12 settembre 2008 - 12 settembre 2018 / David Foster Wallace. Mi manca comunque

12 Settembre 2018

C’è un piccolo brano di David Foster Wallace, lo si legge a pagina 184 de Il Re pallido (Einaudi, traduzione di Giovanna Granato) – il romanzo postumo, mai terminato e forse pubblicato troppo in fretta – che mi si è conficcato da qualche parte, chiamatela memoria chiamatelo cuore, dalla prima volta che l’ho letto e non mi ha mai più lasciato. Mi ritorna in mente con straordinaria frequenza, a metà tra la nostalgia per chi l’ha scritto e qualcosa con cui fare i conti. Il passaggio è questo:

 

«La nostra piccolezza, la nostra insignificanza e natura mortale, mia e vostra, la cosa a cui per tutto il tempo cerchiamo di non pensare direttamente, che siamo minuscoli e alla mercé di grandi forze e che il tempo passa incessantemente e che ogni giorno abbiamo perso un altro giorno che non tornerà più e la nostra infanzia è finita e con lei l’adolescenza e il vigore della gioventù e presto anche l’età adulta, che tutto quello che vediamo intorno a noi non fa che decadere e andarsene, tutto se ne va e anche noi, anch’io, da come sono sfrecciati via questi primi quarantadue anni tra non molto me ne andrò anch’io, chi avrebbe mai immaginato che esistesse un modo più veritiero di dire “morire”, “andarsene”, il solo suono mi fa sentire come mi sento al crepuscolo di una domenica d’inverno…».

 

Ciò che avvolge dopo averla letta è una particolare malinconia, non saprei dire quanto dolorosa, ma di certo sconfinata. Abbiamo spesso momenti pervasi da un senso di perdita che non sappiamo cogliere ma che ci accompagna. La perdita è la nostra traccia lasciata indietro, e la nostra ombra che si accorcia sui nostri passi buttati avanti. La malinconia è anche consapevolezza, e spesso è anche bella. Questo passaggio di Foster Wallace è, però, prima di ogni altra cosa, di una bellezza senza eguali; provoca in chi legge l’effetto che raggiunge solo la grande poesia. Quella particolare sequenza di frasi, il suono che fa, ti riporta a casa, a te stesso, a quello che sei, forse a quello che sarai. Ciò che senti non è ciò che sente, ha sentito, lo scrittore ma ciò che vedi in quelle parole; è memoria, è specchiarsi, è empatia, è commozione, è inevitabilità. Sei tu nelle tue domeniche d’inverno per come quelle immagini sono scritte e sono piene umanità. David Foster Wallace è stato un essere umano che, attraverso molte pagine meravigliose e stupefacenti, ha raggiunto dei punti nascosti dentro i lettori ed è per questo che da quando è morto, dieci anni fa, a molti manca come se fosse un amico. La stessa cosa mi è successa solo per Massimo Troisi, pianto come un amico carissimo che non ho mai conosciuto.

 

«La letteratura si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano.» (stralcio di intervista tratto da Un antidoto contro la solitudine, minimum fax 2013, trad. M. Testa, S. Antonelli, F. Pacifico). DFW si è occupato di noi, andando a cogliere la nostra precarietà, raccontando i nostri disagi e le nostre insicurezze; il mondo più che essere il nostro posto è qualcosa che piomba addosso a grande velocità; i suoi libri non indicano il modo con cui si possa reggere l’urto ma mostrano come si sta dentro l’impatto, quanto si soffra e si rida, e di come possa capitare contemporaneamente. Credo che tutta la sua opera, che si tratti di racconti, romanzi o saggi, sia stata in grado di farci vedere con chiarezza le nostre insicurezze, creando un meccanismo di empatia, dentro il quale invece di spaventarci, abbiamo trovato conforto. Il «Mi manca chiunque» pronunciato da Rick Vigorous in La scopa del sistema (Einaudi, trad. S. C. Perroni) lo abbiamo sentito (provato) almeno una volta nella vita.

 

 

In questi giorni è uscito, per Baldini & Castoldi, il libro di Karen Green artista e poeta, sua moglie, Il ramo spezzato (traduzione di Martina Testa). Sfogliando il libro (edizione limitata, molto ben curata) nelle prime pagine leggo: «Mi angoscia l’idea di averti spezzato le rotule quando ti ho tirato giù. Continuo a sentire quel rumore. Voliamo via dal mondo, no, come angeliche schegge di proiettile, ma allora perché quaggiù è tutto così pesante? Le tue gambe erano eleganti, e tu le piegavi con eleganza, non come un ragazzino che fa finta di avere gli zebedei troppo grossi.». Queste frasi tanto intime fanno male a tal punto che devo fermarmi e mettere via il libro di Green per un po’, ma sono anche rivelatrici. In poche battute entriamo nella parte privata del dolore e dell’amore, e capiamo (nel caso non ce ne fossimo accorti) che c’è un aspetto della storia di DFW che non ci riguarda, che non deve riguardarci. È un fatto privato anche se è scritto in più di un libro; quel suicidio è ancora privato, appartiene ancora a due persone soltanto, a chi piegava le gambe con eleganza e a chi è angosciato dall’idea di averle spezzate tirandolo giù. Quel tirare giù non ci appartiene né allora né ora né mai.

 

Il suicidio di DFW riguarda noi solo perché da quel giorno lo scrittore che abbiamo amato non c’è più, e ci riguarda perché l’intera sua opera - col senno di poi - con quel suicidio pare aver combattuto, o quantomeno discusso. E da quel giorno, anno dopo anno, abbiamo fantasticato di poterlo salvare, fantasticato che avremmo potuto cambiargli le pillole un’altra volta. Le pillole blu, come scrive Karen Green.

