Cristo al forno
È ormai un fatto che il nostro patrimonio artistico paia sempre più spesso in balia di genitori adottivi che qualunque organismo di tutela giudicherebbe inadeguati e assai pregiudizievoli per il bene del fanciullo: ora vilipeso da una trascuratezza criminale, ora viceversa trasformato in carburante per fare soldi, non importa in che modo, ma raramente tutelato e gestito a dovere, in nome della conoscenza e del bene comune. Come è stato notato, la stessa ricorrente metafora di ‘petrolio d’Italia’, sempre in bocca a chi spesso non ha la minima idea di ciò di cui sta parlando, la dice lunga: il petrolio non ha un vero valore in sé, lo si brucia per ottenerne energia.
Recentemente ho fatto ritorno a Brera dopo una pausa di qualche mese. Occasione: la piccola mostra allestita per ‘eventizzare’ il restauro (anche sui risultati del medesimo ci sarebbe da riflettere) della celeberrima e sublime Pietà di Bellini, lì conservata dai primi dell’Ottocento. Da quando, cioè, la lungimiranza di Eugenio di Beauharnais, Andrea Appiani e Giuseppe Bossi fece di quella istituzione una realtà d’avanguardia di rango europeo nella storia del museo pubblico, una galleria che per il vertiginoso livello dei pezzi lì raccolti, connaturato alle ragioni stesse della sua nascita, dovrebbe costituire un motivo più che sufficiente ad attrarre frotte di visitatori interessati. Ma questo, si sa, non basta più a giustificare il gradimento di un museo, sia pur ricco e prezioso come quello.
Nell’occasione infatti mi sono imbattuto in una novità, di quelle pensate per far parlare di sé: la recentissima risistemazione di un altro capolavoro di fama planetaria all’attivo delle collezioni braidensi, il Cristo morto di Mantegna; un’impresa a firma di Ermanno Olmi che coinvolge anche la citata Pietà di Bellini. Nel comunicato stampa del dicembre 2013 relativo al progetto (e non voglio polemizzare sul perché proprio Ermanno Olmi) si legge che il riallestimento donerà alle due opere, «attualmente penalizzate da una collocazione che non tiene conto della loro eccellenza e notorietà, una nuova centralità spaziale, in dialogo con la loro singolarità prospettica e figurativa». Non so quale singolarità prospettica caratterizzi la tavola belliniana, ma a parte ciò, l’intento può essere legittimo. Tuttavia, un conto è conferire risalto, però con garbo e misura, a un’opera di particolare rilevanza (e d’altronde, troppe ce ne sarebbero a Brera), un altro è incoraggiare biecamente, ammantandosi di motivazioni ‘scientifiche’, il mito sterile dell’opera-feticcio; con tanto di «effetto “sorpresa”», grazie alla Pietà di Bellini che dovrebbe fungere da «filtro» per il Cristo morto e che di fatto, si dice altrove, nella scheda approntata dal museo, «lo introduce e lo anticipa». Se quindi il povero Bellini si riduce a mera introduzione, a escamotage teatrale atto a esaltare l’ingresso del pezzo forte (inoltre mi sfugge perché mai quel dipinto dovrebbe introdurre e anticipare l’altro, trattandosi di opere così diverse per invenzione e poetica), a Mantegna va senz’altro peggio; anche se non si può negare che in tal caso l’effetto sorpresa sia garantito.
L’ignaro visitatore infatti, aggirato il Bellini (attualmente dislocato nei locali della mostra), si ritrova in un ambiente chiuso, immerso nella semioscurità, del tutto alieno rispetto al resto della galleria e ai suoi nobili spazi: sulla parete di fondo, di metallo brunito, un’unica apertura posta in basso, molto in basso, ad altezza ginocchia, permette di sbirciare attraverso un vetro (la cui «trasparenza» ne metterebbe «in risalto la tavolozza»…) il Cristo di Mantegna, come in un forno da cucina illuminato da dentro.
Pare che ciò sia «il risultato di una profonda ricerca intellettuale», di un’«attenta valutazione dei dati storici e di quelli compositivi», giacché i dolenti inginocchiati «impongono una collocazione ribassata». Per la precisione, a sessantasette centimetri da terra! Allora, secondo tale criterio, La tinozza di Degas andrebbe appoggiata direttamente sul pavimento. Ma che senso ha? Lo spazio virtuale di un dipinto mobile ha una sua relativa autonomia, impone il ‘suo’ punto di vista che non deve necessariamente coincidere col nostro, a meno che il fine di tale intervento non sia proprio quello di creare l’illusione della verità, riducendo quell’apice di dolorosa ratio alla stregua di un trompe-l’oeil galleggiante nel buio. E poi c’è da chiedersi persino se i calcoli siano corretti, perché a dire il vero il punto di vista di quel dipinto non sembra poi così rialzato, prova ne sia la violenza dello scorcio, principale motivo della sua notorietà. Inoltre le persone non hanno tutte la stessa statura. E con quelli alti, come la mettiamo? «Il monolito nero col Cristo Morto», si conclude, «colloca l’opera al di fuori dei concetti di spazio e tempo» (e questo sarebbe un bene?) «e le ridona inattesa attualità» (quella, direi, di una cucina Bulthaup). Che sia proprio un museo, per di più glorioso, a porsi un obiettivo del genere, al di fuori dei concetti di spazio e tempo, mi pare a dir poco sconfortante.
Il senso di arbitrarietà che tutta l’operazione suscita, atta solo a fare audience grazie al nome dell’autore (Olmi, non Mantegna), aumenta se si considera che del dipinto, forse quello registrato fra i beni dell’artista al momento della sua morte, si continuano a ignorare origine e destinazione.
Alla fine di tutto, l’effetto spiazzante per il visitatore, almeno così è stato per me, è quello di ritrovarsi in un luogo totalmente avulso, di ambigua decifrazione. All’inizio si può pensare, per un attimo, di essere di fronte a una moderna ‘installazione’, ma poi altre associazioni, ancor meno appropriate, anzi oltraggiose, scattano nel fruitore: qualcosa a metà fra un angolo cottura hi-tech e un crematorio, con il ‘povero cristo’ che evoca, simultaneamente, un arrosto di cui sembra di poter controllare la rosolatura e una salma pronta per la cremazione.
Ma perché?