33 poesie / Cees Nooteboom: viaggi, isole, tombe

31 Luglio 2020

L’occhio del monaco è un libro di poesie di Cees Nooteboom tradotto nel 2019 da Fulvio Ferrari per Einaudi, che segue Luce ovunque, uscito nel 2012. Nooteboom è autore di libri di viaggio, saggi, romanzi, poesie, nato all’Aia nel ’33, che ha viaggiato sin da giovanissimo in tutto il mondo, aprendosi e aprendo la sua scrittura a tutte le influenze, lasciandosi contagiare da passioni e rituali, mescolandosi con altri tempi e altri luoghi.

L’isola dei monaci è il luogo dove ha iniziato a scrivere questa ultima silloge, un’isola nel cui stemma vi è un monaco grigio al cui occhio non si può sfuggire, che tutto vede e tutto rassicura, ma più di ogni altra cosa invita a vedere. La costruzione del libro ricorda questo occhio da cui sembra non voler uscire, dove sembra voler sostare; una costruzione circolare, come se perimetrasse l’isola o come se perimetrasse l’occhio del monaco, portando ogni verso avanti ma al contempo indietro. Lo schema metrico sempre uguale contiene incontri e sogni lungo trentatré poesie: sono descrizioni di immagini oniriche, talvolta surreali, altre realistiche. Pochi sono gli interni, nei quali spicca come oggetto il letto, molti gli esterni, moltissimi gli animali talvolta parlanti: parole, mormorii, mottetti, sussurri, tutto irraggiungibile. E gli incontri con le persone si mescolano ad animali e natura: sono persone scomparse o spiriti che con le loro antiche sembianze diventano parola spesso inudibile. 

 

Il mare attorno, le luci, i fari, le dune inneescano il dialogo che Cees Nooteboom intreccia con sé stesso, un sé stesso che è un io e un lui al contempo, con grandi poeti del passato, con persone care che non ci sono più. È un dialogo continuo fatto di vento e acqua, mare e linguaggio. Quali sono le parole che intercorrono? Pochissime, perché sono parole che escono dalle bocche ma non arrivano alle orecchie dell’interlocutore, il vento le porta via o talvolta sono incomprensibili, sono fatte di un’altra lingua, appunto di un altro luogo, un luogo altro. Ma sempre di linguaggio si tratta, c’è una comunicazione, uno stare in ascolto e un recepire un messaggio poetico dato che il linguaggio è composto anche di corpo, abiti, movenze, gesti, o semplicemente di sembianze. 

 

        Qui incontro chiunque, demoni di altre

                  vite, animali d’un blasone dimenticato,

donne in forma di leone, unicorni,

maiali in maschera, cado giù dal mio dipinto

 

e cerco con lo sguardo il pittore, non ha ancora 

terminato la mia mano, una formica passa sul colore,

il pianista nel bunker suona una canzone

della guerra. Così tutto mi ritorna,

 

il pilota morto sull’albero, la voce di mio

padre che sapeva mangiare camminando, sento il suo

suono ma non le parole, lo so,

vuole andare alla sua tomba, ma non posso aiutarlo.

 

Non ne ha una. 

 

Il linguaggio diviene preziosa chimera – “una lingua che non parlo, che ascolto”, “una frase senza parole”, “linguaggio rispecchiato nel linguaggio”, “parole irraggiungibili”, “sento il suono ma non le parole” – desiderio dell’altro, di presenza, di ricordo, di un legame, forse solo di una visione che si fa parola nella mente di chi legge. Questa poesia è un inno all’attenzione addestrata tramite i globi oculari, è l’attenzione che si fa immagine e che si fa verso. Il rimando alla silloge precedente è immediato: Luce ovunque, un continuo incalzare a vedere, sin dalle prime poesie dedicate al poeta giapponese Bashõ in cui descrive il moto che esegue l’occhio del poeta perché “Una macina è il poeta che trasforma il paesaggio in parola”. In entrambe le raccolte c’è una fortissima contestualizzazione personaggio/paesaggio, c’è di continuo un dove in cui accade ogni poesia, un dove che quasi sempre è ambientazione che si fa contrasto quasi a indicare una sprezzatura tra l’uomo e il suo luogo. 