Leggere l’opera di David Foster Wallace non è facile per niente, lo dico dopo aver letto tutto ciò che è stato pubblicato in italiano di suo, compreso il libro di matematica (Tutto, e di più storia compatta dell’infinito, Codice ed., trad. G. Strazzeri e F. Paracchini), incomprensibile per un profano come me, ma ugualmente profondo, divertente in molti punti e toccante.

L’intrattenimento e la dipendenza sono i due grandi temi di Infinite Jest (Einaudi, trad. Nesi e Villoresi e Giua), ma sono in fondo i temi centrali di tutta l’opera di DFW, i due binari lungo i quali ci ha portato dai primi racconti de La scopa del sistema all’incompiuto Il re pallido. Infinite Jest è un’opera monumentale di cui ancora si discute e si discuterà. La amano in moltissimi, anche senza averla letta; la considerano sopravvalutata altrettanti, anche tra questi sono in molti a non averla letta. A mio parere è un capolavoro per struttura, linguaggio, profondità di ragionamento, per capacità di visione (e di previsione).

 

È un romanzo che ha segnato profondamente la storia della letteratura americana, un romanzo che non ha eguali. 1400 pagine, centinaia di note, decine di passaggi da citare e che abbiamo citato in tutti questi anni. Lo abbiamo letto faticando e divertendoci, passando con gli occhi colmi di stupore dall’Accademia di tennis degli Incandenza alle vicende di Don Gately e della casa di recupero per tossicodipendenti fino alle avventure dei separatisti del Quebec, nello stato denominato O.N.A.N e formato da Usa, Canada e Messico. Le tre parti del macroromanzo si inseguono, si sfiorano, ci prendono per mano, ci scuotono e ci parlano, insieme a una miriade di personaggi indimenticabili. Infinite Jest è un film ipnotico, che una volta guardato dà dipendenza, annullando ogni desiderio dello spettatore se non quello di rivederlo all’infinito. Un romanzo divertente ma non troppo divertente, diceva Foster Wallace. Un romanzo che fa ridere e piangere, e mette in comunicazione, dentro lo stesso dolore, lo scrittore e il lettore. Quando finisce quel libro pur essendoci divertiti si avverte un peso, e quel peso ha a che fare non solo con il talento sconfinato di DFW ma anche con la sua umanità, la sua depressione, le sue battaglie quotidiane. Quella sorta di intimo dolore che passava a perdifiato dai suoi appunti ai nostri divani.

 

«Che le attività noiose diventano perversamente molto meno noiose se ci si concentra molto su di esse. Che se un numero sufficiente di persone beve caffè in una stanza silenziosa, è possibile sentire il rumore del vapore che si leva dalle tazze. Che a volte agli esseri umani basta restare seduti in un posto per provare dolore. Che la vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi. Che esiste una cosa come la cruda, incontaminata, immotivata gentilezza.

Che Dio – a meno che non siate Charlton Heston, o fuori di testa, o entrambe le cose – parla e agisce interamente tramite degli esseri umani, ammesso poi che ci sia un Dio. Che Dio potrebbe inserire la questione se crediate nell’esistenza di un dio o meno piuttosto in basso nella lista delle cose sul vostro conto che a lui/lei/esso interessano.»

 

Questa sequenza di frasi tratte da Infinite Jest spiega ancora meglio quello che provavo a dire più su. Nel ritmo di queste parole c’è tutto David Foster Wallace: la capacità di analisi, l’attenzione per i dettagli, il talento per far vedere nella stessa serie di periodi tantissime cose; riuscire a farci sentire dal niente il dolore e mostrarci come possa generarsi la gentilezza senza motivo; rivelarci l’ansia, che era la sua, per il pensiero degli altri verso di noi e anche la totale indifferenza. E poi giocare con Dio e Charlton Heston per raccontare un’altra profonda verità. Ciò che avvertiamo leggendo Infinite Jest è presente in tutto ciò che ha scritto, lo sguardo ironico e divertito del saggista è sempre accompagnato dall’ansia e dalla capacità di sentire il disagio dell’interlocutore. 

L’altro suo grande merito è aver dato alla cultura pop la dignità del classico, era una questione che gli stava molto a cuore tanto da ribadire il concetto in più di un’occasione: «È semplicemente il tessuto del mondo in cui vivo».

 

Mi capita ogni tanto di rileggere alcuni particolari racconti, uno dei miei preferiti è in Oblio (Einaudi, trad. Giovanna Granato), si intitola Caro vecchio neon. 

«Quello che avviene dentro è troppo veloce, immenso e interconnesso e alle parole non rimane che limitarsi a tratteggiarne ogni istante a grandi linee al massimo una piccolissima parte.»

Anche in questo racconto i temi sono quelli della depressione, della dipendenza e una profonda solitudine. Il suicidio programmato di Neil, il protagonista, è il tema; raccontato post-mortem. Il racconto è un lungo monologo interiore che fa ridere e piangere, e ci porta di nuovo a quella connessione tra scrittore e lettore, senti il dolore, lo fai ridendo e vorresti prendere Neil e abbracciarlo; allo stesso tempo il monologo di Neil ci porta a fare grandi ragionamenti, a porci delle domande e a mettere in gioco alcune delle nostre convinzioni e lo fa già dall’incipit: «Per tutta la vita sono stato un impostore».

Mi è sempre parso che DFW avesse a cuore il lettore più di altri scrittori e che non si accontentasse di raccontare una storia, credo volesse raccontare tutto ciò che gli passasse per la testa e allo stesso tempo ritrarsi; il suo talento gli ha consentito di trovare una misura che raggiunge e tocca, spesso superando la capacità critica, commuovendo, che a pensarci bene è tutto ciò che conta. 

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