Confini dentro e fuori

27 Aprile 2023

Se i fisici lavorano all’unificazione della meccanica quantistica e della gravità attraverso l’ipotesi che l’universo contenga dimensioni ulteriori rispetto allo spazio e al tempo, come sostiene la prima donna che insegna fisica teorica ad Harvard e a Princeton, Lisa Randall, nella nostra esperienza di ogni giorno noi corrispondiamo alle semplici parole di André Leroi-Gourhan: “L’uomo è organizzatore dello spazio” [Il gesto e la parola, Einaudi, Torino 1977; p. 374]. Proprio con le parole del grande paleontologo, Marco Aime e Davide Papotti iniziano il loro libro Confini. Realtà e invenzioni [Edizioni Gruppo Abele, Torino 2023].

n

L’essere umano è un animale di movimento. Le evidenze del ruolo del sistema sensorimotorio per la conoscenza di noi stessi, la nostra individuazione, e la conoscenza del mondo, sono progressive e confermate. Del resto, la nostra storia è, per la maggior parte della sua durata una storia di nomadismo e l’epoca in cui viviamo vede un neo-nomadismo come forma di vita prevalente. La planetarizzazione, per costrizione e per scelta, ci vede sempre più impegnati a fare “il giro della prigione”, come lo ha definito Marguerite Yourcenar [Il giro della prigione, Bompiani, Milano 1999]. Una delle principali caratteristiche culturali del genere umano è, quindi, la disposizione a dare un proprio ordine a ciò che sta intorno mentre lo si esplora, attribuendo alla dimensione spaziale, unitamente a quella temporale, un valore primario. Una domanda che interviene immediatamente allora è: ma perché e cosa significano i confini per un essere di movimento? Perché una specie che vive muovendosi e esplorando, che cerca oltre il noto come disposizione specifica, traccia linee sul mondo?

Proprio delle linee tracciate sul mondo, o come recita il titolo inglese, del make and break our world, si occupa un libro di James Crawford [Maledetti confini, Bollati Boringhieri, Torino 2023].

n

Si estende e rimpicciolisce, il mondo: strano effetto quello della globalizzazione. Mentre ha reso il pianeta un villaggio, ha moltiplicato i confini e la propensione a tracciarne sempre di nuovi. La parola confine protegge e fa paura. Ryszard Kapuscinski, dopo la caduta del muro di Berlino, aveva sostenuto: dovunque c’era un confine ci sarà un mercato. Aveva ragione se voleva dire che la globalizzazione è stata un’estensione senza confini dei mercati e delle merci; non aveva ragione se si riferiva a un ampliamento delle relazioni e a un superamento dei confini e dei nazionalismi. La paura, che tanta parte ha nel tracciare confini interiori ed esterni, confini di ogni tipo, ha causato, tra l’altro, un rinculo, fatto anche di revival etnico e di invenzione e reinvenzione delle tradizioni, che fa del pianeta Terra una mappa obbligatoriamente connessa e in frantumi allo stesso tempo. Un aspetto dei confini risulta paradossale e costante: la loro forza fino ad essere causa di morte, e la loro labilità che, quando svaniscono, li rende inesistenti persino per la memoria. A Cormons, sul Collio friulano, a un passo dalla Slovenia, oggi si va avanti e indietro senza accorgersene, laddove vi era una barriera simbolica invisibile più alta e potente dei posti di frontiera fra i due blocchi della guerra fredda. Una prova del fatto che la forma Stato, nella sua caratterizzazione moderna di Stato nazione, è una delle celebrazioni più evidenti del confine. Anche in quel caso però, e non solo nella crisi dello Stato nazione che stiamo vivendo, meglio descrive la situazione un ossimoro come “stato dinamico”. Basta guardare, confrontandole, due carte geografiche di un’area del mondo per rendersene conto. I Balcani sono un esempio. Nonostante lo Stato risponda a bisogni amministrativi e di sicurezza, per una popolazione di una qualche omogeneità linguistica, che condivide quello che forse è l’aspetto più inquietante – i cosiddetti valori –, la porosità sembra proprio il destino dei confini. Ciò non evita, purtroppo, che per difendersi da quella porosità si compiano le più gravi tragedie umane, come le guerre e le negazioni ed esclusioni di intere componenti umane, come accade con i movimenti migratori. Il collettivo simbolico, che in qualche modo più o meno lasco aggrega fino all’autoaccecamento intere popolazioni, consente di individuare nel confine un fenomeno che si colloca allo stesso tempo dentro e fuori le persone. Allora due indicatori per comprendere qualcosa di più del confine sono il margine e il limite. Quanto margine si danno coloro che si rassicurano in un confine? Quali limiti riconoscono nel praticare la certezza delle proprie rassicurazioni e delle proprie chiusure?

