Un'intervista / David Grossman: la paura e la pace

21 Giugno 2021

David Grossman ha ricevuto il 19 giugno a Taormina il "Taobuk award 2021", un premio riservato ai grandi della letteratura mondiale, impegnati nella battaglia per i diritti umani e la democrazia e che, nel passato, è stato assegnato, tra gli altri, a Mario Vargas Llosa, Tahar Ben Jelloun, Luis Sepulveda. Lo incontro la mattina del giorno prima, a Bassano del Grappa, dove è in programma una conversazione con Mario Calabresi, organizzata dal Festival "Resistere" della Libreria di Palazzo Roberti. Non c'è nessuno scrittore che, come David Grossman, dedichi così tanto tempo a parlare della pace tra Israele e Palestina, nessuno come lui che prenda così sul serio il ruolo dell'intellettuale che crede nelle possibilità della parola e del dialogo per avvicinare gli uomini, anche quando sembrano separati da distanze siderali. Mondadori ha pubblicato, qualche mese fa, Sparare a una colomba (2021), una raccolta di saggi e discorsi (dal 2015 al 2020) che Grossman ha tenuto in giro per il mondo.

 

Ha ricevuto premi per la pace, lauree honoris causa da Università prestigiose, parlato in occasioni come la Conferenza sulla Sicurezza a Monaco o l'Anniversario della liberazione dell'Olanda: sempre, nelle sue parole, risuona la tensione dello scrittore offeso dal rinascere dell'antisemitismo, preoccupato dal modo in cui gli esseri umani affrontano l'arbitrio e la degenerazione della democrazia, sinceramente accorato nell'identificarsi, umanamente e moralmente, con le vittime, lui, a cui il conflitto israelo-palestinese ha ucciso un figlio ventenne.

Grossman è seduto a un tavolo nel parco di un hotel immerso nel verde, è al suo secondo caffè dopo il breakfast, indossa una camicia azzurra, un paio di jeans e una cintura celeste. La montatura rotonda degli occhiali e la corporatura minuta lo fanno vagamente assomigliare a Woody Allen, l'impressione è quella di un uomo mite e curioso delle persone che si trova di fronte.

 

D. Signor Grossman, lei è uno scrittore famoso, conosce le più importanti città internazionali e posti incantevoli come questo dove ci troviamo adesso. Potrebbe scegliere di vivere ovunque, perché si ostina a vivere in Israele, che lei definisce "un luogo fragile e pericoloso"?

R. Perché voglio vivere in un posto significativo e Israele lo è. Da tempo ormai immemorabile si trova in uno stato di guerra che costringe le generazioni a una lotta continua per affrontare e mantenere l'intreccio complesso dei rapporti umani. Vedo gli errori che molte persone del mio Paese commettono, alcuni terribili, ma io sono fatto della loro stessa materia, io sono parte di loro e, anche se ho pensieri diversi, li comprendo. Israele è stato riconosciuto recentemente dal Marocco, dal Qatar, dagli Emirati Arabi ed è un passo importantissimo. Tuttavia sono trattati di pace che rappresentano la pace dei ricchi. È la pace che tocca la vita della gente comune quella di cui abbiamo bisogno, la pace tra noi e la Palestina, i nostri vicini. Siamo stati per troppo tempo privati della vita, non riesco a pensare alla mia vita senza la paura. Non ho mai vissuto senza paura, non ho mai avuto un momento di pace nella mia vita, sarà per questo che la cerco e che la vorrei realizzata in Israele, dove sono nato.

 

D. Come si può raggiungere la pace, quella che le persone comuni desiderano, armando un esercito che, lei scrive, è decimo al mondo per dimensioni e potenza, pur in un Paese così piccolo come Israele. Armi e pace possono coesistere?

R. Nella nostra situazione sì. Mi risponda lei onestamente: vorrebbe vivere da israeliano nel Medio Oriente di oggi, senza avere la possibilità di difendersi? Non voglio un esercito che umili il nemico, ma dobbiamo essere consapevoli delle differenze tra noi e i palestinesi. L'illusione che ci terremo un giorno per mano guardando il tramonto lasciamola ai film. Zabotinskij, uno dei grandi ideologi della destra (Vladimir Zabotinskij, 1880-1940, è stato un politico russo, fu tra i capi del "revisionismo sionista", fondatore dell'organizzazione per l'autodifesa ebraica a Odessa. N.d.r.), aveva la sua teoria del muro di ferro. Io non voglio muri di ferro, semmai un muro, se ci deve essere, con molti cancelli e porte accessibili a tutti. Mi piacerebbe una pace sobria, dove Israele e Palestina provano a convivere.

