C'è un limite alla metafora? / “...ci sta (tutto)”

23 Luglio 2016

“Provi un po' se il bagaglio ci sta”: in tempi di voli a buon mercato (o “loucost”, come forse oggi è più trasparente), non è raro sentirsi apostrofare in tal modo da un Cerbero. E alle parole, il Cerbero accompagna di norma un gesto. Il gesto indica il noto strumento di tortura per valigie che staziona minaccioso accanto a ogni varco (o “gheit”) e ha funzione comparabile con una di quelle del mitico letto di Procuste. Dopo aver praticato le violenze necessarie sul proprio “troli”, “Guardi, ci sta tutto” è, talvolta, la ghignante risposta. Talaltra, è invece lo scorno, con imprecazioni qui non riferibili. Le violenze non hanno sortito il loro effetto. Il bagaglio è irriducibile e “non ci sta”. Forse anche nel senso che non collabora, non è gentile, non si presta. Ma qui non è questione di questo secondo “starci” o “non starci”, di natura morale. Ci importa il primo: il locativo.

 

Ecco, allora: contenuto e contenitore, come illustra l'esempio. Un'espressione che abbia, come lacerto, la sequenza "...ci sta (tutto)" insiste in modo trasparente sopra un'area del significato materialmente locativa. Meglio, insisteva. Oggi, con “ci sta (tutto)” qualcosa è infatti cambiato. Il modo di dire s'è allargato. Nella lingua corrente o dell'andazzo, se si preferisce, il costrutto inclina verso il figurato e le sue ricorrenze sono frequentissime. A “ci sta (tutto)” si sono aperte le sterminate pianure dell'uso metaforico. L'argine del placido corso letterale ha ceduto e “ci sta (tutto)” non sta più nel suo letto (ma c'è un limite alla metafora, nella lingua? Quintiliano e, dopo di lui, molti altri dicono di no).

Sapere con certezza dove l'argine abbia ceduto è impossibile. Si può però avanzare un'ipotesi. Ad aprire la breccia sono state le evocazioni di sentimenti e stati psicologici, che oggi abbondano, nel discorso privato quanto in quello pubblico. Preoccupazione, indignazione, rabbia, stupore ma anche meraviglia, sorpresa, divertimento, gioia. Evocazioni enfatiche, ovviamente. E tendenti al poetico, donde il ricorso alla figura.

Una circostanza ispira o si vuol fare intendere ispiri inquietudine, come la recente vicenda britannica? Bene. Se ci si vuole esprimere al passo coi tempi, guai a dire "La situazione mi preoccupa molto", "Con una situazione così, c'è da essere parecchio preoccupati" e altre comparabili anticaglie. Bisogna invece si dica "Con una situazione del genere, la preoccupazione ci sta (tutta)". Si rifletta: un dì, c'erano gioie dette incontenibili. I contenitori d'oggi devono essersi fatti giganteschi: "Con il 2 a 0 alla Spagna, l'euforia ci sta tutta".

 

Nel passaggio da letterale a figurato, l'indicazione del contenitore (quella cui allude appunto la particella ci) s'è naturalmente rarefatta. È trascorsa dal fisico al metafisico. Nell'ordine del metafisico si pone del resto, con il nuovo uso, chi, quando si esprime così, si dichiara sede del sentimento e soffre o gode dello stato psicologico. E non dice "Sono molto arrabbiato" o "Siamo molto orgogliosi". Dice invece "La rabbia ci sta tutta", "L'orgoglio ci sta tutto": lo stato psicologico, il sentimento sono in primo piano, quasi essi fossero, nel mondo, istanza trascendente e al tempo stesso oggettiva, indiscutibile. 

 

Il dilagare di “ci sta (tutto)” pare dunque indizio non banale. E palesa un aspetto dello stato ideologico in cui versa la comunità nazionale quando si esprime meccanicamente. Insomma, magari non sembra, ma, a ben vedere, in un dettaglio tanto minuscolo lo spirito del tempo, compresso come in un “troli”, potrebbe perfino starci tutto. 

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