Vermiglio. Il passato com’è

10 Ottobre 2024

Premiato con il Leone d’argento al Festival del Cinema di Venezia e candidato all’Oscar come Miglior film internazionale, Vermiglio è il secondo lungometraggio della regista e sceneggiatrice Maura Delpero, nata in Trentino-Alto Adige e cresciuta artisticamente a Bologna. Scommessa vinta della neonata casa di produzione Cinedora, Vermiglio è un film storico e intimistico, certamente poetico, ma anche politico nel senso più alto del termine. 

Rappresentando il passato senza ricorrere a stereotipi o impartire facili morali, Delpero ricostruisce una storia familiare con personaggi in chiaroscuro, in cui nessuno sconto viene fatto alla cultura tradizionale. Lo fa attingendo ai racconti della sua famiglia e ad alcuni ricordi d’infanzia, ma anche tramite una ricerca storica e antropologica sulle culture popolari, la cui accuratezza emerge chiaramente nel corso del film.

Vermiglio accompagna lo spettatore alla scoperta di un mondo remoto, il Trentino degli anni Quaranta, ricostruendo con precisione e fantasia due microcosmi: quello della famiglia Graziadei (madre, padre, otto figli viventi e due defunti, una zia vedova di guerra e suo figlio reduce), e quello del paese dell’alta Val di Sole che dà il titolo al film. Ambientato sul finire della seconda guerra mondiale, Vermiglio è una storia corale, e tuttavia dotata di due perni principali: il padre Cesare, maestro del paese (Tommaso Ragno) e la figlia maggiore Lucia, destinata a perdersi e a ritrovarsi (Martina Scrinzi, già interprete in Lubo di Giorgio Diritti).

Descrivendo il proprio processo creativo, Delpero fa riferimento alla capacità di “mettersi in ascolto del proprio inconscio” e alla potenzialità della cinematografia, strumento quasi onirico, di far emergere quegli aspetti dell’incosciente che altrimenti non passerebbero il filtro della razionalità. Un’affermazione che solo in apparenza cozza con il risultato di una pellicola meditata in ogni dettaglio: sonoro, visivo, di sceneggiatura e di recitazione. Tutti gli strumenti sono piegati a costruire una poetica della presenza, che fa sprofondare lo spettatore nello spazio e nel tempo di casa Graziadei. E se è vero che le percezioni uditive agiscono sulla nostra psiche in maniera più profonda e istintiva rispetto alle immagini, non stupisce che la regista abbia lavorato con grande cura proprio sul sonoro. Nell’epifania della vecchia Vermiglio, prima delle immagini, arrivano infatti i rumori. La prima sequenza si apre con un respiro pesante, uno scroscio ritmico e uno chiocciare di galline. Solo successivamente compare una giovane donna che munge una vacca. La camera da presa si sposta sul viso di lei, che ci appare di scorcio, vicinissimo alla pancia dell’animale. Lo scroscio proviene dalla cascata di latte nel mastello. A questa stalla manca solo l’odore: per il resto percepiamo in pieno quella promiscuità tra uomo e animale che era vita quotidiana per i nostri bisnonni e che oggi ci appare tanto lontana.

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Nella scuola del paese, mentre ci vengono mostrati in primo piano i volti degli alunni della classe, basta il rumore del gesso che striscia sulla lavagna a evocare la presenza di un maestro invisibile ai nostri occhi e a suggerire la fatica d’insegnare a quel difficile pubblico. 

Le scene scivolano l’una nell’altra tramite frequenti raccordi sonori, che coinvolgono dialoghi, musiche, rumori vegetali, animali e umani. Alcuni suoni si caricano gradualmente di una tensione ominosa, come il pianto del neonato Graziadei, che da fastidioso si fa tragico, poi cosmico, sovrapponendosi a campi lunghi sulle montagne innevate. Ben presto, sarà sostituito da una messa da Requiem. Le musiche così diventano una traccia da seguire, oltre che parte attiva della storia: i Notturni di Chopin e le Quattro Stagioni di Vivaldi non sono solo colonne sonore, ma “pane per l’anima” secondo il maestro Cesare, che è disposto a comprare di tasca sua i vinili delle sue musiche favorite, non solo per goderne nella solitudine del proprio studio, ma anche per condividerne la grandezza con gli scolari. Se la musica “alta” suona sul giradischi, quella popolare si fa dal vivo: con le fisarmoniche nelle feste da ballo all’osteria, con le canzoni e le filastrocche intonate ai matrimoni e nelle feste religiose. La celebrazione di Santa Lucia, ricostruita con affetto e precisione antropologica, ricorda il cinema di Alice Rohrwacher e la sua passione per le tradizioni folcloriche, in particolare per il carnevale. 