 

D. Un muro c'è già (West Bank Barrier).

R. Credo che ci sia bisogno di un confine molto chiaro. Sia noi israeliani che i Palestinesi dobbiamo chiarire la nostra identità, confrontandoci. Abbiamo ognuno bisogno di una casa e, per averla, dobbiamo riconoscere la necessità di avere dei confini. Da sessantadue anni Israele non ha confini definiti, le sue frontiere sono instabili e vengono modificate, ampliate o ridotte, ogni decennio. E, nel nostro mondo, chi non possiede confini chiari è paragonabile a chi ha una casa dove i muri ondeggiano e la terra trema sotto ai suoi piedi. L'affinità di noi israeliani con questa terra non è artificiale, noi sentiamo che le nostre origini sono qui. Israele dovrebbe essere la nostra casa ma non lo sarà finché anche i Palestinesi non ne avranno una. Dobbiamo essere consapevoli delle differenze tra noi, non far finta che non esistano.

 

D. Lei vede possibile un nuovo stato democratico con uguali diritti per Palestinesi e Israeliani?

R. È possibile, ma non ora. È un'idea nobile ma qui, ora, non può funzionare perché le due parti si odiano così tanto che sarebbe distruttivo. Occorre educare alla libertà e alla collaborazione. Il Medio Oriente non è molto tollerante con le minoranze e non lo sarà con noi. Sono realista, non posso permettermi illusioni. So come funziona il Medio Oriente. Non riesco a immaginare due persone tornare fratelli di sangue, dopo essersi combattute così. La vita mi ha insegnato a essere sobrio, non disperato: sobriamente realista.

 

D. Per la prima volta un partito arabo-israeliano entra nell'esecutivo di governo israeliano. Come vede questa novità?

R. È un bene che l'era di Netanyahu sia finita, dopo dodici lunghi anni. Il nuovo governo eletto dovrà ora costantemente bilanciarsi tra i membri della coalizione, fare esercizio di dialogo. Ma la pace non sarà raggiunta durante questa coalizione, resterà sospesa tuttavia, importantissimo, non sarà dimenticata. Ci ricorderà che esiste in modo chiaro, forse violento. Perché l'unica cosa che assicura la nostra esistenza è la pace, dopotutto.

 

D. Sarà la cultura, invece della politica, a risolvere il secolare problema tra Israele e Palestina?

R. No, credo di no. Forse gli avvocati e i politici ci riusciranno. Le persone di cultura possono aiutarli, avvicinando gli individui perché nella cultura, nell'immaginazione, c'è libertà. Libertà è parlare e scrivere usando il proprio linguaggio intimo, non la lingua imposta dal governo.

Non riesco a immaginare uno scrittore che diventa primo ministro nella nostra realtà ma riesco a vedere bene l'importanza della letteratura, della musica, del teatro e del cinema per rendere le persone nuovamente umane.

 

D. Pensa che le élite degli scrittori, degli intellettuali, forse anche le élite politiche, debbano riscoprire la pedagogia? Dovrebbero cioè insegnare, fare scuola a chi ha meno strumenti per interpretare la realtà?

R. Come metodo magari sì, ma è questione di cosa insegnano e come. Non devono imporre idee, proclamando "io lo so meglio di te che sei ignorante", questo sarebbe un modo di delegittimare le élite culturali, che diventerebbero subito antagoniste. È sempre più importante comprendere le sfumature, le differenze sottili, soprattutto in una situazione imposta dalla politica. Solo imparando a capirsi, attraverso le sfumature, élite culturali e persone comuni potrebbero produttivamente incontrarsi.

 

D. Lei scrive libri per bambini. Perché lo fa?

R. Mi piace scrivere libri per bambini, penso di averne scritti almeno venti, tutti tradotti in italiano. Ci si può rivolgere ai bambini senza essere didattici o moralisti, soltanto illustrando al bambino la diversità del mondo, i tanti modi di guardare alla vita, oltre a quelli insegnati dai genitori. Guardare alla vita con sense of humour, per esempio, l'umorismo è assente in molte case. Mi piace anche, quando scrivo per i bambini, mostrare la ricchezza del linguaggio. Uso un linguaggio semplice ma aggiungo sempre una parola o due che sono sicuro i bambini non conoscono, una parola nuova che possano imparare. Ho un ricordo molto vivido di quando mio padre mi leggeva le storie della buonanotte. Se non conoscevo qualche parola mio padre voleva spiegarmi il significato ma io dicevo di no, perché volevo scoprirlo da solo. La curiosità di un bambino che si sforza di decifrare il significato di una parola che non conosce lo mette in relazione con i codici della famiglia, degli estranei, e arricchisce il suo linguaggio. Mi piacerebbe che i miei libri per bambini li preparassero alla crescita.

 

D. Nel libro Il prezzo della vita di Bruno Bettelheim l'autore si chiede perché sei milioni di ebrei sono andati allo sterminio senza mai opporre resistenza. Lei cosa risponderebbe?

