Chi erano le ragazze? Crollo di un sogno
Le ragazze arrivano alla spicciolata. Hanno fra i 16 e i 29 anni; qualcuna è accompagnata dalla madre.
Un’insolita cappa di gelo grava su Roma. Nell’Italia del Nord ha nevicato.
È il gennaio del 1951. Il 15. Lunedì.
Le ragazze indossano cappottini leggeri, inadeguati al freddo intenso. Sono logori, riadattati dopo essere stati usati per anni dalle madri o dalle sorelle maggiori, secondo un diffuso costume della miseria del tempo. Quei cappottini consunti si portano appresso gli stenti della guerra confessando le ristrettezze del dopo. Sono il poco che c’è. Stoffe grossolane, colori mortificati.
“Erano tutte un po’ miserelle”, racconterà il signor Memmo, il falegname, tra i primi a soccorrerle.
In città c’è tensione: si aspetta la visita del generale Eisenhower, nominato da poco comandante delle forze del Patto Atlantico. Ci saranno scioperi e manifestazioni in tutto il paese; quattro morti soltanto in Sicilia.
Le ragazze cominciano ad affluire a via Savoia alle 8 del mattino, molto prima dell’ora indicata dall’annuncio pubblicato la domenica precedente sul quotidiano Il Messaggero:
“ Signorina giovane intelligente volenterosissima, attiva conoscenza dattilografia, miti pretese per primo impiego, cercasi. Presentarsi in via Savoia 31, interno 5, lunedì ore 10-11 e 16-17”.
Via Savoia è, almeno per buona parte, una strada di eleganti villini e agiati palazzi. Si sviluppa in un quartiere alto-borghese, Ludovisi, tra una via consolare assai nota, la Salaria, nel suo tratto cittadino, e un’arteria di una certa importanza, viale Regina Margherita.
Alle 10, la portinaia apre il cancello. L’eccezionale affollamento la disturba, e la preoccupa. Borbotta il suo fastidio. Dirà poi di aver avvertito le ragazze del pericolo. Quando capisce che nessuno le bada, chiama il commissariato del quartiere, ma sono tutti impegnati per la visita di Eisenhower prevista due giorni dopo, mercoledì 17. La “pubblica sicurezza” vuole convincere i commercianti a non chiudere i negozi, come, per prudenza, vorrebbero fare. Che impressione potrebbe ricavarne l’importante ospite?
Il commissariato dunque non risponde, e tra le 10 e le 11 di lunedì 15 gennaio, duecento giovani donne, forse più, cominciano a premere sulle scale del villino di via Savoia 31, che, nel breve arco di quell’ora, resta avvolto in un caldo chiacchiericcio. Le ragazze si raccontano, e raccontandosi si osservano, si spiano, cercando d’indovinare le avversarie più temibili, quelle capaci di battere le mitiche 60 parole al minuto. Ma la convinzione di molte di loro è che le più pericolose non siano le più brave o le più veloci, ma quelle più belle, quelle che si fanno notare.
Intorno alle 11, il crollo. Improvviso. Un boato, un “fragore assordante” spezza la vita della città. Vengono giù due piani di scale (l’inchiesta dei vigili del fuoco accerterà poi una carenza strutturale del fabbricato). Nel “groviglio delle ringhiere” precipitano le ragazze insieme ai loro poveri cappottini. La voragine di via Savoia risucchia il sogno che le ha trascinate fin lì : un posto di dattilografa dalle “miti pretese”. E anche il loro sogno è di “miti pretese”: semplicemente poter lavorare, aiutare la famiglia, o raggiungere l’autonomia, sposarsi, mettere su casa, e, magari assomigliare almeno un po’ alle eroine di carta dei fotoromanzi preferiti. Quando vengono sgombrate le macerie delle scale, tra i calcinacci, nel mucchio avvilito delle scarpe e delle borsette, riemergeranno, quasi come una beffa, i colori squillanti delle copertine inzuppate di polvere: Grand Hotel, Sogno, Bolero. Le spoglie del disastro, le chimere in frantumi delle ragazze di via Savoia. Una di loro, Anna Maria Baraldi, 26 anni, muore al Policlinico poche ore dopo il crollo. Accompagnata dalla madre, Anna Maria era arrivata tardi a via Savoia. Visto l’affollamento, voleva andarsene. Una delle ragazze la convince a fermarsi: perché non provi? Il titolare sembra una brava persona. Almeno una di noi ce la può fare. Anna Maria si ferma. Si sistemerà sulle scale, nello stretto spazio rimasto, poco prima dello schianto.
