Con le migliori intenzioni. La sala professori
Nominato nella cinquina degli Oscar come miglior film internazionale, La sala professori di İlker Çatak non è riuscito nel miracolo di battere il favorito della vigilia (La zona d’interesse di Jonathan Glazer). Nel frattempo, in Italia in tanti facevano il tifo per Io capitano di Matteo Garrone, rimasto purtroppo a bocca asciutta, insieme a Wim Wenders (Perfect days) e allo spagnolo La società della neve, diretto da J.A. Bayona.
Rispetto ai suoi concorrenti diretti, l’approccio realistico di İlker Çatak fatica probabilmente a lasciare un segno indelebile nello spettatore, in un film che non colpisce particolarmente per originalità estetica, e la bravura di Leonie Benesch (che interpreta Carla Nowak, insegnante di una scuola secondaria inferiore tedesca) da sola probabilmente non è bastata a rendere il film memorabile.
Se la pellicola si è guadagnata un posto alla finale degli Academy, è probabilmente per la straordinaria verosimiglianza con cui il regista (affiancato nella sceneggiatura da Johannes Juncker) è riuscito a rappresentare l’ambiente scolastico, dando prova di uno sguardo asciutto e soprattutto senza retorica – cosa apparentemente impossibile quando si parla di scuola, almeno in Italia.
Da questo punto di vista, La sala professori è certamente un film onesto, e anche utile, capace di offrire al pubblico un assaggio di cosa significhi svolgere il mestiere di insegnante nel XXI secolo. Si tratta, inoltre, di una storia da cui anche gli insegnanti possono trarre materia di riflessione, non tanto per trovare conferma della complessità del proprio lavoro, ma per esplorare le insidie e le maschere che l’istituzione scolastica cela e impone.
In altre parole, il successo di questo film quasi dimesso segnala l’esistenza di un interesse diffuso intorno alla scuola, intesa come istituzione, ma soprattutto come ambiente sociale al centro di aspri conflitti. E se può capitare di uscire dalla sala con l’impressione che manchi qualcosa (un vero scioglimento, un messaggio, un tema unitario), tornando a riflettere sul film si scoprirà che proprio l’assenza di una chiave di lettura univoca potrebbe costituire il suo vero punto di forza.
L’abilità di Çatak si esprime al suo meglio nella capacità di rappresentare l’ambiente scolastico in maniera realistica, non semplicemente fotografandone gli spazi, ma soprattutto registrandone i suoni e le conversazioni.
Per chi frequenta la scuola si tratta di cosa nota, ma vale la pena ricordarlo per chi non vi entra ormai da anni: a scuola si parla moltissimo, si tratta di uno degli ambienti a maggiore intensità comunicativa che un essere umano possa trovarsi ad attraversare. Intensità quantitativa, visto che la maggior parte del lavoro di studenti e insegnanti passa attraverso la comunicazione orale, ma soprattutto qualitativa, perché a scuola è obbligatorio che ogni frase sia misurata, precisa, giusta. Si potrebbe ribattere che questo è vero per tutti gli ambienti di lavoro, o almeno dovrebbe esserlo. Giusto, ma solo in parte: la funzione educativa della scuola, infatti, trasforma profondamente la natura di ogni discorso che si svolge al suo interno, in particolare quando questo si tiene davanti agli studenti, o si rivolge direttamente a loro. Parlare a scuola non è solo comunicare, ma dare un esempio, e parlare in maniera esemplare per molte ore al giorno è estremamente faticoso.
Ne è perfettamente consapevole Carla, insegnante coscienziosa, capace di destreggiarsi al meglio tra le diverse necessità della comunicazione scolastica, di cui padroneggia tutti i toni: un registro per spiegare, uno per parlare con i colleghi, uno per rassicurare i ragazzi, un altro ancora per rimproverare senza offendere, uno, infine, per parlare con i genitori.
Mentre seguono la professoressa Novak nelle sue lunghe giornate scolastiche attraverso i vari ambienti dell’istituto, gli spettatori-insegnanti avvertiranno probabilmente un certo senso di familiarità. Al di là della diversa qualità degli spazi (è superfluo sottolineare che quelli tedeschi sono migliori rispetto a quelli della maggior parte delle scuole italiane, alcune delle quali non hanno nemmeno più una sala professori, convertita in aula), anche nella scuola di Carla sembra mancare un vero spazio di silenzio, autentico oggetto del desiderio per gli insegnanti dopo tante ore di conversazione. In Germania, come in Italia, le pause in sala professori sono spesso interrotte dai pettegolezzi indesiderati dei colleghi ficcanaso, con un inevitabile effetto di stanchezza. Dalla stanchezza al sovraccarico il passo è breve, e l’errore immediatamente dietro l’angolo. Così anche Carla ne compie uno e, quel che è peggio, lo compie mossa dalle migliori intenzioni.
La sala professori è un dramma che nasce da poche, minime azioni, capaci tuttavia di scatenare una serie di reazioni emotive che si avviluppano l’una con l’altra in maniera via via più rapida e opprimente. L’aspetto forse più inquietante dell’intera vicenda è l’impossibilità di attribuire colpe e responsabilità, distinguendo una volta per tutte vittime e carnefici.
