Bestiario selvatico
Se dovessimo scegliere un modo per raccontare gli animali, probabilmente, ora, dopo aver letto Bestiario selvatico (La nave di Teseo), faremmo fatica a non indicare quello a cui ricorre lo scrittore e musicista Massimo Zamboni. Cosa troviamo in questo splendido libro? Prima di tutto, la scelta di un atteggiamento, o, ancor meglio, di una disposizione d’animo. Facendo l’opposto rispetto a quanto è abitudine (se ci si pensa, spesso, camminando nei luoghi naturali, ci si augura di non imbattersi in strane bestie), l’autore ha desiderato incontrare gli animali selvatici, in particolare quelli che non dovrebbero esserci, “gli intrusi” provenienti da altre aree del pianeta. Per riuscire nell’impresa, gli è stato necessario mettersi in attesa, rendersi disponibile all’attenzione e alla meraviglia, imparando “l’arte del silenzio e del movimento lento”.
Le brevi prose di Zamboni sono, a ben vedere, resoconti di viaggio nell’Italia inosservata, quella della pianura padana, degli oscuri borghi appenninici, delle aree confinanti con i paesi di provincia, con i rettifili di strade e autostrade. È in questi luoghi che si è messo in cammino, è andato alla ricerca, ha assommato indizi, guidato da quanto ha letto, o andando là dove gli è stato segnalata una inedita presenza vivente o dove lo ha accompagnato il caso. Bestiario selvatico è un libro nato per accumulo, di incontri con esseri umani e con altri animali, che, come si legge, “hanno allargato l’occhio” di chi scrive.
Ma se per avvicinare le vite degli altri bisogna aprirsi alla loro presenza, scriverne significa fare i conti con se stessi. Confinare gli animali su una pagina è sempre, in qualche modo, una sfida. Che Zamboni decide di affrontare non cercando di scomparire in nome di una impossibile fuga dalle insidie dell’antropocentrismo. Facciamo degli esempi. Ponta, il solitario castoro riapparso vicino a Tarvisio, sembra pavoneggiarsi “per quella confidenza che ha con l’ambiente liquido” e da lui, incrociando per un solo istante i suoi movimenti, ci si aspetterebbe “un cenno d’intesa, un occhiolino”. Diversa appare la solitudine di cui soffre la tartaruga palustre americana che vive in uno stagno di collina emiliana: la sua “testa che sbuca dalla superficie altrimenti immobile, è l’immagine stessa della malinconia” e fa nascere la “voglia di accudirla”.
L’istrice, importata dal nord Africa dai romani, e da allora in ininterrotto cammino lungo la penisola, nelle sue improvvise apparizioni notturne, sembra “un guerriero giapponese, samurai di tutto punto”. Le cicogne, riapparse da qualche decennio nella campagna reggiana dopo due secoli di assenza, sono “l’archetipo di quel villaggio locale che alberga in noi”. Il gambero di fiume, frequentatore del torrente Rodano che scorre vicino alla casa natale di Ludovico Ariosto, compendia i tratti di Rodomonte: “L’attaccar briga, il non negarsi mai alla battaglia, l’essere arrogante e senza tema, vanitoso, rozzo”. L’airone rosso, di nuovo presente “nelle zone umide emiliane, nelle risaie piemontesi, negli stagni di Toscana”, “cammina come un uomo solitario, sembra quasi passeggiare”, dando anche l’impressione che “borbotti, biascichi qualcosa, rimugini”: non a caso “rimanda “curiosamente allo stereotipo del notabile”.
Quando ci si imbatte in un ibis eremita, la sensazione è che “sia un difetto di natura”: appare come un vecchio animale (del resto il nome scientifico è proprio Geronticus eremita), calvo, con gli occhi ingialliti, rugoso. I fenicotteri di Comacchio, quando sondano con le zampe le acque fangose per recuperare vermetti, gamberi o altre prelibatezze, sembrano danzare. Il pesce siluro, “il leviatano padano”, è “un curiosone”. Le rane toro, pressocché invisibili al nostro sguardo, “preferiscono esibirsi nelle serenate alla prima alba o dopo il tramonto, in orari poco urbani”. “Una calma tutta loro”, ha spinto gli aironi guardabuoi “a una condotta di vita lungimirante che poco concede allo spreco o all’esibizione” e nella loro sistematica azione di raccolta di tutto ciò che rimane sui campi, “danno l’impressione di brucare”.
Le gambusie, pesci specialisti nell’eliminazione delle zanzare anofele, vennero “assoldate come milizie mercenarie dal regime fascista”. I parrocchetti, “sudamericani per temperamento e lontanissima ascendenza, ripropongono i tropici tra i palazzi grigi” delle città italiane. Il gabbiano Larus ridibundus è “irridente”, mentre il cugino Larus michahellis assomiglia all’uomo, con quell’abitudine alla minaccia, allo scontro, al furto sistematico.