La storia non finisce qui. Di quelle ragazze spinte dalla speranza, di quel giorno gelido, 15 gennaio 1951, di quel villino fragile in cui la speranza va in fumo, si parlerà ancora. E a lungo. Giuseppe De Santis, il regista di Riso amaro, e Cesare Zavattini, fra i creatori del neo-realismo, vogliono saperne di più. L’idea è di portare la storia di via Savoia sullo schermo. Lo faranno l’anno successivo con Roma, ore 11.
Ma De Santis e Zavattini non vogliono raccontare solo l’accaduto, inseguono i “pensieri”, le “emozioni” di “quella mattina”, di “quel giorno”. Cominciano a chiedersi: “chi erano le ragazze? Da dove venivano? A quali categorie sociali appartenevano?”.
Un lavoro da giornalisti con la passione della realtà. Elio Petri fa al caso loro. È un giovane assai sveglio, 22 anni, lavora all’Unità già da qualche tempo. Agli inizi degli anni ’70, quasi vent’anni dopo i fatti di via Savoia, firmerà la regia di pellicole di successo. Ricordo due titoli: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso.
Petri si muove quattro mesi dopo il disastro. Torna in via Savoia, sente i testimoni, incontrando un muro di diffidenza e di omertà che gli risulta difficile forzare. La portinaia del villino, quella che borbottava, borbotta ancora, non ne vuole sapere, dice di averne abbastanza dei giornalisti, dice di aver già raccontato tutto. Niente da fare.
Allora Petri si allontana da via Savoia per ripercorrere il cammino delle ragazze dalle loro abitazioni per lo più periferiche (il Quadraro, Centocelle, Trastevere, la Garbatella…) fino al fatale appuntamento. Ricompone le loro storie, il bagaglio di “emozioni” e di “pensieri”, entra nelle case, conosce le famiglie, “padri, madri, mariti, fidanzati, fratelli, sorelle”. Più che un’inchiesta, è un viaggio nella vita di Roma, un accorato censimento di sogni, illusioni, desideri, progetti, attese, che probabilmente non sarebbero mai venuti alla luce se non ci fosse stato quel crollo e quello straordinario archeologo d’umanità che è stato Elio Petri. È lui a riportare in superficie la vita sotterranea delle ragazze di via Savoia.
Donatella, 17 anni, cerca l’indipendenza. Maria, 24, ha una famiglia che “lotta giorno per giorno, ora per ora, per sollevarsi dalla mediocrità”. “Al centro della sua vita – racconta Petri – c’era solo il desiderio di avere una bella casa, e un buon marito laborioso…Tutti i suoi sogni si riducevano a desiderare che si avverassero i sogni del suo fidanzato”. Alcune ragazze di borgata non erano mai state al centro. Qualcuna, quel giorno, si era mossa da casa alle cinque del mattino per prendere il primo tram, “non si sa mai”. Teresa, 16 anni, vive al Quadraro, cerca ancora lavoro dopo aver fatto almeno trenta tentativi per trovarlo. “Il crollo di via Savoia è stata la cosa più straordinaria della mia vita… l’ospedale è stata una vacanza bellissima”, dice Carla, 23 anni.
Carmina, catanese dai capelli rossi che ha seguito la cugina trasferita a Roma, parla con una certa foga: “Meglio che a Catania è! Laggiù una ragazza non ha speranze, qui si può sperare”. Marcella, 25 anni, “non è mai stata fidanzata… la sua paura più grande è di restare zitella”. Poi c’è Anna, che vuole raccontare che cosa può significare, per una giovane donna, cercare lavoro a Roma nel 1951. Lo fa consegnando una lettera a Petri che è una vera e propria denuncia: “Noi ragazze siamo oggetto di un’azione continua di corruzione e molte cedono le armi…i padroni si credono in diritto di fare quello che gli pare”.
Viene così alla luce il fradiciume spicciolo in cui si possono trovare a franare i sogni di una ragazza. Quando nel 1952 esce il film di Giuseppe De Santis, le donne dell’UdI scrivono al regista: “Le ragazze italiane vogliono vivere, non vogliono vedere intristire nella miseria i loro sogni”.