Nella scuola media di questa piccola città tedesca, un banale incidente determinato da alcuni furti farà scoppiare un autentico putiferio, con conseguenze pesanti su adulti e studenti. Ma di chi è la colpa? Difficile stabilirlo. Qui, sembra che tutti cerchino di fare al meglio il proprio lavoro, agendo sempre con le migliori intenzioni.
Fa del proprio meglio la preside, che ritiene di non transigere dalla politica disciplinare di tolleranza zero in vigore nell’istituto (ma la stupidità di questa scelta diviene sempre più chiara con il dipanarsi delle vicende); fanno del proprio meglio gli insegnanti, come il professor Liebenwerda, uno dei più antipatici e pettegoli, che tuttavia saprà dire parole di verità a proposito di Carla, colpevole di aver voluto affrontare tutto da sola, senza cercare consiglio e confronto nei colleghi. E, naturalmente, fa del proprio meglio Carla. L’isolamento è, in effetti, il suo tallone d’Achille: lei non condivide la politica di tolleranza zero della scuola, ma non ha nemmeno il coraggio di contestarla apertamente. Così, per scagionare un suo studente di origini turche da accuse infondate, sceglie una scorciatoia, provando a condurre personalmente l’indagine sui furti: errore benintenzionato ma fatale.
Se non fosse per questo passo falso, si potrebbe dire che Carla possiede tutte le qualità richieste a un bravo insegnante europeo degli anni duemila. Misurata nelle reazioni e dotata di un buon feeling con gli alunni, è creativa nelle metodologie ed equanime nelle valutazioni, del tutto aliena da pregiudizi razziali. Se necessario sa soffocare le sue emozioni (salvo poi venirne sopraffatta e ritrovarsi sul pavimento del bagno nel pieno di un attacco di panico, costretta a respirare dentro un sacchetto mentre i genitori della sua classe l’aspettano per terminare una riunione di fuoco). Quando il giorno dopo tornerà in classe, chiederà ai ragazzini di urlare tutti insieme l’urlo più forte che c’è, e anche lei urlerà con loro. Probabilmente una tecnica appresa in qualche corso per la professione docente, un esercizio di “regolazione emotiva” come tanti altri. Carla urla e arrossisce, tutti i suoi alunni urlano con lei, ma l’esercizio serve a poco, perché la realtà presenta sempre il conto e non si lascia domare dalle terapie di gruppo.
Di lì a poco, infatti, come un’Erinni ostinata ben decisa a non mollare la sua vittima, tornerà a bussare alla porta dell’aula Oskar, un bambino sospeso ingiustamente da scuola: la presenza inattesa che ricorda a tutti come i nodi veri della brutta storia che avviluppa la scuola siano ancora tutti da sciogliere.
Oskar rifiuta di lasciare la classe da cui è stato sospeso perché pretende di sapere la verità su alcuni fatti che lo coinvolgono, ed è consapevole che solo Carla può dargliela. Il deciso rifiuto dell’insegnante, che ha appena scoperto a spese sue (e dello stesso Oskar) quanto possano essere gravi le conseguenze di una fuga di notizie, mira in primo luogo a tutelare l’interesse del ragazzino. Al contempo, tuttavia, questa scelta di riservatezza lo mette in una situazione impossibile da sopportare: si sente l’unico a non sapere qualcosa che lo riguarda.
“Ciò che accade in sala professori, rimane nella sala professori”, risponde Carla alle proteste. Non è una professione d’ipocrisia, ma l’accettazione coraggiosa del proprio ruolo, oltre che la dichiarazione di un limite invalicabile. Si tratta di una verità tragica, persino poco democratica, ma necessaria in un contesto educativo. Carla ha il coraggio di rimanere ferma nelle proprie posizioni, perché si è resa conto dei danni da lei stessa provocati portando alla luce segreti che era meglio restassero sepolti. Reputazioni distrutte, pettegolezzi e calunnie, classi dilaniate, studenti destabilizzati: nulla di tutto questo sarebbe successo, non fosse stato per quel piccolo, involontario errore.
Nell’impossibilità di dire a Oskar la verità, Carla trova un’altra strada: quella di rimanergli accanto. I due trascorrono dentro la scuola, in completo silenzio, un’intera notte, al termine della quale ristabiliscono un sottile filo comunicativo, non più tramite il linguaggio verbale, ma sfruttando la loro comune passione: la matematica.
La scena di chiusura, che non riveliamo, è lontana da qualsiasi banale lieto fine. Prima dei titoli di coda, una serie di inquadrature totali e semitotali della scuola deserta sembra volerci ricordare che la vera protagonista del film è proprio lei, quello spazio in cui si possono intessere le relazioni più diverse e impreviste: forti, banali, superficiali, inutili, determinanti, drammatiche, dannose, utili, rischiose. Un luogo che impone ruoli rigidi, in cui spesso si ha l’impressione di essere agiti più che di agire, ma all’interno del quale è fondamentale trovare il proprio spazio.
La sala professori non è solo un film sulla stupidità della “tolleranza zero” nelle scuole, bensì un film sui danni involontari che gli insegnanti possono fare ai loro studenti, e su quelli altrettanto involontari che i genitori possono fare alla scuola. Un film, in ultima analisi, sulle trappole della comunicazione e sulla difficoltà di essere compresi; ma al tempo stesso sulla possibilità di comunicare nonostante tutto, e sulla generosità di chi si sforza per riuscirci, partendo da due condizioni: trovarsi insieme qui e ora, e avere qualcosa da imparare l’uno dall’altro.