Sia il margine che il limite consentono, a ben guardare, di riconoscere che il confine non è solo una fine ma anche un inizio. Per una specie di movimento e nomade, come quella umana, il confine è fatto per essere varcato. Allo stesso tempo, più che essere una linea, anche qualora sia fatto di un muro presidiato, il confine finisce per sfaldarsi in un margine. Sia per chi lo attraversa clandestinamente, sia per chi lo varca abitualmente e legalmente. Ciò sembra valere sia per i confini geografici che per i confini relazionali e di individuazione. Scrive in proposito Maria Nadotti: “Il punctum è precisamente il concetto di limine, quella soglia che non si pone più come linea di inclusione/esclusione da superare, contestare, spostare, come marker che definisce un prima e un poi, un dentro e un fuori, una dis/appartenenza attuale e un’appartenenza a venire. Il limine è un confine che si sfalda e, smottando, si sottrae a ogni ontologia, creando un’impensata, forse impensabile terza zona” [“Corpi che si sfaldano”]. Interessante è che un ente preposto a separare e a dividere in due finisca ineluttabilmente per diventare terzo, per dare vita ad una terzietà. Forse è un effetto del “cum” che comunque compone l’etimologia della parola confine. È anche un effetto della storia. Lo stesso che porta Crawford a scrivere, in apertura del suo libro: “Un confine è qui sulla mia scrivania. È abbastanza piccolo da starmi nel palmo della mano, e mi stupisco ogni volta di quanto sia leggero. Ha una forma più o meno cuboidale. Cinque facce sono ruvide, grigie e irregolari, ma la sesta é levigata e segnata da schizzi di giallo e arancio. Questo particolare confine l'ho comprato dieci anni fa su eBay. Si presume che sia un frammento del Muro di Berlino. Molto probabilmente non lo è. Forse è solo un pezzetto di cemento raccattato in un cantiere edile e imbrattato di vernice. Ma è un dubbio con il quale penso di poter convivere.” 

C’è un’implicita negazione nel concetto di confine e riguarda la distinzione più o meno netta e più o meno antagonistica o cooperativa tra noi e loro, che corrisponde in buona misura alla dinamica dentro/fuori. In quella dinamica elementare possono risiedere i prerequisiti della convivenza delle differenze, che implica il riconoscimento di almeno una buona ragione nelle forme di vita e nelle posizioni degli altri, o le cause delle ostilità, delle negazioni, delle esclusioni, delle aggressività e delle distruzioni. Il gioco della socialità umana e delle sue forme si snoda lungo le dinamiche del confine hospes/hostis. In quel gioco l’umanità è ragno e ragnatela e, come ricordano Aime e Papotti citando Clifford Geertz, rimane impigliata nella ragnatela di simboli che essa stessa ha intessuto. Considerando le forme e le funzioni dei confini, come fanno Aime e Papotti, emergono i molti e diversi aspetti che può assumere un confine. Una costante riguarda la distinzione tra identità e alterità. Un aspetto tra i più ambigui, in quanto nel nome di quella distinzione si pretende di fissare categorie come quella di identità che, per esistere, deve negare la natura dinamica dell’individuazione, tendendo a fissarla una volta per tutte in un canone. Ma soprattutto negando che solo nell’intersoggettività si può dare individuazione per degli esseri naturalculturalmente relazionali come gli animali homo sapiens. Eppure, nonostante queste negazioni, come scrive Crawford nel suo libro: “dovunque ci voltiamo, sembra che le linee tese dei confini stiano vibrando in sintonia con gli eventi globali – o che stiano addirittura decidendoli. Il loro futuro è strettamente connesso al nostro. E governa i nostri paesaggi, i nostri ricordi, le nostre identità. E i nostri destini”. Nonostante questo, osservando come vengono creati i confini, in che modo sono in continuo movimento, non è difficile constatare come sempre più essi vengano piegati e infranti. Perché in fondo, che cos'è un confine, se non un racconto? Non è mai soltanto una linea, un segnale, un muro, un margine. Innanzitutto, è un'idea. Un'idea che poi viene presentata come una cosa reale. Non esiste di per sé nel mondo. Può essere solo costruita. Può essere solo raccontata. Ciò non vuol dire che non definisca appartenenze ed esclusioni, inclusioni e negazioni, fino a giungere a stabilire la negazione di sé stesso, come quando un territorio viene dichiarato terra di nessuno, no man's land. Come scrivono Aime e Papotti, i tentativi di classificare le tipologie di confine ci restituiscono appieno la natura sfuggente del concetto, il cui significato e il cui valore sono contingenti, sia da un punto di vista spaziale, sia da un punto di vista temporale. Un confine è influenzato dal luogo dove appare e dal tempo in cui appare. La narrazione e la rappresentazione stessa dei confini sono, inoltre, favorite delle apparizioni concrete nel paesaggio. Laddove la concretezza dei confini trova la sua espressione più impegnativa e tragica è nelle approssimazioni e relazioni intersoggettive, e nelle relazioni aggressive e distruttive tra popolazioni. Così il colore, che è una delle esperienze più affascinanti della percezione umana, finisce per diventare un confine. Per dirla con Ta-Nehisi Coates: quel confine che separa i neri dai bianchi passa proprio sulla linea della pelle. “Si viene così a creare uno dei pilastri su cui poggiano le principali manifestazioni razziste, per cui l’altro è, innanzitutto, un individuo di colore diverso”, scrivono Aime e Papotti. Il confine implica un criterio di separazione o distinzione; una mappa; una narrazione; un riconoscimento o una negazione. Poche cose come la cartografia sintetizzano questi fattori e sia Papotti e Aime, che Crawford se ne occupano. Nel caso di Crawford si potrebbe sostenere che le sue intense e dense narrazioni siano una sequela di cartografie che vanno dalle prime testimonianze di confine, in Mesopotamia, dove nel ventunesimo secolo avanti Cristo molti uomini morirono su una linea considerata eterna e di cruciale importanza per preservare le identità, tra le terre di Lagash e Umma, fino al serpente di cemento armato che con la sua presenza attraversa e ingiuria la Palestina. Ma qualcosa che ha a che fare con le caratteristiche apparentemente contraddittorie della storia degli esseri umani è in grado di documentare come il confine sia stato ed è una costante della nostra esperienza. La contraddizione emerge nel momento in cui si considera il rapporto fra le nostre caratteristiche nomadi, il nostro essere animali di movimento, e il contemporaneo bisogno di proteggerci dentro uno spazio delimitato. Come documenta il lavoro di Crawford, anche in un'epoca nella quale quelli che oggi sono confini non lo erano o non erano delimitati così come lo sono adesso, qualcosa che al confine doveva pur somigliare generava conseguenze tragiche per chi inopinatamente si accingeva ad attraversarlo. Per quanto fosse mobile quel confine, secondo la definizione di Crawford, l'uomo del Similaun ci rimise la pelle attraversandolo, colpito come fu da una freccia che lo dissanguò. La penna finissima di un narratore come Daniele Del Giudice ha descritto in maniera inimitabile che cos'è un orizzonte mobile e a quali significati si associa dell'esperienza umana [Orizzonte mobile, Einaudi, Torino 2009]. 