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La scelta di rispettare la lingua madre dei luoghi, il dialetto trentino nella sua versione solandra, è significativa e artisticamente efficace. Tutti gli attori riescono a dominare magistralmente la lingua, sia i professionisti che l’hanno appresa per l’occasione, sia gli attori bambini e adolescenti reclutati in loco, tra cui spiccano Enrico Panizza, di sei anni, interprete del piccolo Pietro, Anna Thaler (Flavia) e Rachele Potrich (Ada). Oltre a servire alla verosimiglianza d’insieme, l’adozione del dialetto, alternandosi con le altre lingue parlate nel film, l’italiano e il latino, carica di sfumature emotive e pragmatiche i diversi contesti comunicativi. In Chiesa risuonano le formule in latino; le figlie del maestro, istruite, parlano l’italiano in confessionale, mentre a scuola i piccoli allievi stentano a lasciare da parte il dialetto. Allora il maestro Cesare, con pazienza li riprende, accontentandosi di correggere per prima cosa i verbi, sempre con garbo. Talvolta l’italiano irrompe in osteria, quando la serietà della situazione lo richiede: e diventa allora la lingua utile a mettere in questione il senso comune, a insinuare il dubbio. Parla in italiano Cesare quando si tratta di confutare le opinioni di un paesano, che minaccia di denunciare i disertori accolti in paese, uno che – scopriamo incidentalmente – non si è fatto né la prima, né la seconda guerra mondiale: “Forse se fossero tutti vigliacchi non ci sarebbe più la guerra. La vigliaccheria è un concetto relativo”.

Per molti anni, la graduale scomparsa dei dialetti parlati in molte regioni d’Italia è stata considerata il necessario prezzo da pagare perché si diffondesse una lingua nazionale unitaria – come se fosse impossibile, per i parlanti, dominare al contempo due strumenti linguistici: uno locale, familiare e affettivo; l’altro nazionale, sociale e formale. Oggi si è diffusa la consapevolezza che la perdita dei dialetti non è stata un sacrificio necessario all’acquisizione di un bene maggiore (tanti concittadini parlano un italiano eccezionalmente povero, e nessun dialetto): si è trattato, per l’appunto, di una perdita secca. Solo un altro triste capitolo della storia italiana, in cui la separazione tra cultura alta e culture popolari ha segnato profondamente lo sviluppo sociale e la coesione del Paese. Fa quindi piacere che la ricchezza di una lingua locale possa dispiegare le sue potenzialità espressive in un film sottotitolato, e che questo film sia candidato a rappresentare l’Italia agli Oscar. 

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In Vermiglio la prima comparsa di ogni personaggio lo cattura in un istante che rivela il suo animo. Nella seconda sequenza del film, ad esempio, l’autorità del capofamiglia Cesare troneggia solida all’interno della sfera familiare (egli ci appare al tavolo della colazione, circondato da una nidiata di figli mentre la moglie Adele, in piedi e con il più piccolo in braccio, serve il pasto), ma quello stesso uomo, nella scena seguente, ci risulta minuscolo rispetto alla montagna innevata, mentre sfida le intemperie per aprire la sua scuola e lasciare entrare gli scolari. Punto fermo della comunità e della famiglia, burbero e colto, inesorabile nelle sue decisioni e preda di terribili rabbie, Cesare ricorda per più di un aspetto il padre della narratrice in Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, ma il cambiamento di contesto (da borghese e cittadino, ad agricolo e montanaro) sottrae a Cesare il lato comico, conferendogli un plus di terribilità rispetto a Giuseppe Levi. 

Per altri personaggi, il processo di caratterizzazione procede per accumulazione di dettagli, che agiscono in maniera quasi subliminale sulla coscienza dello spettatore. Il primogenito Dino ci appare per la prima volta sul tetto, intento a scolpire qualcosa nel legno, mentre sulla testa gli passa un cacciabombardiere noto a tutti i bambini del tempo con il nome confidenziale di Pippo. Scopriremo più tardi che stava intagliando un aeroplanino di legno, pensato come dono di Santa Lucia per il fratellino Pietro. Simbolo della magia della festa e destinato a passare ancora di fratello in fratello, l’aeroplanino è il correlativo oggettivo della gentilezza d’animo di Dino, figlio tanto caro alla madre Adele, quanto bistrattato senza tregua dal padre. 

Di Flavia, invece, la minore delle femmine, impareremo che è la prediletta dal padre, perché “la popa è sensibile, mi somiglia, è quella da fare studiare”, e in effetti nella sua prima comparsa in solitaria l’avevamo trovata nascosta nello studio di Cesare, a leggere di nascosto i libri della sua biblioteca come fossero un piacere proibito. Ada, quella di mezzo tra le femmine, sembra assegnata a un destino lontanissimo dalle sue aspettative: il padre la vorrebbe donna di casa, a sostenere la madre nella crescita dei fratelli minori, perché a scuola s’impegna sì, ma non eccelle. Il suo è forse il personaggio più complesso e riuscito, anche più sfaccettato della maggiore Lucia, che pure gioca un ruolo centrale nella trama. Combattuta tra le smanie del suo corpo adolescente e i sensi di colpa dettati da una religiosità bigotta, Ada si dibatte tra tentazioni, fioretti e penitenze, supera le invidie per le sorelle e nutre le proprie legittime aspirazioni personali: “Io vorrei diventare prete, così tutti mi dovrebbero ascoltare quando parlo”. 

