Bersani, mi ricordo di te
“Pensa:/ cangiare in inno l’elegia, rifarsi;/ non mancar più.”, scrive Eugenio Montale in Riviere (1920). Trasformare l’elegia in un inno: cosa significa? Che cos’è, un’elegia? E in che senso l’inno dovrebbe esserne l’auspicabile superamento?
Detto molto semplicemente, l’elegia è un genere poetico associato in origine a riti funebri, poi comunque a temi malinconici, nostalgici; il suo carattere è quello della dolente riflessione, del ripiegamento su se stessi. L’inno, all’opposto, è un’aperta celebrazione, un pubblico appello (“Fratelli d’Italia…”; “Debout, les damnés de la terre…”); anche musicalmente ha di solito un carattere corale, esortativo, ottimistico; suona come una chiamata all’azione, una marcia verso il futuro.
La canzone di Gianna Nannini (con la collaborazione di Isabella Santacroce) scelta da Pierluigi Bersani come “bandiera” musicale del Pd per la campagna elettorale del 2013 si intitola, appunto, Inno. Saputo il titolo, uno va ad ascoltare il pezzo prescelto, e rimane un po’ spiazzato. Certo, nessuno si aspetta che il partito della Bindi e di Fioroni adotti il modello “Bandiera rossa” per il suo stendardo musicale: i tempi cambiano, e con loro i linguaggi e il gusto; ma –titolo a parte- in che senso la canzone della Nannini può essere considerata un inno, e come tale utilizzata? Forse Bersani è stato colpito da versi come “che bello è vivere/ se vivere è con te”, o dal finale che allude a una imprecisata rigenerazione (“So che tornerai/ nel tempo che verrà/ […] Sei vita, quasi libertà”). A questi versi di gioia e di speranza, d’altra parte, fanno da contrappeso altri molto meno ottimistici: si parla del “buio che farà”, del “freddo che farà”, si parla di un “sorso d’acqua tra le dita” che va via se lo stringi, di pioggia, di lacrime, di vento che porta via. “Mi ricordo di te”, recita il sognante incipit. Un inno, di norma, non si rivolge a una seconda singolare, a un tu; di norma, un inno ha un carattere anche musicalmente trascinante, risoluto; per restare al repertorio della Nannini, Fotoromanza (contenuti a parte) è più vicino all’inno di questa Inno, che ha invece il sapore elegiaco di tante canzoni d’amore. Con questo, non voglio dire che un inno debba sempre e obbligatoriamente avere certi tratti fissati una volta per sempre; voglio solo riflettere sul fatto che un partito decida di comunicare la propria prospettiva, la propria volontà politica, attraverso i chiaroscuri e i languori dell’elegia.
Confrontiamo la strategia comunicativa del Pd con quella del suo principale avversario politico: il Pdl. Un anno fa, nel febbraio del 2012, Berlusconi in persona (in collaborazione con Mariarosaria Rossi e Danilo Mariani) stendeva il testo della nuova canzone-manifesto del movimento: Gente della Libertà: “Noi siamo il popolo della libertà,/ gente che ama la luce,/ che non prova invidia e odiare non sa./ Gente che non ha rancore/ e ha come valore la sua libertà/ e porta insieme una bandiera nuova,/ che non si arrende e non si arrenderà, / che lotta per la verità».
Nemmeno qui, come si vede, siamo troppo lontani dalla canzonetta (J.Ax ha accusato Berlusconi di essersi ispirato al suo Gente che spera, del 2002); mancano del tutto, però, i tratti elegiaci del pezzo della Nannini. Come ogni inno che si rispetti (si fa per dire…), il testo ha un carattere decisamente assertivo, dichiarativo; a parlare è un soggetto collettivo (la «gente», appunto) che si autocelebra senza ripiegamenti. Certo, a essere sacrificata è –a dire il minimo- la complessità del programma politico che viene presentato; ma la retorica non ha incrinature. Forse ancora più riuscito, nella sua impavida convenzionalità, era il primo inno berlusconiano, Forza Italia (per non parlare della invereconda sviolinata di Meno male che Silvio c'è).
Di questa retorica –sanguigna, ruspante, pesantemente «popolare»- il Pd non sembra più capace. Nel 1996, La canzone popolare di Ivano Fossati aveva ancora –nel testo e nel «tiro» della musica- il sapore di una fiera esortazione (Alzati!); ma già nel 2006 l'appiccicoso ritornello di Il cielo è sempre più blu, ripescata dal repertorio di Rino Gaetano, suonava, più che come un attestato di fede nel progresso, come una trasognata smorfia autoironica. Mi fido di te, di Jovanotti, adottata nel 2008 da Veltroni (uno dei principali fautori della svolta «pop» della sinistra), proponeva la sua fortunatissima ricetta fumistico-umanitaria, in cui a una strofa-minestrone, dove può entrare tutto e il contrario di tutto, dalle rane alla croce alla dea dell'amore, si alterna–come direbbero Elio e le Storie Tese- «un lieto ritornello che non c'entra un cazzo ma che piace ai giovani»: «Mi fido di te./ Che cosa sei disposto a perdere?». (Già, perdere…).
Nel 2011 è stata la volta di Neffa. Fin dal titolo, la sua Cambierà rimetteva in pista i canoni della buona vecchia innologia. Retoricamente, il pezzo non fa una piega: al dolore e all'ingiustizia del presente si contrappone la speranza condivisa in un cambiamento. Un tantino schematico, si dirà; ma almeno qualcosa ci si capiva. Un inno non è un'elegia duinese. Degli sviluppi più recenti abbiamo detto.
Un'ultima considerazione resta da fare. Mentre il Pdl progetta e compone i suoi inni come un prodotto costruito espressamente per certi fini comunicativi, il Pd da decenni si limita a scegliere qua e là nel supermarket del pop, cercando di prendere luce e lustro dal prestigio di questa o quella star più o meno «di sinistra». La sua fiducia nelle virtù della canzonetta, evidentemente, è maggiore di quella che nutre nelle proprie ragioni politiche. Il caso di Inno, con Bersani che twitta «E' un disco bellissimo», è un ulteriore passo avanti in questa direzione: mentre nel passato il cantautore faceva da testimonial del partito, ora è il partito (e addirittura il suo leader) a promuovere un disco appena uscito, senza troppe preoccupazioni per la coerenza del «messaggio» con il progetto politico in gioco, e dunque per la riuscita comunicativa dell'operazione. Non voglio certo proporre un ritorno a schemi zdanoviani nel rapporto tra arte e politica, per carità; ma non ci sarebbe niente di male se il prossimo inno del Pd fosse pensato come tale, e composto –con fantasia e creatività, ma anche con umiltà retorica e artigianale- in vista di quella che una volta si chiamava propaganda. Posso fare una proposta? Secondo me, questo lavoro lo farebbero bene Eugenio Finardi, o Roberto Benigni. O invece –chissà- Bersani stesso potrebbe scoprirsi doti di paroliere.