo inconfondibile modo di camminare, sbilanciato verso l’avanti (Scholem); Benjamin con il suo modo di parlare, di usare la voce come fosse scrittura, di avanzare lentamente nel discorso, “come scrutando le parole” (Adrienne Monnier); Benjamin intellettuale distinto ma imbranato e maldestro, con i pacchetti che gli cadono dalle mani (Asja Lacis).

 

Ma ancor più che nelle foto, l’aura benjaminiana irradia nei suoi documenti manoscritti, nelle didascalie riportate sul retro delle fotografie della sua collezione, nei carnets, ognuno diverso dall’altro per copertina, formato, carta e foliazione. Sono impregnati di una scrittura microscopica e appuntita di difficile decifrazione, come una lingua sconosciuta o un messaggio prodigioso indirizzato a un lettore ignoto e da non disvelare alla prima occhiata. In una pagina presa a caso, non la più fitta, conto 55 righe sottili come un filo. La scrittura di Benjamin crea sulla pagina un muro di parole che non lascia al bianco alcuno spazio di manovra. Il bianco non deve insinuarsi ai margini della pagina, nella maglia tra un paragrafo e l’altro, tra una parola e l’altra, tra una lettera e l’altra. Non bisogna lasciare al vuoto, all’insensato, la possibilità di aprire una crepa nel mondo costruito dall’uomo. E i margini non sono necessari perché il testo è già una glossa sul mondo, un tentativo di parafrasarlo, di renderlo leggibile.

 

Tuttavia, come si procede verso la fine degli anni trenta, questi minuscoli segni grafici stipati sulla pagina assumono un altro senso: Benjamin scrive nel timore che ogni pagina possa essere l’ultima o che i suoi carnets siano composti da una sola pagina, come i giornali pubblicati in tempo di guerra. L’aria allarmata del tempo è restituita in Walter Benjamin Archives dalla selezione delle lettere degli ultimi anni, quelli dell’esilio francese e del tentativo di mettersi in salvo fuggendo in Spagna, Portogallo, Stati Uniti. È esposto anche l’affidavit di Horkheimer, necessario per ottenere il visto d’ingresso per gli Stati Uniti, per una New York in cui non metterà mai piede. Le lettere di Benjamin sono spesso redatte in francese anche quando i destinatari sono tedeschi come lui – il francese diventa così la lingua franca in cui comunicare per uno scrittore che, nel maggio 1939, si vede tolta la cittadinanza tedesca.

 

 

Mi viene in mente il destino di un altro intellettuale tedesco le cui vicende esistenziali sono state segnate da un’esperienza bellica che ha visto il mondo andare in rovina e che, per questa ragione, ha concepito la sua opera come un immenso archivio: Kurt Schwitters e il suo Merzbau. Guardiamo l’ultima foto che conosciamo di lui, presa in Inghilterra il 20 giugno 1947, in occasione del suo sessantesimo compleanno. Dalla tasca della giacca fuoriesce l’estremità stropicciata di una lettera. È datata 16 giugno e proviene dal Museum of Modern Art di New York. Il museo comunica a Schwitters il conferimento di una borsa di $1,000 ($ 2,000 verranno aggiunti in un secondo momento) per restaurare il Merzbau di Hannover o quello di Oslo o, ancora, per ricostruirne uno ex novo. Schwitters non ne usufruirà mai: morirà sei mesi dopo, e i fondi del MoMA saranno impiegati per coprire le spese del suo funerale.

 

      

 

Di ultime lettere di Benjamin, la mostra parigina è piena, da quella a Gretel Adorno (Lourdes, 19 luglio 1940) a quella ad Adorno del 2 agosto 1940 dove si legge dell’“assoluta incertezza su ciò che porterà il prossimo giorno, la prossima ora”. In un momento in cui l’esperienza quotidiana si fa carica di presagi e minacce incombenti, persino le emissioni radiofoniche sembrano annunciare a Benjamin “la voce del messaggio di sventura”. La situazione sembra precipitare nel giro di pochissimi mesi. Risale all’anno precedente, al 1939, una foto scattata a Pontigny da Gisèle Freund (su cui si tiene in contemporanea un’altra mostra parigina alla Fondation Pierre Bergé - Yves Saint Laurent). Benjamin cammina lungo un fiume, con il profilo di una chiesa sullo sfondo; la postura è raccolta, lo sguardo assorto e obliquo verso il basso, rivolto al passato, se non fosse che tiene tra le dita una margherita. Che si tratti del “fiore azzurro nella terra della tecnologia” di cui parlava Benjamin pensando al “blaue Blume” di Novalis, immagine romantica di un’età dell’oro in cui l’uomo era tutt’uno con la natura e che, nelle mani di Benjamin, si fa immagine di speranza, di redenzione messianica?

 

L’ultimissima lettera di Benjamin è scritta il 25 settembre 1940 da Port-Bou e indirizzata a Henny Gurland e Theodor Adorno – un documento sorprendente, assolutamente diverso dagli altri. È l’unico manoscritto, il più conciso in mostra con le sue cinque righe, che riesco a decifrare senza l’ausilio delle didascalie. È redatto su un foglio poco più piccolo di un A4, gigante in confronto agli altri documenti di Benjamin. Diversa anche la calligrafia: piana, rotonda e non più ispida, la stesura ferma. Non traspare alcuna inquietudine del filosofo a un passo dalla fine e in bilico tra Francia e Spagna, tra Europa e Stati Uniti, tra il tedesco e il francese. “La mia vita terminerà in un paesino dei Pirenei in cui nessuno mi conosce”, leggo, e resto interdetto nel non riuscire a mettere insieme il pensiero e la sua iscrizione grafica.

 

 

Chi conosce bene le vicende benjaminiane e le ipotesi più o meno fondate sorte attorno al suo decesso – emorragia cerebrale, suicidio con assunzione di morfina, persino assassinio per mano di guardie staliniste o della Gestapo – starà ora scuotendo la testa, consapevole che ho preso un grosso abbaglio. In realtà l’originale dell’ultima lettera di Benjamin fu distrutto da Henny Gurland dopo averla mandata a memoria. Fu lei stessa a ricostruirne il contenuto una volta al sicuro in Spagna, per comunicarne il contenuto ad Adorno. In fondo è quello che ci insegna Walter Benjamin Archives: il vincolo indissolubile tra esperienza e ricordo, che questo passi attraverso delle foto, degli oggetti collezionati, delle note, dei disegni o, come nel caso dell’ultimo pensiero di Benjamin, attraverso la penna di un testimone.

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