Attraverso questa modalità espressiva, se lo sguardo dell’autore si estende, rimane pur sempre il suo, umanissimo, punto di vista ad inquadrare gli incroci con gli altri viventi. È una precisa scelta di campo, forse un processo inevitabile, che ha comunque delle spiegazioni. Per avvicinare gli animali, scrive Zamboni, dobbiamo renderli simili a noi. Li dobbiamo abbassare, attribuendo loro caratteri e, in particolare, difetti umani. Probabilmente lo si fa “come unica difesa” di fronte alla loro “alterità e bellezza”. Il risultato è che, anche se “non possiamo scalfirli” – gli animali rimangono stupendamente inafferrabili – riusciamo però a immaginarceli. In effetti Zamboni, grazie a una prosa sinuosa, si direbbe a onde paratattiche, tesa ad un costante morbido sforzo di avvicinamento all’oggetto, ci aiuta a pensare gli animali. Ce li mostra.
Leggendo, finalmente, percepiamo gli animali con cui conviviamo ma che “sfuggono all’occhio collettivo” fino a quando il loro numero o i loro danni diventano consistenti. E non è questo proprio quello che oggi manca? Riuscire a vedere gli animali, coglierne la presenza, sentire ciò che è vivo al di fuori di noi? Restituire o dare fisicità a quanto è puro nome? Sfuggire alla logica del bestiario medievale (che altro non era se non collezione di repertori immaginati e mai vissuti)? Ecco una rassegna di “apparizioni”, colte nella loro stordente (per noi) dinamicità. Il castoro Ponta ha “un corpo inaspettatamente lungo, un metro e forse più, solido, potente”. Dell’istrice si raccoglie sul terreno “una firma”, “un aculeo durissimo, nero e bianco, lungo una spanna intera”. Le nutrie hanno il volto illuminato “da una folta peluria di baffi” e un “aspetto arruffato” quando la pelliccia è bagnata; amano grattarsi “con soddisfazione, spariscono e riappaiono scostando le canne palustri”.
Le cicogne del Gavasseto scoprono “un collo piegato all’indietro”, producono “una scarica di clicketi-clack di becco, richiamo di saluto e di conoscimento, una seduzione, un corteggiamento”. I colombacci, diventati sedentari, solcano “i cieli a fronte alta, la testa sollevata, le ali che battono rumorosamente, veri e propri schiaffi in aria”. Il pesce siluro, in grado di raggiungere i quarant’anni di età, “sembra un cetaceo, un mammifero”, l’assenza di scaglie lo fa sembrare “nudo, di una nudità scomoda”, la pelle “impregnata di muco lo rende inafferrabile”. “Una lunga proboscide, quasi da formichiere, un aspetto corazzato, solido, sei punti neri sul dorso, una filettatura elegante sulle elitre” caratterizzano un coleottero, il punteruolo rosso. Dello sciacallo, colto da un visore notturno, appaiono "due occhi tondi, globosi, fosforescenti”. L’olfatto sviluppato e la vista eccellente, la capacità di coprire cinquecento chilometri in volo in un paio di giorni, sono le qualità dell’avvoltoio grifone.
Ogni incontro – si pensi a tutto quello che si lega al ritorno del lupo – si traduce così in una scoperta, che, a sua volta, ci spinge a interrogarci: perché gli animali sono “specchi e ombre del nostro vivere”. In questo modo, la “collezione di apologhi narrativi” sugli animali non originari delle nostre latitudini, inevitabilmente, porta con sé una serie di riflessioni “sul senso di residenza, sul carattere legittimo della nostra identità, sulla somiglianza con la terra che ci ospita”. Attraverso quest’ottica, come spesso accade, un libro sugli animali diventa un libro sull’uomo e l’atteggiamento dell’etologo e dello zoologo (Zamboni è attentissimo alla prospettiva scientifica) si giustappone a quello del moralista, consapevole che “ogni sguardo di selvatico porta con sé un rimprovero taciuto”.
Per quale motivo? Gli animali sanno che li abbiamo dimenticati, relegandoli nelle condizioni di espressioni deficitarie del vivere. Il nostro stare nel mondo fatica ad ammettere la loro presenza. Quanto sta accadendo – l’aumento degli intrusi, il ritorno di chi sembrava perduto, l’alterazione degli equilibri degli ecosistemi per via dello sviluppo asimmetrico del rapporto tra prede e predatori – dimostra, ancora una volta, il punto dove siamo arrivati e rende evidente “la nostra inferiorità: di energie, di prospettive, di tempo a disposizione”. Ne deriva una conseguenza, che lasciamo descrivere a Zamboni: “L’idea di essere creature elette non si può più attuare: assetati, stressati, ammalati, inquinati, irritati, pensiamo di aver vissuto l’estate più calda degli ultimi cent’anni senza realizzare che sarà la più fresca dei prossimi: siamo diventati noi gli alloctoni?”.