R. Quegli ebrei erano persone civili, semplici, non violente. Non avevano mai tenuto un'arma in mano. Cosa avrebbero dovuto fare davanti alla potente macchina da guerra nazista? Più profondamente, penso che gli ebrei che hanno vissuto lo sterminio fossero frammentanti dentro. Hanno vissuto qualcosa di così umiliante e devastante da spezzare in loro qualunque consapevolezza del proprio potere di reagire. Erano increduli di essere trattati peggio degli animali. Io guardo con adorazione ai sopravvissuti della Shoa, alle persone che hanno continuato a vivere con un senso di disperazione e di colpa per essere vivi, di umiliazione. Ma hanno scelto la vita, hanno scelto di continuare a vivere. Ogni storia di un sopravvissuto ai campi di sterminio è più di una semplice storia. È un miracolo che ce l'abbiano fatta a continuare a vivere.

 


D. Crede che l'individualismo sia una caratteristica importante del popolo ebraico, che sia anche questo la causa di una mancata "resistenza"?

R. Non ne sono sicuro, in realtà siamo un gruppo, anche se diversificato. Abbiamo un antagonismo innato, più che essere individualisti. Mi viene in mente una storia che mi ha raccontato il Dalai Lama, quando lo incontrai a Gerusalemme. Era a New York con un gruppo di ebrei, intellettuali e scrittori, e chiese loro cosa rendesse "unico" Israele. Uno di loro rispose: "La diversità di opinioni". E subito, un altro: "Mi permetta di contraddirla".

 

D. Essere critici nei confronti di Israele non significa essere "contro Israele". O sì?

R. No, Israele deve poter essere criticato come gli altri stati che ambiscono ad essere democrazie ma non possono esserlo, almeno finché continueranno a sottomettere altri popoli. Credo sia possibile sentirsi parte di Israele ed essere critici nello stesso tempo, avendo commesso così tanti errori.

 

D. Si sente solo, o isolato, nella sua instancabile attività di promotore della pace?

R. Certamente non sono molte le persone che lottano per la pace o semplicemente la sostengono. Siamo appena usciti dalla quarta campagna elettorale e nessun partito ha mai menzionato la parola "pace". Viene considerata una parola sconveniente, che fa perdere voti, nonostante sia il problema principale in Israele. È assurdo, no? E sì, alla fine, mi sento abbastanza solo perché non sono molte le persone pronte a mettersi in gioco per il nostro riscatto. A volte è come andare contro la forza di gravità. Ma cos'altro posso fare? Se credi davvero in qualcosa, devi portare avanti ciò in cui credi.

 

D. Ha sempre espresso liberamente il suo pensiero? Mai avuto tentazioni di autocensura?

R. No, perché ho sempre limpidamente dichiarato di essere di sinistra, e di avere idee di sinistra. Non ho mai dovuto autocensurarmi perché ho da subito reso note le mie idee, tutti conoscono le mie posizioni. Non mi sono mai dovuto giustificare o scusare perché la penso in un determinato modo. Sinceramente non capisco le persone che non hanno un'opinione o, se ce l'hanno, non la esprimono pubblicamente, che non riescono a dire "sono di sinistra". Noa, la cantante, è una delle poche coraggiose, paga il prezzo delle sue opinioni controverse e viene alle nostre manifestazioni. È molto difficile riunire le persone, farle parlare, farle partecipare alle manifestazioni, perché hanno paura. Ci sono sempre meno agenti per la pace, la violenza e la paura creano i loro attivisti, che sono sempre più numerosi, di conseguenza sempre più persone si abituano alla violenza e all'odio.

 

D. Lei insiste sui concetti di "casa" e di "confini". Quanto è importante l'identità personale e quella di un popolo? La globalizzazione, la tecnologia, le mettono in crisi?

D. In un certo senso sì. Ossia, la globalizzazione e la tecnologia hanno portato molte cose positive, le nostre vite sono per molti aspetti cambiate in meglio, con Internet per esempio.

 

D. Lei usa i social network?

R. No, non li uso. So come funzionano e cosa accade al loro interno ma non li uso.

 

D. Molti scrittori, soprattutto americani, Jonathan Franzen per esempio, sono apertamente contro i social network.

R. Sì, lo so. Io non sono contro, penso tuttavia che non siano adatti a uno scrittore che deve lavorare duramente e in solitudine. I social divorano il nostro tempo, che è limitato, e bisogna scegliere. Io preferisco stare nel mio "bozzolo": il mio modo di vivere è ritirarmi in me stesso, l'unico modo che conosco di contribuire alla crescita delle persone e di attribuire maggior valore alle cose è attraverso la letteratura, che è un'attività molto diversa dallo scrivere sui social.

 

D. Ha paura dell'Apocalisse? Dell'idea apocalittica di futuro, come appare, per esempio, nell'ultimo libro di Don DeLillo, che prefigura un blackout tecnologico?

R. Più del blackout mi spaventano le catastrofi al rallentatore, lente e a lungo termine, come la povertà e la fame. Ma sono sempre spaventato dal futuro. Essere ebreo, in Israele, non ti permette di non aver paura del futuro.

 

(Ha collaborato Lavinia Elizabeth Landi)

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