b

È Arjun Appadurai a sostenere, nel suo libro Modernità in polvere [Raffaello Cortina Editore, Milano 2012], che oggi ci troviamo di fronte a “immagini in movimento che incrociano spettatori deterritorializzati”, in quanto la realtà, come del resto è accaduto anche in passato, non è costruita su opposti ben definiti, facili da contrapporre, se non nella logica dominante dell'anagrafe e dello stato civile. Quella logica risponde principalmente al fatto che i governi diffidano dei nomadi culturali, di chi non si pone in modo netto, tale da essere facilmente classificato. 

Uno degli aspetti su cui conviene soffermarsi, come fanno ampiamente i libri di cui ci stiamo occupando, è il valore simbolico dei confini. In fondo i confini sono riti di passaggio e questo non riduce la loro durezza che, proprio per la potenza e l’influenza delle dimensioni simboliche, assurge spesso a causa di esclusione e distruzione, mentre favorisce senso di appartenenza e contenimento. Il fatto che i confini nascano e muoiano non vuol dire che non si lascino dietro eredità di lunga durata, concorrendo così a scrivere la storia dell’antropizzazione e della territorializzazione del pianeta. Esiste un rapporto particolarmente stretto tra confini e viaggio, fino all’elezione dei confini come mete turistiche, e le narrazioni di Crawford ne sono una prova di particolare bellezza, capaci di suscitare curiosità e di condurre il lettore in continui sconfinamenti ed impreviste esplorazioni. L’estensione della presenza del confine nella nostra esperienza è documentata da uno sforzo di notevole rilevanza che Aime e Papotti fanno nella seconda parte del loro libro, che si propone quasi come un lessico di quella che è un’idea “così perfetta che tende a costituirsi come tipologia ideale, come archetipo dell’immaginario”. Scorrono così sotto gli occhi di chi legge le fenomenologie dei confini religiosi; di quelli tra le generazioni; dei confini di classe; di quelli tra noi e la natura; dei confini di genere; delle differenze linguistiche che pure agiscono da confine; dei confini tra canoni e stili artistici e letterari, fino all’utopia concreta dell’infinito come assenza di confini. 

Preservare, proteggere, difendersi, separare, custodire, includere, escludere, attrarre, sollecitare, aprire, iniziare, sono verbi che, insieme ad altri, indicano un campo semantico, nonché denso di ambiguità, che comprende alcune delle più profonde caratteristiche e necessità di noi umani. Parlare di confine allora, è decisamente parlare di noi stessi. Dalla nostra pelle, che pure segna il più primordiale dei confini, fino alla superficie terrestre che delimita la nostra casa comune, pare che la possibilità consista nel cercare le condizioni più adatte e meno dolorose per abitare quello spazio che ci è caro e ci cura e, allo stesso tempo, proprio per includere e rassicurare, esclude. Da quel conflitto interiore, estetico e relazionale si può uscirne in modo creativo e generativo o in modo mortificante e distruttivo. La via, come sempre, è la poiesis e le guide non mancano. Una tra tutte:

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e rimirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. …”

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
n