 

La presenza così forte del paesaggio in queste poesie non stupisce se si pensa ai libri di viaggi dello scrittore olandese e ai suoi romanzi, sin da Rituali in cui il protagonista Inni, si converte nella sua passività quasi solo alla funzione di occhio nel mondo: un personaggio assente che guarda alle rovine dell’altrui mondo e del proprio mondo. In Mokusei, il monte Fuji impassibile e distaccato fa da sfondo a una storia d’amore di cui restano solo due fotografie che condannano all’immobile durata della passione nel fluire della vita. In Il canto dell’essere e dell’apparire, meraviglioso testo sul senso del narrare, è Roma a mettere crudelmente in evidenza come la natura, il luogo, il paesaggio, stiano a splendere attorno alla disperazione di un amore fino a rendere anche l’autore irreale. In La storia seguente saranno una assolata Lisbona e una incitante Amsterdam a dare il cambio di scenario a un infaticabile e surreale sovrapporsi di ricordi e immagini. 

 

 

La poesia e la prosa di Nooteboom sono abitate da personaggi morti, conosciuti o scrittori mai incontrati, con i quali l’autore crea una sorta di poesia sulla poesia, in un dialogo che costruisce il suo modo di scrivere e ragionare di scrivere poesia.  La morte è pure una presenza costante in tutta la sua produzione letteraria, proprio perché scrive della vita e la morte ne è paesaggio inevitabile. Una morte che è spesso dialogo in queste poesie e prose, se si pensa al bellissimo Il giorno dei morti, una summa di conversazioni impossibili quanto reali con sullo sfondo una Berlino piena di neve. È il libro Tumbas. Tombe di poeti e pensatori, con fotografie di Simone Sassen, che si amalgama quasi senza soluzione di continuità con le poesie di L’occhio del monaco. In Tumbas un alternarsi di immagini, di lapidi, e di testo: le parole sono di Nooteboom, degli autori sepolti, di autori che hanno scritto di loro in un continuo dialogo come in L’occhio del monaco. Nooteboom stesso dichiarò che “scrivere sulla poesia è un dialogo continuo con altri poeti. Ho cercato di far visita alle tombe di uomini che amo in modo particolare, come Montale e Ungaretti”.

 

In 533 Il libro dei giorni Noteboom, infaticabile viaggiatore, compie un viaggio autentico e mirabolante dentro uno spazio fisico circoscritto, la sua casa estiva a Minorca, e uno spazio ampissimo che sono le sue riflessioni che spaziano dal tempo alla botanica, dalle tartarughe ai dizionari, dagli scrittori amati e non amati alla musica, e molto altro ancora. 533 sono i giorni di stesura di questo diario di viaggio di uno scrittore all’interno di un piccolo luogo, la sua casa e il suo giardino, da cui trae ispirazione di riflessione: “non è nemmeno certo che questo sia davvero un diario, forse è piuttosto un libro dei giorni, uno strumento per trattenere di tanto in tanto qualcosa del flusso dei pensieri, delle letture, di quel che si vede, di certo non è un libro di confessioni”. Come in tutti i suoi scritti, in poesia e in prosa, immagini e parole si susseguono in dialogo, rincorrendosi giocando con la lingua: “i dizionari non sono soltanto stanze del tesoro, sono anche cimiteri: se sono buoni, oltre ai vivi e ai neonati ospitano i morti, le parole uscite dall’uso e sparite per sempre”.

 

Cees Nooteboom ha sempre sostenuto la non separabilità di scienza e poesia in quanto pensa possano e debbano compenetrarsi; più volte in convegni e alla stampa ha ribadito che si combatte l’ignoranza con l’informazione e la poesia. La sua opera è esattamente questo: un libro di viaggio per imparare a guardare alle cose, e dal guardare trarre informazione e combattere l’ignoranza, usare la poesia per capire e non come orpello. In L’occhio del monaco la parola è filo spinato accuratamente ricamato che tiene in piedi un viaggio di 33 poesie, un viaggio interiore dove spazio e tempo sono correlativo oggettivo di incontri, dove i morti parlano e i vivi non sentono: esprime l’inesprimibile, parla di tutto attraverso una visione.

 

Perché non ci lasciano in pace, i morti?

Spargono i loro nomi sulla strada

su cui dobbiamo camminare, insinuano i versi

delle loro poesie nell’ultimo sonno prima del mattino

 

e poi di nuovo se ne vanno, assenti come

fosse una professione, volgendosi altrove, senz’occhi,

nascosti dietro un loro gergo, il dialetto

che i morti parlano tra di loro, a noi

 

inaccessibile, razza senza passaporto

né voce che irrompe nella nostra memoria

senza preavviso, ci cammina accanto

si siede sul bordo del letto in cui

 

un tempo si stendevano.

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