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Invece, Cesare a parte, gli uomini della storia sono quasi tutti rimasti senza parole: parla pochissimo Dino, che pronuncia la sua battuta più lunga mentre è a letto con i fratelli minori. A loro rivela la sua paura più profonda, incontrare l’orsa nel bosco, ma del papà no, non ha paura. 

Parlano pochissimo anche Attilio e Pietro, i due disertori, nipote del maestro il primo, commilitone siciliano il secondo. Pietro è stato accolto in paese in virtù dell’aiuto offerto ad Attilio nella fuga verso casa. Frequentando la scuola per adulti di Cesare, un poco alla volta recupera le parole per descrivere l’esperienza di soldato: “È come se sei vivo, però non proprio. È come se sei tu, ma non sei più tu”. Per Attilio sembra che questo recupero non sia possibile: è la madre Cesira a parlare per lui e di lui, tormentandosi per il fatto che suo suo figlio non è mai davvero tornato dalla guerra: “L’Attilio non è morto, ma sembra morto”. Perché, come commentano tra loro le cugine: “quelli che tornano dalla guerra hanno i segreti, sembra che gli abbiano tagliato la lingua”. 

Lo sguardo che la regista posa sui luoghi rifugge da ogni tentazione nostalgica e idealizzante. Nessuna veduta aerea del paese, così da evitare l’effetto “piccolo borgo antico”, ma massima selezione delle parti da mostrare, che siano funzionali alla storia. Pochi esterni: la fontana pubblica che funge da lavatoio e si staglia su un cielo azzurrissimo, la scuola sommersa dalla neve, il cimitero che è praticamente una radura assediata dal bosco, il “masetto” dove i due disertori si rifugiano per stare lontani dalla gente, non troppo diverso da quello dei protagonisti de Le otto montagne.  

Per venire agli interni, oltre alla Chiesa, al confessionale e all’osteria, la maggior parte delle scene è ambientata in casa Graziadei: tre camere e cucina, più lo studio del maestro. Le stanze da letto, con i loro giacigli condivisi e la vicinanza dei corpi, ospitano alcune tra le scene più belle del film, veri e propri notturni, scene corali in cui emergono i rapporti reciproci tra sorelle e fratelli, le loro aspettative, speranze e paure archetipiche. Le stanze da letto sono luoghi dove si sta in compagnia: è pericoloso frequentarle da soli, isolarsi. Dietro l’anta di un armadio potrebbe venir voglia di abbandonarsi a piaceri solitari, oppure ci si potrebbe smarrire in luoghi anche più bui, come accade a Lucia, lasciata incautamente sola insieme alla sua neonata, in una scena piena di suspense che sembra poter preludere a un infanticidio. L’unico luogo più pericoloso e torbido delle camere da letto sono le stalle: nel film sembra di riconoscerne più di una, ma comunque si somigliano tutte. È qui che gli esseri umani – frequentando vacche, capre e galline, o i soggetti poco raccomandabili del paese – ritornano un po’ bestie, ed è qui che si fanno gli incontri più rischiosi, si trasgredisce e si soddisfano i bisogni pressanti del corpo. In stalla si fuma, si fa l’amore, se necessario si partorisce. In stalla ci si nasconde dal mondo, dalla maldicenza, dalla vergogna. E se non basta la stalla, resta una sola strada da prendere: quella del bosco. 

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Vermiglio sorge sul limitare di un bosco. Di più: come tutti i paesi di montagna, nasce su terra faticosamente sottratta al bosco, e poi duramente difesa dalla sua avanzata. Il bosco è quindi una presenza costante, implicita, come le montagne, come il cielo. Ma è solo verso la fine del film che lo spettatore s’inoltra davvero nelle sue profondità arcane. Lo fa seguendo Lucia in una scena di fuga e regressione, quando la giovane, ormai estranea alle regole del vivere civile, sceglie di non sottoporsi alla vergogna sociale, preferendo intraprendere una danza con la morte. Proprio come accade a Silvia, protagonista del romanzo Tornare dal bosco di Maddalena Vaglio Tanet, Lucia si abbandona alle forze della natura in una specie di tentato suicidio che non si compie però attivamente, ma lasciando che sia la sorte a fare il suo corso. Seguendo la giovane in cima a tumultuose cascate e ai piedi di abeti svettanti, più volte temiamo che il peggio sia accaduto, e che la donna e il bosco finiranno per compenetrarsi del tutto. Ma la salvezza verrà da un fratello gentile, e da un asinello. Se l’iconografia ci ricorda la fuga in Egitto, lo fa senza alcun compiacimento. Delpero a ogni scena ci regala il passato com’è.

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